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Autore: WordsLuver    17/07/2014    2 recensioni
Volevo solo trovare qualcuno che amasse me, il mio aspetto, il mio carattere. Volevo essere solo apprezzata da qualcuno, trovare un bagliore nel buio che mi circondava.
Che fosse possibile? Che potesse esistere per una ragazza un po’ grossa e un po’ debole come me un posto da qualche parte nella mente di qualcuno?
Poteva Elaine Mallori trovare una luce nella sua buia sera?
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
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Salve a tutti!
Questa è la prima storia che pubblico, avevo iniziato a scriverla molto tempo fa e solo adesso, rileggendola dopo qualche anno, ho deciso che metterla qui non sarebbe stato male. Scrivo per passione e questa è solo una delle tante idee che sono scaturite dalla mia testolina ma che sono state lette solo da una o due persone di mia conoscenza.
La storia è ambientata a Roma, città che ho avuto l'onore di visitare qualche anno fa e che spero di aver rappresentato senza troppe incongruenze (in caso contrario, sono aperta alle critiche! ;) ).
La protagonista non è un'eroina, non è nemmeno il modello di ragazza a cui si è abituati, capirete perché conoscendola, e non ha una vita facile nonostante la sua giovane età, ma le imperfezioni e le difficoltà a mio parere altro non sono che una partenza avvantaggiata per raggiungere il traguardo ed Elaine lo imparerà.
Non voglio dilungarmi, lascio che sia il racconto a parlare, spero che vi piaccia almeno un po' e che mi facciate sapere cosa ne pensate :)
Buona lettura!

WordsLuver

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1. Utopia

Forse un balenio senza capo,
senza storia, mia Utopia,
dolce ballata di senz’anima
 
un corpo, tu resti ancora, cara.
Chè è quest’avversa sol illusione?
Un fiore tanto effimero e scialbo
 
Senza più petali da abbandonar
Nel Vuoto… chè! Ma fiele perdona!
Passo ritorna! Una luce oscura
 
S’alza all’agro ma io nel mio
cielo non bramo nubi, non lampi…
Bramo sinfonici voli, come
Quel dolce idillio detto Amore.
 
La rilessi un’ultima volta e poi l’incanto finì di nuovo. Ripiegai il foglio e lo riposi con la solita cura maniacale nel cassetto.
Sentii una lacrima cadere giù silenziosamente e per quanto dovessi essere forte, non fermai il mio pianto.
Purtroppo la poesia di Elaine Mallori non avrebbe fatto che restare chiusa lì in quel cassetto per il resto del tempo.
Non era esattamente una poesia, era… era di più. Era una preghiera. È diverso.
Ed era anche meglio di una semplice preghiera: era la mia preghiera. Quella che viene spontanea, che sembra essere il risultato di un lavoro di ore, ma che in realtà è solo il frutto di un convulso fluire della tua più pura interiorità. Insomma, la prima cosa che ti passa per la testa.
Utopia, così si chiamava la mia poesia. L’avevo buttata giù un giorno come tanti, lo consideravo una specie di inno, un grido che mi era sempre risuonato nella testa. Mi avevano sempre ammirata per la mia abilità nel comporre versi e strofe, suppongo che questo sia dovuto dal fatto che le poesie escono dal cuore, lì dove si mescolano i sentimenti più intensi, le passioni più rovinanti e anche le storie che non si raccontano. E, beh… io ho parecchio ancora da raccontare.
Sentire quello che io avevo sentito era brutto, e ancora peggio era sentire quello che sentivo adesso, lì nella mia stanza a casa di mio padre.
Per dirlo in parole povere, in me ormai il caos regnava sovrano.
Rabbia, sogni, speranza, angoscia, paure, odio… quest’ultima è l’emozione che un po’ ha sempre predominato, rivolta soprattutto alla vita che mi era capitata.
Elaine non era nessuno, e solo Dio sa se questo sarebbe mai cambiato. Facevo parte di una scuola, l’istituto Ludovico Ariosto della città di Roma. Ero di origini danesi, padre Romano e madre di Copenaghen, i miei genitori avevano deciso di restare in Italia ancora prima che io nascessi e quella era la mia sola e unica terra. A quanto pare, però, molta gente non dava cenno di accettare la mia presenza in Italia, sembrava infatti che la maggior parte dei miei compagni di liceo provasse un innato divertimento nel farmi sentire un’estranea, aliena e indegna di calpestare la terra su cui loro passavano. Non tanto per le mie origini quanto per il fatto che io ero diversa.
Non ero handicappata o diversamente abile, né sorda, cieca, strabica, blu o gialla. Ero semplicemente, inevitabilmente grassa.
Ebbene sì: i miei ottantadue kili per un metro e sessantadue resistevano da un bel po’ e questo condizionava il mio rapporto con gli altri, così che ogni giorno mi si vedeva entrare e uscire dalla scuola completamente sola.
Fino a qui riuscivo anche a sopportare ma il problema vero, quello più amaro, era come i ragazzi mi guardavano: li disgustavo, per loro ero solo un’enorme massa di lardo che non provava sentimenti, sebbene di volto non fossi poi tanto male. In realtà io di emozioni ne provavo eccome; mia madre non la vedevo da mesi e non volevo vederla, per mandare avanti la mia disastrata famiglia dovevo lavorare e studiare assieme e seguiva una lunga serie di fatti che però, i miei coetanei non potevano comprendere.
E mi deridevano, mi sotterravano di scherzi, sporchi e maligni giochetti che non facevano che peggiorare la mia situazione.
E io tenevo tutto dentro senza mai farlo uscire, piangevo, mi dicevo di essere forte, di non mollare, e piangevo ancora di più, sapendo di non esserne capace. Speravo che un giorno arrivasse qualcuno che mi avrebbe finalmente accettata, qualcuno di dolce, che adorava come me la neve, i girasoli e i paesaggi illuminati dalla Luna. Qualcuno da amare.
Speravo e piangevo. Esattamente come adesso.
Mi alzai dal letto e uscii per la strada. Dovevo camminare, e tutto sarebbe passato, almeno per il momento.
Roma di sera era semplicemente stupenda, niente era solo lontanamente comparabile a quello spettacolo e nemmeno il freddo di gennaio era abbastanza da farmi rinunciare a vederla. La gente che passeggiava con almeno una borsa di vestiti in mano, le strade strette che portavano ovunque, i camerieri dei ristoranti che cercavano di invitare i clienti a sceglierli e l’infinita serie di monumenti che rendevano il tutto la cosa più bella del mondo. La fontana di Trevi poi, era la mia preferita; con quelle luci soffuse, come pennellate di tempera bianca su sfondo nero. Era tutto così romantico… e doloroso.
Ma dovevo essere forte. M’incamminai in una delle tante stradicciole strette, piena come ogni giorno di gente, soprattutto turisti. Uscire mi era servito non solo per liberarmi un po’ del peso ma anche perché mio padre si aspettava gli comprassi una bella scorta di verdure, e quale posto migliore se non Campo dei Fiori dove comprare della verdura?
Riempii un sacchetto pieno di carciofi, i preferiti di papà, un altro d’insalata mista, pomodori e alcuni cetrioli, poi mi dileguai tra la moltitudine di persone e iniziai a passeggiare tranquilla.
-Ehi! Guarda un po’ chi c’è! – la voce alle mie spalle era quella di Annamaria, mentre quelle che le riposero con una risatina erano di Lucia, Carolina e Milena, le sue piccole suddite. –Elaine, dove te ne vai tutta sola? –
Non risposi ma le passai accanto con sguardo basso. Le quattro si misero a ridere.
-Ehi, ti ho solo fatto una domanda! –
Le ignorai e proseguii per la mia strada. Annamaria era la peggiore persona che avessi mai conosciuto: arrogante, cafona, falsa e perfida. Lei e la sua piccola compagnia non facevano che deridermi, erano quelle che mi facevano stare peggio tra tutti e, l’unico modo che avevo per difendermi era essere superiore, cioè tacere e ingoiare.
Incredibile come le loro risatine potessero rimbombarmi nei timpani anche per ore.
Terminata la mia passeggiata, ritornai a casa, dove mio padre si era già svegliato.
-Nina! –chiamò. –Sei tu? –
Nina era il nomignolo che papà mi aveva sempre attribuito. Da piccola tutti solevano chiamarmi “Elainina” e col tempo, essendo un nome un po’ ridicolo e non volendo farmi sembrare troppo piccola, si era abbreviato fino ad arrivare a Nina. Sorrisi e salutai.
-Ciao papà. Sto arrivando. –
Lui era in salotto a guardare un po’ di tv.
-Sei uscita a prendere la verdura? Brava, così mi piace. – osservò soddisfatto, e anche se eravamo in stanze diverse e io non potevo vederlo, sapevo che stava sorridendo.
-Umpf, sempre il solito. Ora preparo il pranzo, tu apparecchia. –
Entrò nella cucina e mi sorrise. Lo guardai e mi tornò la fitta al cuore a vederlo sulla sedia a rotelle mentre io mi spostavo sulle mie gambe con molta, troppa naturalezza.
Gli consegnai i tovaglioli e le posate e tornò in salotto per sistemarli. Era successo tutto quel maledetto giorno, il giorno del mio compleanno.
Mamma aveva organizzato una cena tutti assieme in un lussuoso ristorante, mi avevano voluto fare una sorpresa e io adoravo le sorprese. Eravamo pronti per iniziare, ma papà si era accorto di aver dimenticato il regalo per me e io che amavo i suoi regali avevo insistito perché tornasse a casa a riprenderlo in tutta fretta.
Dalla sua partenza, erano trascorsi dieci minuti e non ce ne eravamo sorprese siccome la macchina di mio padre aveva sempre avuto qualche problema con l’acceleratore. Passati i venti minuti, avevamo iniziato a pensare che forse aveva trovato traffico o non riusciva a trovare il regalo, dal momento che papà era sempre stato sbadato oltre ogni limite. Mezz’ora, un’ora, un’ora e venticinque… alla fine mamma si era preoccupata e aveva deciso di raggiungere papà per vedere cosa potesse essere successo. Io che all’epoca avevo solo undici anni, non ero pessimista sulla situazione: conoscevo mio padre, magari stava già tornando indietro.
Come potevo prevedere? Come potevo immaginare che il mio papà avrebbe pagato così tanto per un mio capriccio?
Come potevo essere stata così egoista da mandarlo verso l’incidente che gli avrebbe causato la paralisi?
La mamma trovò la macchina rovesciata su un fianco. Poco lontano un furgoncino dalla fiancata infossata e il guidatore stordito sul volante.
Papà era seduto sul sedile, le mani abbarbicate al volante e il capo basso. A vederlo sembrava solo addormentato.
Una parte del suo corpo si era addormentata per sempre.
Un’intera serata all’ospedale e alla fine la diagnosi dei medici: paralizzato dalla vita in giù.
Era a causa di quello che la mamma l’aveva lasciato, ci aveva lasciati tutti. Quando cercavo di cavarle fuori delle spiegazioni, mi rispondeva “Cerca di capire, è una responsabilità troppo grande per me”, non ci voleva aiutare e io e le mie sorelle avevamo rinunciato; non la volevamo più vedere, non volevamo sapere più nulla di lei o della sua nuova famiglia –di due gemelli, oltretutto-, la consideravamo un mostro senza onore e senza un briciolo di maturità, non tanto perché non aveva il coraggio di andare avanti con un padre in carrozzina, ma perché io, Seline e Darla eravamo appena adolescenti e non avevamo nessun altro in famiglia che ci potesse aiutare.
Alla fine però, anche mia sorella Darla aveva deciso di sposarsi e di lasciare a me e Seline tutti i compiti, nemmeno un soldo come sostegno, una visita, nulla. C’eravamo solo noi due a prenderci questo impegno difficile, io che lavoravo part –time come cassiera, Seline che aveva miracolosamente trovato un posto fisso come segretaria. Da quel maledetto giorno, non avevo più festeggiato il mio compleanno e la vita aveva iniziato a rivelarsi per il suo lato peggiore.
E ora eccoci qua, a usare i soldi che si poteva guadagnare per pagare le tasse e l’affitto, e permettere a un padre di quasi sessant’anni di vivere una vita quanto più dignitosa.
-Nina, il pane! –
Lui era lì, vicino a me ma ero talmente presa dai miei pensieri che non lo avevo nemmeno sentito.
-Sì, scusa papà… ecco. –gli diedi il sacchetto e lo lasciai andare. Cenammo come ogni giorno, parlando come fanno due amici e gustando quello che io ero riuscita a preparare a regola d’arte. Alla fine del pasto, aiutai papà a stendersi sul letto e gli augurai una buona notte.
-Notte papà… -mormorai, prima di spegnere le luci e chiudere la porta.
Due ore dopo sarebbe tornata Seline. Lavorava fino a tardi, dormiva fino alle otto e alle nove e mezzo doveva già essere in azienda.
Mi diressi in camera e mi spogliai. Indossai il pigiama e m’infilai sotto le coperte, lasciando andare in un sospiro i mille pensieri della giornata.
  
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