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Autore: ifeelconnection    14/07/2014    4 recensioni
Trailer ff (solo dal pc) : https://www.youtube.com/watch?v=Qo_-XTvXL18&list=UUkTpHJdJ_jh70flk4GhRISg
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E’ l’ultima settimana al Norwest Christian College e Juliet non potrebbe essere più contenta. Con lei c’è Ashton, tra loro c’è sempre stato feeling , ma Ashton e Juliet sono come la corrente elettrica: non sai mai quando può saltare. Una sera si rendono conto che c’è qualcosa di sbagliato nel loro amore, un filo invisibile che li lega, troppo stretto per lasciarli andare ma troppo lungo Poi ci sono Luke e Violet: non sono amici, non sono fidanzati, non sono da etichettare, non ce n’è bisogno. Luke ed Ashton sono in una band, i 5 Seconds of Summer, con Calum e Michael. Calum è un Romeo, ma forse le cose non devono andare come vorrebbe. Michael invece non si fa capire da nessuno, tranne che da Violet. In quel giorno di Gennaio le cose cambiano,quel pomeriggio arriva : forte , terribile , inevitabile. Sarà una lotta tra vita e morte per salvare loro stessi. Le convinzioni saranno stravolte, dovranno combattere per riavere quello che erano e faranno i conti con qualcosa di più grande. Rimane solo una certezza: la loro musica. Avranno il coraggio di ricomciare?
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Feeling Connected

Ashton


ATTENZIONE! Presenza di contenuti forti!









“I'm wide awake
Yeah, I was in the dark
I was falling hard
With an open heart
I'm wide awake”

 
 
Giorno 1, settimana 1, Ashton Irwin: sopravvissuto.
Caro Diario,
sono fortunato ad averti trovato. Sei l’unica certezza che mi è rimasta. Se dovessi uscire vivo da questa situazione, avrai tu il compito di raccontare tutto, io non sono forte abbastanza.
Mi svegliai, senza intenzione di alzare il capo, la prima mattina. Provai a sollevarmi anche di poco, ma ogni piccolo movimento mi provocava dolori lancinanti dappertutto. Sentivo la testa pesante, che ogni tanto mi pulsava. Pensai che l’onda anomala avesse fatto sì che restassi in uno stato di confusione. Decisi, quindi, di restare ancora un po’ disteso su quello che riconobbi fosse asfalto sporco e rotto, tant’è che sentivo la terra stessa sotto la pancia. Quel luogo sconosciuto sapeva di vecchio e abbandonato. Un odore acre e triste, che mi mise persino paura. Paura di essere veramente solo, abbandonato.  Aprii un occhio e poi l’altro. Notai diversi alberi attorno a me. Alcuni sradicati da terra, altri spezzati. Nessuno era intatto. Mi sentii improvvisamente fortunato. Se anche la natura aveva ceduto, io ero veramente forte. Ero sopravvissuto a una catastrofe naturale. Non so quanti danni avessi riportato, ma ero vivo ed era questo l’importante. Ero vivo. Sopravvissuto. Non sapevo quanti dei miei amici fossero nella mia stessa situazione. Avevo paura.  Avevo paura che fossero morti. Che fossi solo. Non sapevo se la mia famiglia stesse bene. Non sapevo nulla. Non avevo solo paura: ero anche consapevole di essere solo.
Decisi che non potevo alzarmi in piedi e rischiare di aggravare la mia situazione. Optai per l’unica opportunità rimasta. Non potevo rimare steso per sempre. Sarei morto di fame o a causa delle ferite. Rotolai su un fianco, ignorando il dolore alla gamba destra. Dovevo avere un’espressione terribile in volto. Pensavo che sarei morto da un momento all’altro e solo a causa del dolore. Mi feci forza e riuscii a mettermi seduto.
Notai con piacere che mi trovavo nei pressi di una struttura restata in piedi, sebbene abbandonata. L’edificio era un usuale palazzo rettangolare, non esageratamente alto con diverse finestre. Somigliava a un palazzo pubblico. Decisi che quando mi fossi sentito più in forze, sarei andato a darci un’occhiata. Per fortuna, non ero messo troppo male, ero ancora rimediabile. Con un po’ di tempo, riposo e bende, mi sarei quasi completamente rimesso. Il problema principale era solo e soltanto la paura. Una paura profonda che non se ne sarebbe andata fino al momento in cui tutto sarebbe tornato alla normalità.
Esaminai la gamba destra, dato che era la parte più ammaccata, a mio avviso. Lo schianto causato dall’acqua mi aveva ridotto la gamba peggio delle altre parti del corpo. Riportavo una ferita piuttosto profonda in verticale su tutto il polpaccio. Il sangue si era fermato, ma ne era uscito parecchio, supposi. Motivo per cui dovevo essere svenuto. La ferita era pulita, in superficie; ma essendo profonda dovevo disinfettarla al più presto e bendarla. Avevo diversi graffi su tutto il corpo e i vestiti erano ridotti in brandelli. Potevo avere un paio di costole rotte, visto l’anomala forma del ventre e la fatica a prendere respiri più profondi. Del resto, solo qualche livido e forse qualche ferita sul viso. 
Ringraziai qualsiasi divintà esistente per le mie condizioni fisiche e pregai che le gambe mi reggessero. Queste situazioni rendono particolarmente credenti, penso. Prima di tentare, ispezionai lo spazio di terra e asfalto intorno a me, in cerca di qualcosa di utile. Notai un ramo, piuttosto robusto a qualche passo da me. Pensai che la fortuna fosse dalla mia parte e mi sentii un traditore, quando probabilmente molti erano morti direttamente, soffocati dall’acqua. Strisciai fino a che non riuscii a prendere la mia inusuale stampella.
Mi issai sulla gamba sinistra, che sembrava più forte e trascinai su la destra, aiutandomi con il ramo conquistato da poco. Seppur con fatica, riuscii a mettermi in piedi.  Provai a fare un passo con il piede destro, ma la stampella non mi aiutava più di tanto, avrei avuto bisogno di un altro ramo, per reggermi saldamente. Quando appoggiai il piede a terra, una raffica di scosse elettriche mi percorse tutta la schiena, provocandomi tanto male da far girare la testa. Non era solo una ferita, quella che avevo.
Resistetti. Dovevo raggiungere l’edificio. Feci ancora un paio di passi, sorpassando un albero, ma questa volta non riuscii a sopportare il dolore e caddi a terra. Non mi feci granchè male, non più di quello che avevo già, per lo meno. Quella sensazione di non reggere, di non farcela però, mi colpì nel profondo, radicando in me un senso di rabbia e una voglia di combattere senza precedenti. Tentai più volte di rialzarmi, ma la gamba non voleva saperne di collaborare.
Quello che venne dopo, però, fu solo orrore e paura. Non ero caduto sulla terra, come avevo pensato. Bensì, mi trovavo sopra il corpo freddo di una ragazza senza vita. Non potevo dire da quanto tempo la vita non scorresse più nelle sue vene, ma doveva essere morta durante lo tsunami, quindi pensai da qualche giorno, non sapendo quando tempo io fossi rimasto incosciente.
La paura mi corse nel sangue un’altra volta. Mi sentivo così solo che sentii le lacrime riempirmi gli occhi. La paura non aveva mai avuto un effetto così dominante su di me, eppure in quel momento era l’unica cosa che riuscivo a sentire. Non sentivo nessun suono, nessun odore. Solo paura.
Mi scansai dal corpo morto e mi accasciai a terra sconfitto, portando le gambe al petto, in posizione fetale. Lasciai andare le lacrime, che mi bagnarono le guance per diverso tempo, senza fermarsi. Sembravo un bambino.
Un bambino senza la sua mamma, pensai.
Mi addormentai sfinito, senza l’ombra di essere forte.
Furono solo alcune ore dopo, forse tante, che fui svegliato da una voce che diceva il mio nome. Restai ad occhi chiusi. Forse stavo sognando. Nessuno conosceva il mio nome. Ero solo. Ero vicino ad un edificio abbandonato. Chi poteva conoscermi?
“Ashton! Ashton, andiamo, svegliati!” la voce cominciò a spezzarsi, singhiozzando. Era una voce di ragazza. La conoscevo. Non poteva essere vero, stavo sognando.
Aprii velocemente gli occhi, cercando di tranquillizzare sia la voce, sia me stesso.
“Juliet.” Riuscii a pronunciare flebile.
Juliet si presentava come sulle spiaggia, qualche giorno prima, solo un po’ ammaccata. Aveva i capelli legati in una treccia, qualche taglio sulle braccia, dei graffi in viso, ma tutto sommato stava bene, dato che riusciva a camminare. Quando notò che respiravo e avevo detto il suo nome, mi si catapultò addosso, cercando di non pesarmi e abbracciandomi come meglio poteva. Non aveva smesso di piangere, ma supposi piangesse di sollievo.
“Ash, sei vivo, oddio, ho avuto così paura che fossi morto, perché-” singhiozzò, prese fiato e  continuò “perché ho trovato il cadavere di quella ragazza e tu non davi segni di vita e io pensavo di essere sola e che tu fossi morto.”
Mi aveva chiamato Ash. Era da tanto tempo che non lo faceva. Sentii una sensazione quasi piacevole crescere dentro di me. Juliet mi era mancata e averla lì, con me, dopo tutto quello che era successo, che mi abbracciava migliorava qualsiasi cosa. Lei era viva. Lei stava bene. Lei era lì con me. La paura andava affievolendosi. Non ero solo. Non ero spacciato. Potevamo veramente farcela.
“Stai bene.” Biascicai in risposta. Non riuscivo ad esprimere la mia felicità nell’averla trovata, ma lei sembrò coglierla, si alzò da me e mi sorrise.
“Sì, non mi sono fatta troppo male. Tu invece sembri distrutto.” Osservò dispiacendosi, come se fosse stata colpa sua per non essere arrivata prima.
“Ho questa ferita che mi impedisce di camminare…” annuii consapevole. La vidi rabbuiarsi “ma sto bene” mi affrettai a dire per tranquillizzarla. La verità era che a stare male eravamo entrambi, solo che io lo ero anche in senso fisico. Il dolore lancinante alla gamba sembrò affievolirsi e passare in secondo piano quando Juliet mi chiese
“Cosa pensi sia successo agli altri?”
Rimasi spiazzato, una parte di me si era promessa di non pensarci ma con quella semplice domanda affiorarono in me tutte le peggiori ipotesi, come sicuramente succedeva a lei. Era questo quello che succedeva con Juliet, con una semplice domanda riusciva a smuovermi dentro, come se mi anticipasse nei pensieri.
“Preferisco non pensarci.”
Risposi semplicemente; ed era vero. Non volevo martoriarmi la mente con pensieri come quelli, ero davvero felice di non essere solo, per quanto nel profondo del mio cuore i nomi di tutti quelli che avevo perso continuassero a risuonare. Leggevo negli occhi della moretta che anche dentro di lei si facevano strada dei nomi che entrambi evitavamo di pronunciare e che entrambi speravamo di rivedere, con tutti noi stessi. Negli attimi di silenzio che seguirono continuai a ripetermeli tutti: Anne Marie, Harry, Diana, Alyssa, Calum, Luke, Michael, Violet. La mia famiglia e i miei migliori amici.
Fu Juliet a rompere il silenzio.
“Non puoi stare qui, quella ferita si infetterà a breve.”
“È già infetta” dissi con un’espressione contorta provocatami da una fitta proprio alla gamba “e fa male.”
“Non è un bene, Ashton,” rispose lei guardandomi preoccupata “devo portarti dentro, vediamo se c’è qualcosa.”
Non sapevo se lei ce l’avrebbe fatta a portarmi dentro, per quanto non desiderassi altro.
“Juliet non posso camminare.”
“Ti terrò io, non  è molto lontano, posso farcela.”
“Cerca solo di tenerti in piedi almeno tu.”
Presi di nuovo in mano il bastone e tentai di mettermi in piedi, riuscendo a tenermi giusto il tempo necessario a Juliet per afferrarmi. Sentivo la presa della sua mano intorno al mio polso, mentre con l’altro mi facevo forza sul bastone, evitando di usare la gamba dolorante. Juliet mi sosteneva con vigore, come se la forza di volontà la aiutasse a non crollare, e forse era proprio così. Ogni passo era uno strazio di dolori che mi correvano lungo tutta la schiena e cominciai a sudare per lo sforzo. Nonostante ci fossimo avvicinati, la porta dell’edificio sembrava sempre più lontana e la mia vista cominciò a colorarsi di luci, provocate dallo sforzo e dai dolori combinati.
Le costole mi facevano sempre più male e sembravano stringersi, tanta era la mia difficoltà nel respirare. Juliet se ne accorse e mi guardò molto scossa
“Dobbiamo fermarci, stai per svenire.”
Mi disse con voce tremante.
“Starò molto peggio se non ci affrettiamo a entrare, guarda dove siamo.” Le indicai con un cenno minimo della testa l’insegna coperta per metà da un telo piuttosto sporco. “Saint Mary’s Hospital.” Recitavano i caratteri cubitali su di essa.
“Non potevamo chiedere di meglio. È fuori uso da quasi un anno, è dove sono nata.”
“Anche io sono nato qui. E non intendo morirci, quindi dobbiamo continuare.”
Non rispose e riprese a camminare, tenendomi ancora più saldo, come se la forza le fosse tornata. I cinque minuti che seguirono restano nella mia memoria solo per il dolore che provai nel percorrere quella poca strada. Una volta entrati attraverso quelle che sembravano le porte della salvezza, trovammo dei calcinacci che popolavano il pavimento, segno che anche la struttura presentava dei seri danni. Fu per questo che decidemmo di fermarci nella prima stanza dopo l’ingresso, in modo che in caso di un crollo o qualsiasi cosa potessimo scappare, per quanto mi fosse consentito dalle mie condizioni. Sulla porta c’era scritto “Registri” e nella stanza c’erano solo tre pareti completamente ricoperte da scaffali pieni di faldoni e raccoglitori pieni di fogli, un divano con alcuni cuscini e un distributore automatico quasi completamente vuoto. In quei mesi di inattività nulla era stato rimosso, era come se il tempo lì dentro si fosse fermato e immaginai che quella fosse la stanza degli infermieri, dove scappavano dall’ambiente asettico e monotono dell’ospedale. Quanto avrei voluto ci fosse un infermiere.
Ringraziando per la cinquemillesima volta il cielo per essere arrivato fin lì, chiesi alla ragazza
“Cosa posso fare?”
“Io vado a cercare qualcosa per medicarti, ho visto che alcuni medicinali sono nella stanza qui vicino, però non siamo dei medici, non possiamo rischiare di somministrarti la medicina sbagliata e ucciderti.”
Si vedeva che era preoccupata, ma nonostante tutto manteneva il sangue freddo. Mentre mi aiutava a stendermi sul divano, le domandai nuovamente
“Quindi cosa possiamo fare?”
“Ho fatto un corso di primo soccorso l’anno scorso, so come medicarti la ferita. Ti cambierò le bende ogni due ore e-”
“Spererai che resterò vivo.”
“Non intendevo… io…”
Adesso aveva gli occhi lucidi, forse non avrei dovuto essere così duro ma dovevamo affrontare la realtà dei fatti.
“Juliet, hai visto la mia ferita. Ho delle costole rotte e non abbiamo la minima idea di come fare a fermare l’infezione. Sono consapevole che potrei non sopravvivere.”
“No!” vidi la determinazione accendersi nei suoi occhi, per poi essere sostituita da un sentimento indefinito “so che è egoistico, ma non ti permetterò di lasciarmi da sola. Io ti salverò, te lo prometto.”
Sorrisi debolmente.
“Sei sempre stata così testarda.”
“Te lo sei sempre cercato.”
Disse mentre si avvicinava alla porta.
“Se ti serve qualcosa mentre sono via, urla.”
Annuii appena, mentre lei usciva dalla stanza. Il sonno mi prese dopo un po’, e l’ultima  immagine che ho di quella sera è proprio lei, che si chinava accanto a me con delle bende in mano e le lacrime che le rigavano il viso.
 
 
Il giorno dopo mi svegliai con il dolore alla gamba attenuato e una sensazione di fresco nella zona della ferita, come se qualcuno avesse buttato dell’acqua sul taglio.  L’unica cosa che mi diede da pensare fu il fatto che ero abbastanza sudato, nonostante i panni bagnati che mi coprivano la fronte e i polsi, particolare che decisi di ignorare. Trovai Juliet indaffarata a lavarsi il viso con una ciotola d’acqua, tipico delle ragazze, il che significava che nell’ospedale fosse ancora attivo il sistema idrico, che ci avrebbe fornito acqua a volontà. Una volta asciugatasi con una tovaglia presa chissà dove, si accorse che ero sveglio e mi sorrise.
“Giorno! È tardo pomeriggio, se ti può interessare.”
“Ho dormito davvero così tanto? Grazie per… qualsiasi cosa tu abbia fatto.”
Pronunciai l’ultima frase scosso da un tremito, provocato da chissà cosa.
“Più che altro hai parlato, mi hai tenuta sveglia ad ascoltarti.” Ridacchiò. “La ferita potrebbe guarire.”
Mi vergognai per qualsiasi cosa avessi detto, probabilmente avevo delirato e quei sudori erano il segno che avevo la febbre, ma fino a che mi fossi sentito bene decisi di tacere, non volevo farla preoccupare senza motivo.
“Sei stata sveglia tutta la notte?” domandai invece.
“Uno di noi due doveva pur stare all’erta, no?”
Mi sentii improvvisamente inutile, come se tutto il peso della mia condizione fisica fosse caricato sulle spalle di Ju, motivo in più per tacere i miei nuovi sintomi.
“Stavi aspettando che io mi svegliassi?”
“Sai, non c’è molto da fare. Lì c’è dell’acqua-” disse indicando una ciotola accanto al divano “-e ho trovato delle gallette che non sono ancora scadute, possiamo andare avanti con quelle. Non saranno pasti sostanziosi ma…”
“Sul serio, grazie.”
“Tra poco non mi ringrazierai più.”
Lo sguardo e l’espressione si tramutarono in un’emozione fragile ma determinata che ancora una volta mi attanagliava lo stomaco, sentendola mia.
“Che vuol dire?”
Prese un respiro e mi guardò negli occhi.
“Che la ferita potrebbe guarire… se solo riuscissi a togliere quello che ti causa l’infezione.”
“Perfetto, togliamolo. Non urlerò, te lo prometto.”
“Non è questo il punto.”
Mi stava facendo impazzire.
“E allora cosa? Lo so che non sei un medico, ma-”
“È proprio questo. Non sono un medico, ma ho passato abbastanza tempo a vedere CSI per sapere che tipo di ferita è e non riuscirei a fare niente di utile.”
“Sentiamo Dr.House, che cosa c’è sotto quelle bende?”
Un altro sospiro.
“Hai delle schegge e altre sporcizie sotto il sangue rappreso e l’altra metà della ferita è aperta. Il che significa che se dovessi sbagliare, potrei riaprila e tu avresti un’emorragia.”
“Dovresti guardare meno film.”
“E tu dovresti smetterla di scherzare con la tua vita.”
Fu l’ultima conversazione del giorno, il resto del quale lei passò a dormire, stanca com’era dalla notte prima. Quando era ormai notte fonda, si svegliò in preda al panico per aver dormito troppo e non avermi cambiato la fasciatura. La ferita adesso bruciava e le fitte aumentavano, per non parlare dell’ondata di dolore che mi avvolse quando tolse le bende impregnate di sangue, guardando con sincero nervosismo la mia ferita, che adesso era di un rosso vermiglio che pulsava ogni secondo che passava a contatto con l’aria. La medicazione fu uno strazio e mi domandai quanto dovesse essere pesante il sonno dell’altra notte, per aver sopportato tutto ciò da addormentato. Una volta finito, Juliet mi guardò e mi disse
“Fino a che è rossa va bene, dobbiamo evitare che diventi nera.”
Non risposi e caddi nuovamente nel sonno, incurante del fatto che anche Juliet stava per rimettersi a dormire e l’ultima cosa che pensai fu il desiderio di riuscire a stare zitto nel sonno.
 
Le giornate trascorrevano sempre uguali e dopo qualche giorno, la febbre sembrava tenersi costante, tanto che pensai di non averla visto che le sensazioni si mantenevano normali. Il quinto giorno che eravamo in quella stanza, chiesi a Juliet di poter uscire, per quanto fossi consapevole che non sarei riuscito a muovermi. Invece di fare storie, la moretta uscì da quelle quattro mura diventate così opprimenti e ne rientrò dieci minuti dopo con una barella davanti a sé. Per quanto sembrasse che stessi per morire, steso su quella barella, con chissà quale aspetto, quello era l’unico modo per uscire e andare a vedere quanto possibile. Sentivo la gamba formicolare adesso, il che poteva significare che stavo migliorando, oppure peggiorando sempre di più.
Con la barella riuscimmo ad arrivare fino al cortile, dal quale non avevo fatto caso si vedesse il mare e tutta la baia del Sydney Harbour. Guardai il quartiere della Sydney centrale, alcuni edifici erano messi piuttosto male, ma per il resto, le sirene di ambulanze e vigili del fuoco facevano brulicare le strade di vita. Spostai lo sguardo verso l’oceano e mi resi conto che un sentimento di odio mi montava dentro. Era lui la causa di tutto il mio male, del perché adesso io e Ju fossimo soli, del perché non sapessi che cosa era successo a tutti quelli che amavo. Era colpa dell’oceano se avevo perso tutto, se probabilmente avrei perso la mia stessa vita, per quanto volessi sopravvivere. Non mi ero reso conto di piangere e una volta fermate le lacrime, chiesi a Juliet di riportarmi dentro, in quella stanza diventata improvvisamente un rifugio da quei pensieri opprimenti.
Mi resi conto che non avevamo visto elicotteri, il che significava che forse quello stesso giorno avrebbero iniziato le ricerche e in me si accese la speranza che i soccorsi facessero presto. Non volevo morire e non dovevo morire, non dovevo perché Juliet mi avrebbe avuto sulla coscienza anche se non era affatto colpa sua, sapevo che si sarebbe sentita in colpa e perché, anche se non ne ero certo, potevo avere qualcuno da cui tornare.
Mentre mi medicava la ferita, Juliet si fermò, tenendo gli occhi fissi sul profondo e doloroso taglio. Io continuavo a guardarla, senza abbassare gli occhi sulla ferita. La ragazza prese a scuotere debolmente il capo e io, temendo la sua risposta, le chiesi con la voce rotta dai brividi che adesso mi attraversavano la schiena
“Juliet, che succede?”
“La ferita,” prese un respiro che uscì fuori in un sussurro “-sta diventando nera.”
 
 
Note di Viola e Martina:

 
Buon pomeriggio carissimi,
eccoci ancora qua con un nuovo capitolo. Ci ha fatto veramente piacere sentire che la sorpresa vi è piaciuta e vi avvisiamo che da questo capitolo in poi, saranno presenti diversi contenuti forti quindi se siete sensibili a queste cose, non vi conviene leggere e se lo fate, non vogliamo saperne perché vi avvertiremo in ogni capitolo.
Abbiamo pensato di aggiornare più spesso, dato che nell’estate abbiamo spesso tempo libero.
Grazie anche per le +800 visite al primo capitolo, veramente GRAZIE.
Fateci sempre sapere,
baci,
Violet e Tita xx
  
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