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Autore: _Woodhouse_    18/07/2014    0 recensioni
Lei non sa quanto l’aspetto, con quanta energia.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mira è andata via da quattro minuti e ho già a pezzi il cuore.
Sgombro in fretta il tavolino, via il posacenere!, via i tovaglioli sporchi!, via lo zucchero sul bordi! Adesso sollevo la tazza da tè verde rame e ne dissolvo l’orma con uno straccio. Dovrei gettarlo via, punzecchia e puzza. Dovrei gettarlo via, per via dei batteri e dei mostri del tessuto, per via delle squame e delle zanne dei germi. Lo getto via, allora. Filo dritto in cucina ed estraggo uno straccio pulito dalla scatola degli stracci e delle spugne e di alcuni spazzolini buoni a scrostare il nero di squame dai pavimenti. Lo straccio nuovo non ha odori, ma serve che ne abbia, perché Mira coglie gli odori, lei è odore vivo, odore con gambe e braccia e ciglia così lunghe, così nere. Lo straccio nuovo non ha odori, ma serve che ne abbia, e di buoni, fragranti, così che quando lei si siederà di nuovo e poggerà i gomiti sul tavolino e si lascerà andare su di esso, col viso affranto e le braccia stanche,  li sentirà fruire per le cavità nasale e giungere ad un’area fantasmagorica del suo cervello immorale. Ne trarrà godimento e così anche io. Così, adesso, reperisco dalla mia ventiquattrore il mio dopobarba al pino silvestre e ne verso un po’- anche se poi esagero - sullo straccio nuovo. Strofino lo straccio in se stesso, lo strattono, lo stiracchio, lo accartoccio e poi lo distendo sulla superficie liquida del tavolino, e poi su e giù, destra e manca, uno strofinio fervente ed un massaggio di commiato.                        
Adesso anche il tavolo ha un odore. Adesso anche il tavolo le assomiglia. Emana un così maschio odore che quasi non distinguo il mio sesso. Ma le ribadirà di lunga il suo.                                           
La tazza, per dio!, la tazza. Che ritorni sul tavolo, verde rame e lucida, pulita adesso anche delle sue labbra e del suo alito. Che idiozia, se si potesse non la laverei mai, finché l’ombra delle sue labbra non diventi sempre più scura, tanto più scura ogni giorno, fino a divenire una calcificazione rosso sangue sui bordi verde rame della tazza. E poi mi verserei del caffè e aderirei con le mie labbra alle sue. O alla crosta delle sue. Ma non fa differenza. Posso dirlo con cognizione di causa, perché Mira io l’ho baciata. Così tante volte che non ne ricordo nemmeno una, con precisione. L’ho baciata il giorno del suo 23esimo compleanno, ad ogni suo compleanno, l’ho baciata al suo rientro dalla vacanze estive, l’ho baciata quella volta a Parigi, quell’altra volta a Berlino, l’ho baciata in ripostiglio, ma anche in cucina, dietro ad una tenda, ogni sera prima che andasse a ballare, in bagno poi, ma che lo dico a fare?Il nostro momento perfetto insieme è il momento del tè. Ne beviamo tanto, con gusto e risate. A dirla tutta, lei ne beve così tanto che io preferisco non berne affatto (per controbilanciare!), le lascio la mia tazza, davvero: a che servirà mai il tè, dopotutto? Non ha sapore, non ha odore, è verde-giallo e mi ricorda tanto il vomito, ma lo adoro e vorrei tanto berne un giorno, dalle sue labbra. Durante il momento del tè, infatti, non l’ho mai baciata. Ed è facile intuire perché. Se si ha intuito, s’intende. Ma andrei oltre i miei banali artifici mentali o le ridicole distorsioni di cui la mia mente si serve per massacrare l’essenza del tè se servisse, se dovesse abbisognare, o rendersi in un qualche modo necessario o propizio darle un bacio durante quella medesima ora. Di gesti eroici un uomo può farne, per amore. Di gesti per cui Corneille, più di Racine, sfalderebbe interi fogli di carta, tanta la foga della scrittura, tanta l’ammirazione e lo slancio empatico verso l’eroe che custodisco nel petto.
Ci sposeremo tra un anno, la chiesa lascerò che sia Mira a sceglierla, non sono un fanatico e sono in un certo qual senso liberalista. Un democratico. Ma ancor più un avanguardista, sebbene grandemente conservatore. In nome di ciò le concederò di far quel che più le aggrada con la chiesa, con la burocrazia, con la casa e le tende, con le vettovaglie, con il buffet,  anche con l’orchestra,  e col gazebo in giardino, e poi sarà libera di piangere con una canzone di Whitney Houston di sottofondo durante il nostro primo ballo. I Will Always love you.
Per oggi, ad ogni modo, non la vedrò più: lei lavora fino a tardi, non so  bene quanto tardi, ma abbastanza da far sì che le sia impossibile tornare qui da me. Di fronte a questa quotidiana ed inoppugnabile verità sono solito far spallucce, ma oggi non ne ho voglia.
Oggi ho voglia di baciarla di nuovo. In bagno.
 
Sono quasi le cinque, poco fa ho dato una ripassata di pino silvestre sul tavolo e un ultimo ritocco sgrassante alla tazza verde rame, la sua preferita. Passa sempre di qui prima di andare a lavoro, perché altrimenti sarebbe impossibile per noi vederci. Io lavoro tutto il giorno e mi libero solo la sera, ma lei ha il suo da fare in quel momento della giornata. Con ventiquattrore che l’uomo s’è conquistato di una giornata, Mira lavora nell’arco di quelle dieci in cui io mi gratto le palle.
Ma è pur vero che la vita, contraffattrice e dissimulatrice, allontana quanto più può i corpi degli amanti più stoici, più autentici. Forte di questa convinzione, lascio che la vita, sovrana e mutilante, ci discosti nei giorni e nelle ore. Lascio che abbandoni le nostre carcasse su due fiumi sfocianti in mari lontani, diversi, che mai s’incontrano. Lascio che si prenda gioco dei nostri corpi, tanto più so che quello che mi fa suo e che la fa mia è trascendentale e non conosce strappi, non conosce dogane.
Sono le cinque e sei minuti, ma lei non c’è ancora. So che non è puntuale, ma mi piacerebbe che lo fosse un po’ di più. Ma lei non sa quanto l’aspetto, con quanta energia.
Sono le cinque e sette minuti, e ho paura di dover ripassare lo straccio odoroso sul tavolo, ho paura che l’odore si disperda prima del suo arrivo e che lei non sorrida, che lei non goda più. E così neanche io.
Ma eccola, sento che si muove dalla porta a me, adesso la guardo e scansa tutte quelle persone che stanno frapposte tra le mie labbra e le sue. Rimango immobile, mi sento come avvinghiato da una corteccia di filo spinato, ho le gambe e le mani bloccate, mi prude la gola, mi prudono le mani, mi prude un po’ tutto, diciamo. Raggiunge il tavolo, eccola. Non si smentisce mai. Tra poco si accascerà e mi aspetterà con gli occhi lucidi, colmi di allegria. Le porterò il tè e rideremo, ci baceremo tanto, croste e vomito, che importa. Berrò moltissimo tè con lei, quando ci saremo sposati.
Tra un anno ci sposeremo e non vedo l’ora. Tra un anno ci sposeremo e ci baceremo molto.
Tra un anno ci sposeremo. Vado a portarle il tè. Oggi mi ignora, è assente, forse è arrabbiata.
Il tavolo deve aver perso l’odore di pino, mentre aspettava che lei si sedesse. Non è giornata, oggi. Meglio lasciarla da sola e aspettare che sia lei a venire da me. Sono le cinque e trentasette, ma lei non mi ha ancora raggiunto. Adesso sta a me, andrò da lei e in barba a tutto le domanderò ciò che mi spetta, senza inibizioni, senza tremori. Oggi è così assente, distante, che non le chiederò di sposarmi.
Oggi è così assente che se morissi adesso mi sentirei più vivo.
Tra un anno ci sposeremo, io e Mira. Domani le chiederò di sposarmi, costi quel che costi.
Corneille mi sia testimone. Sono le cinque e quarantadue, Mira ha finito il suo tè, ha gli occhi stanchi, le braccia pesanti, i capelli le stanno sulla testa non si sa nemmeno come. E’ così fiacca ma così bella.
L’amo così tanto che le perdonerò ogni assenteismo dell’anima, d’ora in poi.
L’amo così tanto che anche oggi chiederò a Gul di portarle il conto.
   
 
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