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Autore: ToscaSam    13/07/2014    4 recensioni
Tutti conosciamo la "versione dei fatti" di Dante. Ma nessuno si è mai chiesto cosa provasse sua moglie, alla qale lui non ha mai dedicato nè un verso nè una parola
Genere: Introspettivo, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Beatrice, Dante Alighieri
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La donna mia
 
Quella mattina Gemma si svegliò di soprassalto, come se qualche spirito maligno l’avesse pizzicata durante il sonno e per dispetto l’avesse destata, tanto per farla rimanere assonnata e dolorante per il resto della giornata.
Le luci dell’alba stavano quasi per spuntare e il suo primo tentativo di conforto fu quello di voltarsi dalla parte destra del letto. Sperava di scorgere una figura simile a una crisalide, spesso raggomitolata, per quanto lunga e dinoccolata.
In aggiunta al mal di testa per il mancato riposo, si aggiunse un grande senso di vuoto e di sconforto, quando si accorse che nel letto assieme a lei non c’era nessuno. Suo marito se n’era andato di nuovo, ignorando di avere una moglie con cui condividere i giorni e le notti.
Siccome ormai non era possibile per la turbata Gemma avere un qualche sollievo, le rispuntò nella nebulosa e assonnata memoria quel che l’aveva fatta star male la sera precedente; il pensiero sul quale si era arrovellata sì tanto da averle impedito un riposo tranquillo.
“Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta”.
Quelle parole, incise nei suoi ricordi a caratteri infuocati come lingue d’inferno, la colpirono così forte che cadde dal lato del letto su cui pendeva.
Ora il dolore fisico per l’urto con il duro pavimento sopperiva a quello mentale, o meglio dire che ne rendeva una via terrena di esplicazione. C’era un buon motivo per Gemma di lasciar le lacrime calde solcarle le guance. Si era appena fatta male, poteva piangere, c’era un buon motivo.
Fu un poco sollevata dell’assenza di suo marito, in quel momento. L’ultima volta che l’aveva veduta con gli occhi gonfi l’aveva rimproverata così tanto da  farle uscire più lacrime che mai.
Le aveva detto che non aveva alcunché da lasciar cadere quelle amare gocce sulla terra. Lei non soffriva, le aveva intimato, come lui. Lei aveva una casa bella, buone finanze, una posizione sicura. Non aveva di che lagnarsi.
Ora che era rotolata giù dal letto, però, Gemma aveva un ottimo motivo per farlo e gli dette adito così tanto che parve quasi una bambina in lacrime per una bizza.
Quando un poco si fu calmata e il dolore non era più una buona scusa per lamentarsi, si alzò dal pavimento e si pose a sedere sul letto. Spettinata, arrossata e singhiozzante ritornò col pensiero a quelle frasi ch’aveva vedute sullo scrittoio di suo marito la sera prima, quando lui non era ovviamente in casa per desinare e lei aveva osato sbirciare fra le sue carte.
la donna mia” recitavano i versi.
Non erano per lei, come aveva scioccamente creduto alla prima occhiata. Lui non pensava mai a lei. quindi la donna sua non era lei, Gemma, Gemma Donati, moglie legittima di Durante Alighieri, Dante.
“Non sono la donna sua. E chi sono io? Che ci faccio in questa casa, protetta da queste mura, con quest’anello al dito e con questo nuovo mio cognome?”.
Lei non era la donna sua.
Lo sapeva bene per chi erano quei versi così dolci e meravigliosamente atroci. Niente le era più chiaro in testa di quel viso benevolo e sorridente. La rabbia che s’era costantemente impossessata di Gemma le suggeriva spesso che non c’era nemmeno la minima grazia in quella giovanetta. Occhi scuri e capelli marroni. Ben lontani dai suoi bei capelli chiari come il miele e dai suoi occhi azzurri come il cielo. Che Bice Portinari non fosse bella era un dato di fatto così evidente che l’odio di Gemma le faceva sfiorare vette impensabili di smania. Era inutile pettinarsi i capelli e farsi trovare bella a suo marito, quando si degnava di salutarla entrando in casa. Non c’era nulla da fare.
Lei non era la donna sua.
Con la stessa aria febbricitante, Gemma si alzò dal duro materasso e si diresse verso il suo luogo di tortura: lo scrittoio di Dante, suo marito, arditamente chiuso con uno stratagemma che ormai non era più un problema per la moglie. Oramai non c’erano segreti che lei non riuscisse a scoprire e di cui puntualmente non dovesse dolersi.
Come una martire si affrettò a far saltare il marchingegno che chiudeva il cassetto dello scrittoio e scrutò se dentro vi fossero nuove carte da analizzare e nuovi motivi per star male.
Una pergamena nuova, arrotolata e chiusa con un fil di spago, attirò l’attenzione di Gemma, che l’aprì:
tre fiere al limitar di una selva di dolore. Lonza, lussuria; leone, boria; lupa, scarna avidità. Peccati miei più grandi e frequenti. Inferno, purgatorio, paradiso. Trovare ruolo per Bice, sicuramente in Paradiso”.
L’ennesimo sospiro esalò dalle labbra di Gemma, che si lasciò scivolare sulla sedia di legno.
Senza dubbio erano le idee per una nuova poesia, ipotizzò la giovane donna, giacché suo marito si dilettava nell’arte scrittoria. Quando riusciva a leggere alcune sue pagine complete sentiva che eran belle, ma non osava mai compiacersi di quello stile meraviglioso. Ogni verso che la capace mano del marito fissava su questa Terra, risultava immancabilmente uno strumento di tortura per la silenziosa moglie. E pensare che l’avevano cresciuta dicendole che era bella e che avrebbe avuto una vita felice dopo il matrimonio.
Se quella era la felicità, Gemma avrebbe preferito esser più brutta, più povera, e chiamarsi anzitutto Bice Portinari.
C’era da trovarle un ruolo nella nuova poesia, povera Bice. Che avrebbe fatto? La santa immacolata qual Dante la dipingeva sempre? Nel Paradiso, sicuramente, ci mancherebbe altro.
Come faceva Gemma a non provare odio puro e incontrastato verso una giovane alla quale non aveva nemmeno parlato?
L’aveva scorta, una volta in particolare, per il mercato. Quella se ne andava fra la gente, con un bel crocifisso al collo a mo’ di monaca, e dispensava sorrisi e buone parole a chiunque la fermasse.
Quale pena dover odiare una donna che non fa altro male se non quello d’esserci.
 
Riuscire a passare incolume la mattinata dai dolori dello spirito, fu per Gemma un traguardo importante. Troppe volte si era scoraggiata a partire dai primi albori.
Se però al momento del risveglio avesse saputo quel che l’attendeva durante il pranzo, si sarebbe ricacciata volentieri nella nottata di ansie e paure che aveva appena scontato.
Quale peccato, povera Gemma, l’aver creduto di poter far felice tuo marito. Quale peccato, l’essersi acconciate dinnanzi allo specchio, aver pettinato i capelli, l’aver colorato il tuo sguardo.
 
« Che è il dimonio che vedo in casa mia?»
Disse la voce di tuo marito, appena giunto da chissà dove.
Il sorriso di Gemma, spento sulle labbra ancor prima di sorgere, si tramutò in una smorfia che annunciava un’altra crisi. E davanti a Dante avrebbe avuto anche esiti peggiori.
Lui se n’accorse, aveva un occhio attento e intelligente. Con le dita sfiorò il mento di sua moglie, in una fredda carezza: gli occhi infatti erano gelidi e per nulla amichevoli. La guardava come se fosse un rifiuto, un qualcosa che per caso si trovava ad essere lì anche se non aveva alcun diritto di starci.
« Tu se’ bella di una bellezza che fa onta a Dio. Guardati, donna di Satana, come sei concia: capelli morbidi e improfumati per irretire i miei sensi, labbra carnose e rosse come mele di Eva, occhi serpenteschi per attirarmi nella fatale trappola. Tu sei una gemma che si vende a caro prezzo fra gli uomini, ma Dio, della tua bellezza, se ne disgusta!».
E quello fu il saluto che Dante Alighieri riserbò a sua moglie.
E la pianta dell’odio cresceva nel cuore indurito di Gemma, ma poté far nascere i suoi frutti solo pochi anni successivi.
 
***
 
Molte cose cambiano e si ingrandiscono in una manciata di anni.
Era cresciuto l’odio, così come la pancia di Gemma, dentro la quale si formava il primogenito di Dante Alighieri. Mutato era il tempo, sulle rughe dei volti anche se tuttora giovani, e sopra ogni cosa, mutata era la vita, per Beatrice Portinari.
In quella notte d’estate, una grossa febbre se l’era portata via, come succedeva spesso in quei tempi.
Gemma non vedeva il suo marito per giorni, sapeva che se ne vagava per Firenze, colmo di pensieri e di tristezze.
Seppe di una chiesa, nella quale la salma della giovane Portinari era esposta, prima del trasporto. Quale voce le suggerì di andare, Gemma, non lo volle sapere, eppure l’ascoltò.
Una volta là, Gemma non seppe frenare un desiderio terribile e, dopo aver dato un’occhiata in giro per controllare che nella chiesa solitaria non ci fosse nessun’altro, si avvicinò alla morta, fredda e pallida; poi le tirò uno schiaffo.
Quello echeggiò rumoroso fra le fresche e ampie arcate della cappella.
La testa di Beatrice, ora voltata da un lato, non pareva aver sofferto di quel dolore. Se ne rimaneva impassibile, come beffarda, circondata dai suoi fiori. Come a dire “Gemma, credevi di farmi male? Non vedi come dormo bene?”.
La mano di Gemma era alzata e tremante.
La puntura di una zanzara prude meno quando sei riuscito a schiacciare la zanzara.
 
Che quel gesto le fosse costato l’ira divina e una punizione eterna, oramai non le importava. C’era un gusto malsano dietro a quel che aveva fatto.
Il fiume dei suoi pensieri sgorgò fiero e tempestoso. E la terribile gioia che Gemma si sentiva in corpo assunse la concretezza di un pensiero.
Vattene in quel paradiso dove lui t’ha incastonata. Vattene a fare la santa. Dio ti voleva in cielo, vedi? Non in terra. Vattene da questo posto dove hai sparso altro che male e dolore. C’è chi piange per la tua dipartita verso il Signore e chi ha pianto tanto perché il tuo soggiorno qui è stato troppo lungo. Tu hai fatto solo del male. A me sei stata solo un dolore. Vattene, vedi? Non c’è posto per te qui. Vattene a cantare fra gli angeli, a tessere la lode a Iddio, a proteggere le buone anime dall’alto. Lasciami in pace, ora, e stattene lassù. Togliti dalla mente dei terreni, sii solo nel pensiero di Dio. Svanisci dal mondo, ammaliatrice ultraterrena.
Io qui mi vendico con la mia vita. Io, popolana delle cose terrene, io viva, io persona e tu morta, spirito. Io avrò avanti a me ancora tanti anni e tu li hai finiti qui. Tu non invecchierai e ti dissolverai mangiata dai mostri della morte. Io vivrò e tu sarai lontana. Non mi lancerai più i tuoi indiretti malefizi. Te ne starai distante, e il ricordo del tuo volto svanirà come una pozza d’acqua.
Io resto e vivo. Morirò anch’io, si. Ma io sarò stata moglie di Dante e tu no. Il figlio che io porto in grembo io lo partorirò e tu non ne avrai mai. Non sarai madre, sarai arida e inesistente.
Vattene a Dio. Sii il suo angelo prediletto.
Lontana da me.”


--- l'angolo dell'autrice
Questa storia partecipa al contest “Ci rivedremo a Filippi”, indetto da Chloe R Pendragon.
È un contest incentrato sulla vendetta. Io ho scelto il pacchetto “schiaffo”, che conteneva la citazione “la puntura di una zanzara prude meno se sei riuscito a schiacciare la zanzara”.
 
  
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