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Autore: fuoritema    19/07/2014    4 recensioni
[SPIN-OFF “Torna con lo scudo o su di esso” | Rebekah Martin | District 9 | pre/post 67esimi Hunger Games]
Il sapore denso e ferroso del sangue le invase la bocca, facendole serrare i denti. Se davvero speravano di cavarle qualche informazione così si sbagliavano di grosso. Si sarebbe fatta ammazzare, piuttosto che dargliela vinta. In un gesto inutile quanto vano, cercò di alzarsi in piedi, ricadendo pesantemente per terra. Le gambe rifiutavano di ubbidirle.
«Non parli, eh?» Un altro schiaffo le fece girare la testa dall'altro lato, annullando ogni suo tentativo di tirarsi su. […]
«Nessuno può acchiappare una Volpe.» Quelle parole, così lontane da lei, erano uscite dalla sua bocca solo un mese prima di essere catturata. Ironia della sorte, il signor Roth l’aveva acchiappata – eccome se l’aveva acchiappata – ed era riuscito a tenerla ferma fino a che non aveva smesso di lottare.
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Canti di Rivolta'
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Note Iniziali:

Rebekah Martin, anche conosciuta come "Volpe del distretto nove", è uno degli OC a cui sono più affezionata. Appare nel capitolo XI della mia long “Torna con lo scudo o su di esso”, in un flashback, e fa parte del passato di uno del protagonisti. Detto ciò, spiego con calma la sua storia :3 
E' il capo di una banda di ribelli del distretto nove, che distruggono spesso e volentieri i granai dei grandi proprietari terrieri. Il problema sorge quando viene catturata mentre cerca di recuperare un accendino lasciato sulla scena del crimine(?). A questo punto viene condannata a partecipare ai 67esimi Hunger Games, morendo solo il penultimo giorno (tutto perché Snow è un simpaticone e la vuole ammazzare a tutti i costi). 
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Il corpo penzolava al vento come una foglia che sta per staccarsi dal ramo, leggera e morta.
«Non voltare lo sguardo, 'Bekah» ordinò un ragazzo dai capelli biondi alla piccola che lo seguiva, seminascosta dietro alla sua gamba. Le passò una mano tra i capelli rossi, poi la mise a pinza, fermandole il viso davanti a quella visione raccapricciante. “E' troppo felice perché sia morto” pensò la piccola, osservando il sorriso del colpevole. Qualcuno doveva avergli modellato le labbra, perché non si addicevano per nulla a quel momento. Era troppo innocente per essere cattivo, troppo... sereno.
«Non è stato lui» sussurrò la rossina tra sé e sé, ma Gabriel la zittì con un'occhiataccia. «Zitta – sillabò spazientito – Credano quello che vogliono credere. Non dire altro.» Per essere più chiaro, le mollò uno scappellotto dietro alla nuca.
«Ma...»
«Niente ma.»
Massaggiandosi il retro della testa, 'Bekah borbottò un paio di parolacce per esprimere il suo disappunto. Le aveva sentite dai ragazzi della banda, gli stessi che la chiamavano con un fischio - tipo un cane - e le dicevano di portargli quella cosa lì o quel mazzo di carte là. Eppure la bambina non si lamentava: prima che Gabriel la prendesse con sé, era così che doveva guadagnarsi una magra razione di brodo, magari spellandosi anche le mani sull'asse per lavare. Poi era cambiato tutto quando la locanda era stata bruciata e lei aveva visto i colpevoli. Si era avvicinata con calma, mentre il loro capo la guardava sempre più divertito. Quando poi si era fatta spazio per parlare con lui, Gabriel aveva riso e l'aveva nominata sua protetta. Non l'aveva più lasciata da sola, evitando che i suoi inferori alzassero le mani su di lei dopo una rispostaccia delle sue, perché se c'era una cosa che quello scricciolo era in grado di fare, era provocare la gente.
«Tu sai che ho ragione» fece Rebekah con una smorfia.
«Certo che lo so. Per questo devi star zitta.» Perplessa, si mise a fare dei cerchietti nella polvere con un piede scalzo.
«E' colpa di qualcuno dei tuoi?» Gabriel smise di sorridere, tirandole un altro schiaffo. Davvero non riusciva a capire che i Pacificatori potevano sentire quello che stava dicendo?
«Dillo un'altra volta e ne prendi due, più un calcio in culo» la sgridò, mentre Rebekah si nascondeva nuovamente dietro alla sua gamba, mormorando l'ennesimo “stronzo” tra i denti. «Comunque no, non è dei nostri.»
Gabriel lo faceva sempre: le domande che lei gli poneva trovavano sempre una risposta, anche se questa includeva qualche occhiataccia o una sberla. Ma non era un alto prezzo, per essere la sua protetta in tutto e per tutto. Il ragazzo ormai accettava solo la sua compagnia e, trattandola come una sorellina, si era persino guadagnato la sua stima.
«Per questo è stato così scemo da farsi prendere.»
Il biondo la incenerì nuovamente. «Se dici così sei tu la cretina. Non si scherza con queste cose, marmocchia» scandì le parole come per impartire una lezione a una scolaretta disubbidiente, e il sorriso che era comparso sulle labbra della piccola scomparve con la stessa rapidità con cui era apparso. Da quando stava con i ribelli, la sola cosa che aveva imparato era riflettere prima di parlare, ma le veniva sempre difficile e Gabriel se n'era accorto.
«Andiamo via» 'Bekah lesse il labiale del ragazzo, iniziando a far retrofront. Dall'alto del palo, il cadavere continuava a guardarli con un sorriso stampato in faccia. «Quello era solo un ragazzino passato lì per caso. Non è stato lui» disse Gabriel con tono grave, come se quell'ingiustizia fosse stata intollerabile per lui. Negli occhi gli passò la solita ombra di rabbia impotente che la piccola vedeva quando succedevano fatti di quel genere. Di persone ne morivano tante nel nove, ed erano sempre quelle innocenti, quelle buone.
«Perché sono sempre loro a farne le spese?» si chiese, soprappensiero. Dalla piazza arrivavano ovattate le grida di un uomo, ma nessuno ci fece caso.
«Perché la vita è ingiusta, lo dici anche tu, no?»
Gabriel fece un sorriso tirato, felice che le sue parole non fossero passate inosservate.
«Sì, lo dico. Dopotutto sei una brava volpacchiotta. Sarai un bravo capo.»
«Ma tu sei il capo.»
«Certo...» rifletté lui, poi si fermò come se le parole che stava per dire non fossero state adatte per una bambina di quell'età. Lasciò cadere la discussione, sedendosi sul muretto. Ormai Rebekah aveva undici anni, anche se sembrava molto più piccola, considerato che era alta come un soldo di cacio. In tanti la prendevano per una bimbetta, e non avevano tutti i torti. “Piccola e silenziosa. Sono io la Volpe del nove” canticchiava spesso, accompagnando le parole con uno schiocco della lingua oppure con un lancio più alto delle palline con cui spesso giocolierava.
«Ma quando io non ci sarò, lo diventerai tu.»
«Davvero? - Rebekah si esibì nel sorriso più radioso che gli avesse mai rivolto - Sarò il capo dei ribelli?» Gli occhi le brillavano, mentre si alzava sulle punte per diventare un po' più grande.
«Se un capo muore, se ne fa un altro» rispose Gabriel. Gliel'aveva detto il suo, tempo prima, e ora lui ripeteva la stessa identica frase alla piccola, sperando che ne facesse tesoro nella mente. «Da questo lavoro si esce solo con le gambe in avanti» aggiunse, convinto che Rebekah non capisse quell'ultima affermazione. Eppure lei la comprese, diventando seria come non mai. Quando non si metteva a fare la rompipalle, pensò il ragazzo, era veramente adulta. Non aveva mai urlato, né pianto, né protestato per tutto quello che era cambiato nella sua vita: aveva solo assunto un comportamento imprevedibile poiché passava dall'essere canzonatoria all'innocenza più assoluta.
«Tu non devi morire» dichiarò risoluta, le labbra serrate.
«Stavo facendo un'ipotesi, Volpe, non ho detto che mi faccio ammazzare.» Sorrise, passandole una mano tra i corti capelli rossi, e lei non avrebbe mai immaginato che tutto ciò sarebbe successo solo un anno dopo. «Noi cerchiamo di fare giustizia, anche se questo comporta rischiare grosso ed essere odiati da tutti. Prima o poi riusciremo a liberare il distretto nove.»
Rebekah notò un ragazzino biondo scappare dalla piazza con gli occhi umidi di lacrime, tra le urla di una donna che doveva essere la madre del colpevole, e decise che di lavoro, lei, non avrebbe voluto farne altro che quello. Con tutti i rischi che comportava.
 
***
 
Tu credi che ho paura di te.
Sì tu lo credi.
Invece sto ridendo di te,
e non mi vedi.
(Levati di dosso, Spirit)
 
 
Il sapore denso e ferroso del sangue le invase la bocca, facendole serrare i denti. Se davvero speravano di cavarle qualche informazione così si sbagliavano di grosso. Si sarebbe fatta ammazzare, piuttosto che dargliela vinta. In un gesto inutile quanto vano, cercò di alzarsi in piedi, ricadendo pesantemente per terra. Le gambe rifiutavano di ubbidirle.
«Non parli, eh?» Un altro schiaffo le fece girare la testa dall'altro lato, annullando ogni suo tentativo di tirarsi su.
«Con me cedono tutti, ragazzina» aggiunse la stessa voce, quella dell'uomo che Rebekah aveva smesso di guardare già tempo prima, quando le aveva tirato un calcio perché “lo stava fissando troppo.” Un altro colpo, un altro gemito che uscì dalle labbra della diciassettenne senza che avesse il tempo di inghiottirlo come bile, nello stesso modo che aveva usato con gli altri. Fu l'unico, però, a suonare come uno squittio, mentre il Pacificatore, soddisfatto, le dava qualche attimo di tregua.
«Ti credi una dura? Beh... Io lo sono di più» ghignò, uscendo dalla cella con passi lenti e decisi. La porta si chiuse con un tonfo che rimbombò sulle pareti spoglie.
Lì tutto puzzava di piscio misto a disinfettante, come se l'aria viziata ne fosse impregnata a tal punto da odorare solo di quello. Rebekah si chiese quanto sarebbe rimasta per terra, a contare i battiti irregolari del suo cuore in attesa che si decidessero a farla fuori. “Cogliona” si disse, gli occhi castani serrati, “potevi anche non andare a riprenderlo, quell'accendino del cazzo.”
Eppure, anche se avesse saputo che quello sarebbe stato l'inizio della sua fine, lo avrebbe rifatto mille e mille volte. Non avrebbe lasciato l'unico regalo che le aveva fatto Gabriel tra le fiamme.
Dolorante, 'Bekah aprì la tasca dove l'aveva nascosto, accorgendosi che non c'era più. «Ridatemelo» mormorò alle pareti, «non potete tenerlo.» Si portò la mano sul viso e, passandosela sulla fronte, si accorse che scottava di febbre. Il labbro, spaccato solo poche ore prima dai Pacificatori, continuava a sanguinare.
«La bambina non vuole parlare.»
«Potresti farla cantare con un paio di frustate» Volpe strinse i denti, mentre un brivido gelato le scendeva lungo la schiena.
«No. Non sopravvivrebbe neppure a una decina di colpi, e lo sai.»
«Una delinquente in meno.»
«Poi ci parli tu con Devon, però, e vedi se i tuoi denti staranno tutti al loro posto, dopo che l'avrai fatto.»
Una risata sguaiata proruppe nell'aria, cui si unirono anche quelle degli altri Pacificatori, e Rebekah lasciò che la testa le cadesse per terra, appena poggiata sul suo braccio. Non aveva forze neppure per spostarsi di lì: il corpo le doleva troppo per tentare di alzarsi una seconda volta.
«Ci penso io.»
«Scommetto dieci pezzi da cinque che fai cantare quell'uccelletto, Ford.»
«E' testarda. Non dirà nulla.»
«Allora userò le maniere forti, ché questo era solo un assaggio.»
La ragazza ebbe appena il tempo di rabbrividire nuovamente, prima di sprofondare in un sonno profondo e senza sogni.
 
Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse effettivamente passato da quando era svenuta - ore, mesi, giorni - tanto ormai non aveva importanza. Ricordava solo fiato puzzolente di Ford, il Pacificatore più giovane, e la presa delle sua dita sui suoi capelli, che le aveva fatto piegare la testa all'indietro.
«I tuoi complici?»
'Bekah capì, sentì che quella era una domanda, sebbene avesse i sensi ancora anestetizzati.
«Non ne avevo.» La colpì due volte, di dritto e di rovescio, e la ragazza non riuscì ad evitare di mordersi la lingua, riaprendo le ferite che le si erano appena cicatrizzate.
«Allora? Ne vuoi altri?»
“Sì” avrebbe voluto rispondere, ma la voce non le uscì dalle labbra. Raccolse un grumo di sangue e glielo sputò in faccia, con un sorriso di trionfo. Il manrovescio che ne seguì fu più forte degli altri, eppure Rebekah continuò a sorridere, ironica.
«E tu, ne vuoi un altro?»
«Al diavolo gli ordini. Ti levo la pelle dalla schiena: è una promessa.» Furente, Ford srotolò la frusta con uno schiocco. Non le diede neppure il tempo di prepararsi al colpo, che il cuoio le affondò nella pelle del fianco. Un rigagnolo di sangue le colò giù per la gamba, caldo, e un urlo uscì dalle sue labbra. Improvvisamente spaventata, la Volpe indietreggiò, andandosi a nascondere in un angolo della cella. Tutto il coraggio che aveva avuto fino ad allora sembrava essere svanito nel nulla, mentre un inferno di dolore s'irradiava nella zona che il Pacificatore le aveva colpito.
«Te lo chiedo per l'ultima volta. Chi erano i tuoi complici?»
«E io ti rispondo per l'ennesima cazzo di volta che ero sola» disse lei, sprezzante. Lo schiocco della seconda frustata sulla sua schiena la fece urlare ancora più forte, i pugni contratti.
«Parla!» ordinò Ford, come se, urlando, la risposta sarebbe stata quella che avrebbe voluto. Rebekah strinse le labbra, aspettando l'ennesimo colpo. Ogni pezzo del suo corpo urlava “dolore”, quando la porta si spalancò e il movimento della frusta s'interruppe in aria.
«Cosa avevo detto su di lei? La sua permanenza doveva essere pia-ce-vo-le» scandì lo stesso uomo che l'aveva salvata - probabilmente Devon - durante il pestaggio in piazza, strappando l'arma del suo collega che lo guardò, spaventato.
«Con te ci parlo dopo» gli sussurrò, inumidendosi le labbra con la lingua. «Gliene ho date solo cinque» mormorò Ford, ma l'altro lo interruppe con un gesto della mano, facendolo uscire. Le dava la spiacevole sensazione di essere invertebrato, le mani scheletriche in febbrile movimento.
«Invece con te, ragazzina, vorrei fare un discorsetto.»
“Altri schiaffi. Bene” pensò Rebekah, il corpo che le doleva al più minimo movimento. Passandosi una mano sul labbro, si accorse che si era spaccato, come per dimostrarle che lei era una ragazzina, non una Volpe.
«Il Presidente Snow mi ha fatto sapere che non vuole che ti venga torto un capello, anche se questo cretino non l'ha capito. Presuppongo ti rimarranno le cicatrici: ti ha colpito con il taglio» le spiegò con un sorriso mellifluo, tendendole una mano per tirarla su. La fece sedere sulla brandina, mentre le ferite le dolevano come non mai.
«Cosa vuole da me?»
«Vuole che partecipi ai Giochi, Rebekah.»
 
***
Sei un soldato che
Non sarà mai schiavo.
Non ti arrendere.
Ricordati chi sei.
(Suona il corno, Spirit)
 
 
Aveva rifiutato.
Più la ragazza ci pensava, più le risultava incomprensibile quanto si fosse sbagliata sul conto di Raika. O forse aveva voluto mettersi una benda sugli occhi e fingere che tutti i suoi difetti fossero inesistenti? Lei lo sapeva che avrebbe rifiutato di assolvere il suo compito: lo aveva saputo quando lo aveva visto per la prima volta, un moccioso che la seguiva dappertutto, quando era stata catturata, e perfino quando aveva notato l'espressione sconfitta nei suoi occhi. Aveva la stoffa del leader, sì, ma non il carisma.
'Bekah si diede uno schiaffetto sulla guancia, per rimanere cosciente. Non era la prima volta che la ragazza ci pensava, nell'Arena: quel pensiero le era tornato spesso in mente e ogni volta che succedeva si malediceva per non essersene voluta accorgere prima. Lì dentro era impossibile non abbandonarsi ai ricordi, se non volevi iniziare a parlare con gli alberi e impazzire del tutto. “Noi siamo già pazzi” pensò Rebekah, rievocando il Bagno di Sangue iniziale. Tanti animali che si uccidevano l'un l'altro per scorte di cibo e armi, animali impazziti per la vista del sangue, imbizzarriti e vogliosi di vivere.
La strada finiva con un bosco di conifere, puntellato di piccole lucciole. Ai lati troneggiavano alberi alti, quelli che aveva notato dall'inizio e su cui si era arrampicata. Il Tributo del nove si aggiustò la falce sulla schiena, ancora sporca per l'ultima volta che l'aveva dovuta usare. Intanto il fiume scorreva imperterrito, mischiando lo scroscio dell'acqua ai battiti del suo cuore, come fossero state una cosa sola. Non voleva lavarla: aveva già provato con le sue mani, ma erano rimaste mani da assassina e dita da assassina. Il sangue se n'era andato, certo, eppure il senso di colpa era rimasto. Aveva ucciso un ragazzo, neppure più grande di lei, e da qualche parte, in una casa, le tende sarebbero rimaste chiuse, a segnalare la sua morte. Per colpa sua.
Rebekah sperava sempre di dimenticare l'ultima parte, le parole che le uscivano spontanee ogni volta che ci ripensava. Si fermò al centro del boschetto, le mani serrate sulla sua arma e gli occhi che scrutavano se ci fossero altri Tributi. Lo zaino le pendeva sulla spalla, dove una cicatrice le ricordava il periodo che aveva passato in compagnia di Ford. Rabbrividì inconsciamente. Non aveva mai avuto paura - per quello che ricordava - e in quella piccola cella era stata più che terrorizzata, eppure aveva trovato il coraggio di sfidare il Pacificatore. Ora era terrorizzata, ma la forza per andare avanti cominciava a mancarle.
Con uno sbadiglio, Rebekah si lasciò cadere ai piedi di un albero, lo zaino stretto tra le mani sottili. “L'accendino” pensò, tirandolo fuori e osservandolo alla luce della luna. Lo avevano lasciato apposta per lei, per darle la possibilità di vincere appiccando un incendio e uccidendo gli altri. Dopotutto Snow non era stato così stronzo, o forse era lei troppo difficile da ammazzare.
«Nessuno può acchiappare una Volpe.» Quelle parole, così lontane da lei, erano uscite dalla sua bocca solo un mese prima di essere catturata. Ironia della sorte, il signor Roth l’aveva acchiappata – eccome se l’aveva acchiappata – ed era riuscito a tenerla ferma fino a che non aveva smesso di lottare.
I riflessi della luce lunare sull’accendino le catturarono lo sguardo, come se fossero stati una calamita, e lei non poté fare a meno di premere il pulsante, osservando il guizzare delle fiamme. Forse quella sarebbe stata una buona idea: incendiare tutto per vincere, proprio come faceva nel distretto nove. Per la prima volta nell’Arena, ‘Bekah sorrise, appiccando l’ennesimo fuoco nella sua vita di incendi. Era l’unica cosa che sapeva fare, e l’unica che le importasse veramente. La fermò la sensazione di bagnato a un piede e, mentre l’acqua le vorticava attorno, entrandole nei polmoni, bruciandoli, le alghe le tennero fermi i piedi come una tagliola.
L’unico pensiero che riuscì a formulare fu che quel lavoro – il suo lavoro – sarebbe finito solo con la morte.
 
 

 

Angolino dell'Autrice:

Invece di mettermi a scrivere il prossimo capitolo, ho iniziato a fare SPIN-OFF a gogo. Il problema è che non li finisco, soprattutto se sono su Mahinete... Questa OS è nata nella mia mente quando ho iniziato a ruolare con il personaggio di una carissima Alaska__ , colei che mi ha prestato pure il mentore di Neth nel capitolo X della long(credo). Quando ho scoperto che il suo Niklas, il ragazzino biondo che ho citato nella prima parte, poteva essere stato mentore di Rebekah prima dei Giochi, mi è venuta una voglia matta di scrivere su Volpe. Anche il proprietario del granaio che ha distrutto 'Bekah è di Alaska__ Leggendo “Cercando Alaska”, poi, ho trovato la citazione perfetta per il titolo questa storia. A questo punto... Come potevo non darmi da fare?
Ho fatto persino un banner per questa storia (e per quella su Raika e per quelle su Neth) perché sto imparando ad usare Gimp, solo che sul mio computer non si scarica... .-. Ora vi saluto, ringrazio chi ha letto la """storia""" e vado a finire di vedermi la terza puntata di "Lady Oscar" (sì, ho ricominciato a guardarlo).

Talking Cricket


 

 
 
  
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