Jace se ne stava
lì, rannicchiato tra i cuscini
neri e bianchi. Il luogo in cui si trovava era un mistero anche per
lui. Non
gli interessava, desiderava unicamente il sonno e sapere che non
l’avrebbe
sognata, perché il pensier di lei, che spariva tra le sue
mani, lo logorava. E
respirava a fatica, quasi non ci riusciva. Clary, la sua Clary,
penetrava i
suoi pensieri come se fosse stata sempre parte di essi. Non trascorreva
giorno
che non la pensasse, notte che non la sognasse e perderla, ormai,
significa
davvero troppo. Si portò la coperta alle labbra, in modo da
lasciare che il
naso fosse libero e potesse offrirgli una respirazione migliore. Azione
vana,
d’altronde. Il suo tormento non aveva nulla a che vedere con
quel che accadeva
all’esterno. Non era nulla che avrebbe potuto controllare,
gestire come meglio
credeva. Una luce balenò nella lugubre stanza e si chiese
cos’altro l’Angelo
pretendesse da lui… stava forse mettendo alla prova la sua
pazienza? Jace non
era mai stato incline alla sopportazione, bensì alle
missioni suicide, che
apparivano provocargli grande eccitamento. Quanto ci si potesse
concitare
dinanzi alla morte, ahimè, non l’ho mai compreso.
Sfidava, sorrideva, esortava
l’oblio, probabilmente la sua unica fonte di piacere e di
evacuazione. Quel
ragazzo aveva fascino, ma non quanto il suo antenato, si disse
l’uomo avvolto
dalle ombre. Jace fu in procinto di alzarsi e massacrare quello che
pensava
fosse un demone, sino a quando quest’ultimo si
rivelò, allontanandosi dal
pomello della porta.
«
Ma
chi diavolo… Magnus? » chiese, tentando di
occultare la sua incredulità.
Lo
stregone fece un lieve cenno col capo e si guardò attorno,
rilevando col suo
sguardo l’impudico stato in cui erano tenuti i libri, seppur
dubitasse che
fossero suoi. Jace non avrebbe mai letto “Come
divenire un’ottima casalinga” o
“L’amore
ha il sapore di fragole”, ma non poteva in egual
misura accettare che fossero
stati ordinati con tanta negligenza. Riuscì a sorvolarci,
solo dopo aver sfoggiato
le sue scarpe a forma d'anatra, provocando in Jace spavento ed orrore.
Appariva
sul serio intimorito da loro, ma si persuase che stesse solo
scherzando, finché
la sua convinzione cessò quando Jace gridò:
« Dannate anatre! » e in quel
momento non potette far altro che rimpiangere i tempi in cui le anatre
non
erano inveite da Shadowhunters scontrosi e avvenenti. Avendo degli
infradito a
sua disposizione, scelse di denudarsi delle sue carine e simpatiche
scarpe,
seppur le adorasse. Guardando Jace con quell’aria
irriverente, si chiese perché
mai ci tenesse tanto. Era il Parabatai del suo ragazzo, ma per lui le
convenzioni degli Shadowhunters non erano importanti, e poi, Alec non
sapeva
neanche che fosse lì. E allora… quale motivo
l’aveva spinto a lasciarlo a
Parigi, mentre dormiva e a correre dietro al suo migliore amico, a suo
fratello?
Rivedeva in lui l’anima tormentata di Will, ma non era sicuro
che potesse amare come
Will…
«
Non
dovresti portare ai piedi quelle anatre cannibali; tutti sanno che sono
pericolose. » si
lamentò Jace,
riuscendo a rianimare il suo volto
cereo.
«
Dimenticavo
quanto poco fossi avvezzo al pericolo. » ironizzò
Bane, suscitando in Jace un
assetato e consueto desiderio di controbattere. In altre occasioni
avrebbe dato
libero sfogo al suo sarcasmo, ma malgrado la battuta di Magnus avesse
alimentato la voglia di compierlo, lo represse. Con un ghigno annoiato,
scelse
di stendersi sul materasso duro e sottile. Era una tortura per la sua
schiena,
ma data la prostrazione che albergava in lui, anche un tavolo avrebbe
potuto
soddisfare i suoi bisogni. La stanza era talmente tetra da poter fare
invidia
ad una prigione della Città Silente, ma era presente Magnus
ad illuminarla coi
suoi glitter. E lui non era uno sciocco, aveva vissuto abbastanza da
comprendere che Jace non stava bene. Herondale, Lightwood o come aveva
deciso
di chiamarsi, non aveva voglia di irriderlo, di vantarsi, di farsi
beffe di
qualsiasi altro essere animato e non che non fosse lui ed aveva una
cera
orrenda. Lo stregone si domandò perché mai
dovesse farsi carico di tutti i
problemi degli Shadowhunters, ma ne trasse che avrebbe dovuto smetterla
di porgersi
domande alle quali neanche l’eternità avrebbe dato
risposta.
«
Dimmi…
dov’è Clary? » chiese Magnus e al che
Jace si portò un cuscino all’orecchio.
Non voleva ascoltarlo, ma non riusciva nemmeno ad illudersi che
così avrebbe
fatto desistere lo stregone.
«
Ergo
è lei la causa della tua angoscia. Ma perché il
più grande problema degli
Herondale è sempre l’amore? » si chiese
ad alta voce, provocando finalmente
Jace.
«
Se
per problema d’amore intendi “sognare di uccidere
la persona a cui tieni di
più”, sì, ho un problema e sono un
pericolo pubblico. » sbottò il ragazzo, i
cui occhi color ambra balenavano nell’oscurità.
«
Suppongo
che ti sia tenuto alla larga da lei, dato che a quest’ora
avresti dovuto
trovarti all’Istituto e non qui, in codesto tugurio.
» commentò Magnus,
roteando gli occhi tirati. Più guardava quel luogo e
più gli provocava
ribrezzo, indi per cui scelse di rivolgere la sua completa attenzione a
Jace
che, seppur –a parer suo- non fosse bello quanto Alec, era un
bel vedere. E un
bel vedere, per Magnus, era motivo di grande contemplazione artistica.
Alec, ad
esempio, era uno dei più bei ragazzi che Magnus avesse mai
visto: alto, dal
fisico atletico e il miglior abbinamento possibile di occhi e capelli:
iridi
cerulee e chioma corvina. Non era quello il momento di pensare ad Alec,
ma
forse un pochino avrebbe dovuto, visto che il giorno dopo si sarebbe
svegliato
senza di lui…
«
No, Clary non vive all’Istituto. La madre si preoccupa che
possa restare sola
con me di notte e mi preoccuperei anch’io, al suo posto. Che
mi odi, questo è
certo e non che me ne vanti, ma tutte le persone sane di mente mi
odiano. »
confessò, in modo così malinconico che
Magnus avrebbe preferito rivedere Camille.
«
Sua
madre non ti odia, Jace. Magari non le piaci, ma quale fidanzato piace
ai
genitori dell’altro? » domandò
retoricamente Bane, schiaffandosi una mano sul
volto e si chiese mentalmente, ancora una volta, cosa ci facesse in
quell’abituro.
«
E
comunque… se Clary non vive all’Istituto,
perché sei qui? » fece Magnus,
costringendosi a non guardare la pila di libri sparsi per terra e
quelli
ordinati alla bell’e meglio.
«
Te
l’ho detto: sono un pericolo pubblico e non voglio scalfire
chi amo. Amare significa distruggere ed
essere amati
significa essere distrutti. » recitò
Jace, più fermo che mai sulla sua
decisione.
«
Ed ergo, saggiamente, hai
pensato bene di disgregare te stesso. Non è così?
Pensi che lei non soffra
quando la tua anima si lacera, quando il tuo spirito si corrode? Non
credi che
lei sappia, in cuor suo, che sei tu ad
infliggerti il male che provi? E no, non esordire col dire che vuoi
proteggerla, perché sei solo un egoista. Se avessi pensato
veramente a lei,
anche un solo momento, sapresti che i tuoi sogni non sono che
l’ultimo pensiero
della notte e che quello del giorno, quello che lascia respirare il suo
animo,
sei tu
e sa che non le potresti mai recar danno.
Jace, quante possibilità ci sono che tu le faccia del male?
Il sol pensiero ti
lascia privo di vita e, allora, come puoi pensare che ne saresti
capace? » era
Magnus a parlare, a lasciar fluire come l’acqua tutti i
pensieri tersi e
genuini che aveva nutrito sino ad allora per loro, che in un modo o
nell’altro,
partecipavano alla sua vita. Non si pentiva di averlo rimproverato,
sapeva che
sarebbe stato l’unico modo per farlo rinsavire.
«
Buonanotte.
» sibilò Jace, non dando parvenza che ci fosse
altro da dire. Magnus non pensò
che le sue proposizione fossero state gettate al vento, era risoluto
che il
ragazzo l’avesse compreso e che simulasse solo di dormire
per non rispondere.
Jace, difatti, prediligeva il silenzio al convenire con
l’altrui, motivo per il
quale continuò a pensare a Clary, al fatto che
l’avesse sempre compiuto, ma che
non si fosse mai curato di ciò che pensava lei. Rivolse un
pensiero anche a Magnus,
il quale si era addormentato seduto su una sedia e con la testa
appoggiata alla
spalla. Sembrava un gattino e –poverino!-
solo l’Angelo sapeva come avrebbe spiegato ad Alec la sua
assenza e -non per
cortesia, né per ospitalità- Jace si
alzò e lo distese sul letto,
addormentandosi poco dopo sulla sedia.