Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer
Ricorda la storia  |      
Autore: mardeybum    19/07/2014    17 recensioni
“Il mio nome è Calum Hood. Sono un acquario, mi piacciono i tramonti, le lunghe passeggiate sulla spiaggia e non ho nessun fottuto problema.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Calum Hood, Luke Hemmings, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Asleep


Sing me to sleep, sing me to sleep 
And then leave me alone 
Don't try to wake me in the morning 
'Cause I will be gone 
Don't feel bad for me 
I want you to know 
Deep in the cell of my heart 
I will feel so glad to go
[The Smiths, Asleep]
 

Che Calum Hood fosse un disastro che cammina lo sapevano tutti.
Lo era già a tre anni, quando rompeva ogni vaso presente in salotto e faceva pipì sul tappeto e sul letto – più per dispetto che per altro. Lo era a nove, quando rispondeva in tono irriverente a tutte le maestre e finiva in punizione quasi ogni pomeriggio, e a quattordici, quando, anziché stare a scuola, usciva coi ragazzi dell'ultimo anno, già fumava un numero spropositato di sigarette e aveva i polmoni di un ultra quarantenne. Lo era a sedici, quando aveva provato la sua prima canna, al sapore un po' dolce della ribellione, e continuava ad esserlo a diciannove anni compiuti. Calum aveva ben pochi pregi – tra i pochi c'era il suo bell'aspetto, da metallaro, col giubbotto di pelle e gli stivali usurati, che faceva cadere tutte le ragazze ai suoi piedi. Aveva però fin troppi difetti, che gli venivano rinfacciati ogni qual volta ce n'era l'occasione. Uno di questi era che il venerdì pomeriggio, mentre i suoi erano al lavoro, era solito assumere cocaina. Non ne andava troppo fiero ma andava così. E andava abbastanza bene (metaforicamente parlando, perché aveva rischiato più volte di finire in ospedale) e nessuno l'aveva mai scoperto fino a venerdì tredici novembre. Per ogni superstizioso che si rispetti, venerdì tredici è un giorno di merda e meglio che ti ricopri di portafortuna e oggettini di poco valore che compri al supermercato del paese, altrimenti le palle ti finiscono in una trappola cinese o cose simili. Per Calum, invece, quel giorno appariva addirittura fortunato – i suoi sarebbero rimasti due ore in più via e lui, coi risparmi, aveva potuto acquistare una quantità maggiore di cocaina. Lo pensava ancora mentre tirava su col naso la polvere bianca che aveva finemente sminuzzato in precedenza, un sorriso serafico in viso. Non lo pensava più quando la porta della sua stanza si spalancò, rivelando una donna di mezza età che aveva i suoi stessi tratti – sua madre. Il petto della donna era percosso da singulti, mentre il marito lo afferrava per le braccia e lo portava fuori di lì. Cercava di divincolarsi dalla sua stretta Calum, ma il forte senso di nausea lo costrinse a fermarsi e ad accartocciarsi su se stesso. Continuava a borbottare che se l'era meritata la cocaina e che loro non avevano il diritto di portarlo via, perché lui era maggiorenne. Fece appena in tempo a sentire sua madre che si lasciava andare in un pianto e cadeva sulle ginocchia (“Tu non sei mio figlio, sei il figlio di satana”), prima di essere trascinato in un'automobile e sgommare via verso chissà dove. Era ancora sballato e dal naso colavano rivoli di sangue, quando la vettura si fermò davanti ad un edificio spoglio, dalle pareti ingrigite dallo smog e crepate. Le finestre, quasi tutte sbarrate, gli trasmettevano una sensazione sinistra e per nulla rassicurante. Suo padre lo afferrò di nuovo per le braccia e lo costrinse ad uscire.
“Senti, bastardo,” gli strinse il braccio e lo fece guaire dal dolore. “In diciannove anni ci hai portato soltanto guai.”
Calum non riusciva quasi a reggersi in piedi, ma quelle parole gli arrivarono dritte al cervello e fecero male quanto una lama infilata all'altezza delle costole. I suoi genitori l'avevano fatto sentire un reietto, ma ciò che gli procurava più dolore era che, una parte non troppo remota del suo cervello, gli diceva che meritasse ogni singolo insulto. Provò ancora una volta a strattonarsi dalla presa, ma era come arpionato da tentacoli di una piovra.
“Starai qui, dove stanno i malati. Perché è questo che sei.” Nessun'altra spiegazione, solo poche e dirette parole prima di spingerlo in quella costruzione, quasi fosse un animale da circo da vendere. Era una sorta di ospedale. No, era sicuramente un ospedale, lo si capiva dalle pareti bianche e dal viavai di infermieri che affollava i corridoi stretti e lunghi. Ma lui non era malato; più in là avrebbe capito che il termine adatto è dipendente.
L'uomo – che da allora in poi si sarebbe rifiutato di chiamare padre – si consultò con il personale dietro al bancone. Erano in una sala d'attesa e Calum non poté far a meno di notare come tutti quelli seduti ad aspettare sembrassero voler esplodere in una scenata da un momento all'altro. Anche Calum voleva urlare, perciò pensò che forse anche lui era un po' malato. La cocaina stava ancora facendo il suo effetto, infatti cominciò ad urlare pochi secondi dopo. “Che cazzo vuoi da me? Ho il diritto di oppormi a tutto ciò che volete farmi!”
Le persone in giro lo guardarono, lo guardarono fino a quando due infermiere non lo presero per i polsi e lo trascinavano via, mormorandogli parole nelle orecchie con la stessa premura che si avrebbe con un bambino. Ma lui aveva diciannove anni, perché cazzo lo trattavano in quel modo? Voleva solamente divertirsi. Fu portato in una stanza spoglia, con una brandina addossata ad un muro e uno specchio che era grande a malapena per riflettere il suo volto. Era sempre stato un ragazzo bello, ma adesso, mentre le infermiere gli spiegavano che quella sarebbe stata la sua abitazione provvisoria, lui in quello specchio ci vedeva riflesso un estraneo, con le occhiaie e le guance infossate. Lo chiusero lì dentro, come se fosse un pazzo da legare, e lui ebbe modo di notare la finestra sbarrata. Era come stare in una cella e non ci poteva credere che sua madre gli stesse facendo quello. Venne la sera; non c'erano orologi, ma Calum lo poteva constatare dai piccoli frammenti di luce – o, in questo caso, buio – che trapelavano dai piccoli buchi alla finestra. Era stanco ora che l'effetto dello stupefacente era svanito e gli aveva lasciato un grande vuoto dentro. Quelle quattro mura sembravano soffocarlo e magari pazzo lo sarebbe diventato sul serio. Seduto al centro della stanza, a gambe incrociate, Calum si era accorto soltanto ora della porta alla sua sinistra; era di certo il bagno. Strisciò verso di quella e si aiutò con la maniglia per rimettersi in piedi. Era un buco, letteralmente, che ospitava un water e un lavandino. Null'altro. Niente doccia o mobiletti. Si calò la zip dei pantaloni, perché gli venne in mente di dover urinare. Avrebbe potuto affogarsi con l'acqua del water, ma perché sprecare una grande personalità e un gran bell'aspetto come i suoi? No, piuttosto avrebbe dimostrato che c'era stato un equivoco e sarebbe tornato a casa presto. Tornò nella stanza, che ora era buia. Avevano spento le luci. E' ora della nanna, a quanto pare, pensò Calum. Si stese sul letto, le molle cigolarono sotto il suo peso, e non riuscì ad addormentarsi se non svariate ore dopo.
Non seppe se a svegliarlo fu il brutto sogno oppure il persistente bussare alla porta, però, fatto sta che si svegliò di soprassalto esattamente quando stava per essere sbranato da una creatura della notte. La stanza era illuminata da un lieve bagliore, tipico di novembre, e ai suoi piedi, sul letto, erano stati poggiati dei vestiti. Erano bianchi e profumavano di spirito, notò quando li prese tra le mani. Si ricordò dopo che qualcuno stesse bussando alla porta e “Sono sveglio, merda!” rispose drizzandosi in piedi. La persona fuori la porta – un altro infermiere, suppose – gli ordinò di cambiarsi e di mettersi quei vestiti. Calum grugnì, perché piuttosto avrebbe preferito mozzarsi una falange, e cominciò a battere i pugni sulla porta. Doveva uscire di lì e se non avessero aperto la porta, l'avrebbe buttata giù con un calcio. Non ebbe modo di sfogare la sua rabbia repressa, perché la porta venne aperta in modo assolutamente normale. Calum, dietro di questa, ci trovò un ragazzo. Un ragazzo veramente strano, con una bandana tra i capelli e un paio di fossette. Aveva quella tipica espressione da psicopatico felice, con un sorriso a trentadue denti, che però sparì quando lo vide.
“Perché non ti sei cambiato?” La voce squillante gli perforò un timpano e Calum represse l'istinto di portarsi le mani alle orecchie. “Non importa! Lo farai dopo.”
Calum alzò un sopracciglio. Pazzo! Lo seguì per il lungo corridoio dove, come il giorno prima, si affollava gente indaffarata. Lasciò che lui gli raccontasse un aneddoto su quel posto e che gli desse un paio di raccomandazioni (“Non toccare gli altri, alcuni possono essere aggressivi”). Il tizio, che aveva appena finito di parlottare senza sosta, aprì la porta che dava ad una stanza piena di tavoli, a cui erano seduti un sacco di ragazzi e ragazze e anche adulti. Gli ricordava vagamente la mensa della sua vecchia scuola e questo gli fece venire in mente la canzone High School Never Ends. Il tizio di prima gli porse un vassoio e “Spero ti piaccia il cibo! Puoi trovarmi al tavolo accanto alla porta se ti serve aiuto” disse, prima di saltellare via come un canguro. A Calum bruciava il naso. Era l'unica cosa a cui pensava, mentre la fila avanzava a piccoli passettini. Davanti al cibo gli venne ancora una volta la nausea, perciò si fece dare soltanto una bottiglia d'acqua e slittò verso l'unico tavolo vuoto. Il suo obbiettivo era passare inosservato, e c'era quasi riuscito, esultando internamente vittoria, se solo alle sue spalle non fosse apparso un altro ragazzo. Sobbalzò, rovesciando il vassoio vuoto e pure la bottiglia (per fortuna ancora sigillata), quando questi gli toccò una spalla.
“Mi dispiace averti spaventato,” fece con tono triste. Aveva i capelli tinti di verde acido e ecco un altro pazzo! “Non dovresti digiunare. La colazione è il pasto più importante della giornata.”
“Se mangiassi, potrei vomitarti addosso.” Fu il commento di Calum, che, dopo aver recuperato la bottiglia e il vassoio, scivolò lungo una sedia.
“Oh,” sospirò lui. “Sono Michael, comunque.”
“Calum.”
“Sei quello nuovo?” domandò, sedendoglisi difronte. Aveva tra le mani una piccola cordicella e nel giro di mezzo minuto era riuscito a fare almeno cinque nodi e slegarli.
“Così pare,” fece lui vago, mentre apriva la bottiglia. Prese un sorso d'acqua, storcendo il naso, perché era minerale.
“Oggi ci vieni alla terapia di gruppo?” chiese, la speranza palese nel tono di voce. Calum non ci voleva andare alla terapia, perché andarci avrebbe reso ufficiale il fatto che fosse malato o che, comunque, avesse qualche problema. E lui non ce l'aveva.
“Passo.”
“Ma devi venirci!” insistette il ragazzo. “Devo presentarti Luke!”
Calum lo vide lanciare un'occhiata a qualcuno alla sua destra, prima di scusarsi e avanzare verso l'uscita. Lui a quella terapia non ci sarebbe andato. Proprio no.

 

 
La cosa peggiore di tutto quello, oltre all'impossibilità di conoscere l'orario e di avere una percezione del tempo, era che alla terapia fu costretto ad andarci. Erano passate ore dalla colazione, quando Ashton venne di nuovo a bussare alla sua porta. Questa volta Calum si era cambiato, ma aveva lasciato i suoi stivali sotto a quell'ammasso di cotone bianco. La terapia aveva luogo in una stanza grande – sembrava essere stata una palestra. C'erano, al centro di essa, una dozzina di sedie sistemate in cerchio e occupate da pochi altri ragazzi. Calum riconobbe il ragazzo dalla testa verde e, alzando le spalle, andò a sedersi accanto a lui.
“Alla fine sei venuto!” esclamò lui. La cordicella ora era sparita e aveva lasciato il posto ad una bandana (probabilmente gliel'aveva regalata l'infermiere con cui aveva parlato, perché era simile a quella che aveva in testa la stessa mattina). “Mi piacciono i tuoi stivali.”
Calum li guardò un attimo, il nero scolorito alla punta e i lacci che una volta era stati bianchi, prima di “Belli, eh?” dire, con un sorrisetto.
Di fronte a lui c'era seduto un uomo di mezza età, la testa sgombra di capelli e lucida. Un paio di occhiali a montatura grossa gli erano scivolati sulla punta del naso. Doveva essere lo strizzacervelli – lo capiva anche dalla costosa camicia che indossava e dai mocassini color cammello. Sembrava però capirci meno di tutti i pazienti messi assieme, si vedeva dalla sua espressione persa nel vuoto. Calum, comunque, non si sarebbe fatto psicoanalizzare da un tipo del genere. Era lì solo per studiare gli altri e trovare un modo per andarsene al più presto.
Una volta che tutti furono radunati e le sedie furono occupate, lo strizzacervelli si schiarì la gola. “Come molti di voi sapranno, sono il Dottor Coleman.” Il tono di voce era pacato, ma faceva in ogni caso saltare i nervi di Calum uno per volta. L'uomo mise subito da parte i convenevoli, chiedendo alla ragazza alla sua destra di prendere la parola. Aveva all'incirca sedici anni, i capelli di un anonimo castano, così come gli occhi. Calum notò come si stringesse nelle spalle, per evitare di toccare la persona alla sua destra e alla sua sinistra. “Mi chiamo Kate Walcott.” Fece un grosso respiro e poi continuò a parlare. “E sono affetta da disturbo ossessivo-compulsivo.”
La ragazza cominciò a parlare di come quella mattina si fosse lavata le mani soltanto quattro volte e Calum fu sempre più convinto di essere finito in un manicomio. Dopo di lei, parlarono altre cinque persone; poi fu il turno di Michael.
“Sono Michael Clifford, ciao. Come va la dieta?” chiese al dottore. Lui si strinse nelle spalle e scuoté la mano aperta col palmo rivolto verso il basso. Così così. Il che significava per certo che, per colazione, aveva mangiato almeno tre barrette al cioccolato. “Io sono affetto da ADHD. Ieri Ashton – volevo dire l'infermiere Irwin mi ha dato la sua bandana perché la mia corda si è rotta. E' stato gentile da parte sua. Lui è l'unico che si comporta bene con noi.” Forse per caso, o forse no, prese a fare nodi alla bandana e allacciarla al polso più volte.
Calum si domandò a cosa servisse quella terapia quando non conosceva neppure la metà di quelle malattie – solo una persona tra coloro che avevano parlato aveva una dipendenza e non era malato. Lui però non ce l'aveva una dipendenza; ne assumeva pochissima di cocaina e solo il venerdì. O almeno era ciò che ricordava.
Dottor Coleman gli fece un cenno col capo. “Va bene, Michael,” lo rassicurò. Poi guardò Calum e lui intuì fosse il suo turno.
“Il mio nome è Calum Hood. Sono un acquario, mi piacciono i tramonti, le lunghe passeggiate sulla spiaggia e non ho nessun fottuto problema,” disse, le mani congiunte in grembo e un sorriso serafico sulle labbra. Colse il guizzo nella mascella del dottore e la vena sulla fronte pulsare; credeva che sarebbe scoppiato da un momento all'altro. Ma, invece di urlargli qualche insulto gratuito, il dottore si tolse gli occhiali e se li mise nel taschino della camicia con gesti lenti e misurati. Calum lo guardava con un sopracciglio alzato, pronto per la sua sfuriata.
“Calum Hood.” Il suo nome risultò quasi un insulto sulle labbra dell'uomo. “Ti dirò io qual è il tuo problema. Assumi stupefacenti e ti piace molto l'alcol.”
“E allora?”
“E allora, la cocaina ti distrugge il cervello. Devi imparare a farne a meno, perciò sei qui.”
Calum alzò gli occhi al cielo, mentre lo sguardo dello strizzacervelli scivolava sugli altri. Un gruppo di persone e tutta quella messinscena non gli avrebbero fatto imparare a farne a meno. Non ce n'era bisogno; fino a quando non ne avrebbe fatto uso ogni giorno, non sarebbe stato un problema. Michael gli assestò una gomitata sullo stomaco, spezzando quella catena ininterrotta di pensieri.
“Quello è Luke!” affermò il ragazzo, un po' troppo su di giri. Calum tentò di individuare il ragazzo di cui stava parlando, ma ci riuscì soltanto quando il dottore lo incitò a parlare. E si domandò come avesse fatto a non notarlo prima. Era bianco come un cencio, questa era la prima cosa che saltava all'occhio, subito dopo i suoi occhi. Distava da lui almeno qualche metro, ma era riuscito a scorgere comunque ogni tonalità di blu delle sue iridi nell'istante in cui aveva alzato gli occhi per due secondi appena. I capelli, invece, erano una massa aggrovigliata bionda. Quel ragazzo gli piaceva e ciò avrebbe dovuto bastare ed avanzare come motivazione per allontanarsi il più possibile da lui. Perché di solito a Calum non piacevano le persone; in realtà non gli erano mai piaciute. L'unico motivo per cui, pochi anni prima, stava insieme ad una ragazza, era perché ancora gli importava del giudizio degli altri e dei suoi genitori. Ma adesso non poteva fregargliene di meno.
Il modo in cui Luke tirava le maniche della sua felpa – che indossava sopra all'abbigliamento comune per tutti – gli faceva capire che fosse una persona estremamente insicura.
“Luke?” lo chiamò il dottor Coleman. “Ti è successo qualcosa?”
Luke scosse la testa. “Ti sei sentito giù? Hai avuto di nuovo quell'impulso?” chiese ancora.
Calum provò ad indovinare cosa avesse quel ragazzo; a parte il pallore quasi anemico, gli sembrava perfettamente normale. Un po' troppo introverso, forse. Ma assolutamente sano. Poi li vide. Nell'esatto momento in cui lasciò andare per sbaglio l'orlo della sua felpa, un paio di tagli, alcuni cicatrizzati, altri più recenti, fecero strabuzzare gli occhi di Calum. Erano stati fatti in obliquo, quasi come se avesse sentito dire che in quel modo sarebbe stato più facile togliersi la vita. Perché Calum sapeva che se li era procurati durante il tentativo più disperato di suicidarsi. E si sentì male per lui, un ragazzo di poco più di diciassette anni tanto fragile quanto bisognoso di qualcosa che lo convincesse a restare lì, ancorato al terreno. Non fece in tempo a vedere altro, perché Luke si tirò di nuovo la felpa giù, guardandosi intorno terrorizzato. Incontrò lo sguardo di Calum e, nonostante il moro avesse messo su quell'espressione indifferente che credeva gli riuscisse alla meraviglia, capì che Luke sapeva. Sapeva che Calum aveva visto. Lo capì dal modo in cui si torturava le mani e dalla vergogna nei suoi occhi. Calum non riuscì più a reggere il suo sguardo, perciò lo spostò su Michael alla sua destra.
“Carino il ragazzo,” commentò.
“E' simpatico,” gli assicurò Michael, ma Calum era di nuovo sprofondato nei suoi pensieri e non stava capendo nulla di ciò che l'altro gli stesse dicendo.
Si tirò in piedi con un gesto quasi meccanico quando vide tutti gli altri farlo. Aveva avuto modo, in quell'ora, di constatare l'inutilità di tutta quella messinscena. I ragazzi e gli adulti non avrebbero smesso di avere i loro problemi parlandone ad alta voce ad un tizio che sembrava un deficiente, di quello Calum ne era sicuro. Camminando verso l'uscita, si sentì puntellare la spalla; Michael aveva un'espressione dispiaciuta in volto e “Il dottor Coleman ti vuole nel suo ufficio,” gli disse. Calum strinse gli occhi a due fessure; che cosa voleva, adesso? Cercò di chiederlo all'altro, ma lui lo precedette scrollando le spalle. “Non ne ho idea, ma non ti conviene farlo aspettare.”
Calum non voleva andarci. Era troppo affamato, nonostante la cocaina solitamente gli togliesse ogni genere di appetito, e sarebbe potuto svenire da un momento all'altro. Tuttavia, si ritrovò a vagare in un corridoio molto più largo di quelli che aveva già visto, in cerca della porta giusta. Era la terzultima a sinistra ed aveva il nome dello strizzacervelli sopra. Senza curarsi di bussare, fece irruzione nella stanza. Non poteva mica aspettarsi di trovarci già il ragazzino biondo, Luke, che stava seduto sul divano, con lo sguardo puntato sulle sue scarpe.
“Odio questo posto,” stava dicendo e Calum non si sarebbe mai e poi mai aspettato di sentire la sua voce. Ma evidentemente si sbagliava. Era più roca di quanto pensasse e il ragazzo aveva un lieve accento australiano, molto meno marcato del suo. Gli piaceva perfino la sua voce. “E voglio tornare a casa.”
Appena lo videro, sotto la porta e con una mano ancora sul pomello, il ragazzo si zittì, mentre il dottore lo invitò ad entrare. Luke aveva un'espressione stupita, le labbra socchiuse e gli occhi leggermente sgranati.
“Mi hai chiamato?” Tentò di essere disinvolto il più possibile, mentre si sedeva sulla sedia di fronte alla scrivania.
Fece un cenno a Luke, “Puoi andare.”
Vide il ragazzo sparire dietro la porta senza dire un'unica parola.
“Sì, Calum, ti ho chiamato.”
“Per quale motivo?” Cominciò a guardarsi intorno; dai quadri di cattivo gusto, con paesaggi o macchie indistinte, al portacenere di vetro sulla scrivania, che scoprì fosse proprio del dottore solo quando l'uomo, con fin troppa disinvoltura, si accese una sigaretta. Calum era sul punto di mandarlo a fanculo. Invece, lo guardò di sottecchi e cominciò a leggere una brochure pescata a caso dal mucchio sulla scrivania. Come evitare malattie sessualmente trasmissibili, annunciava il titolo scritto in grassetto e in rosso, prima di un fiume di parole che preferì non leggere e alcuni disegni incredibilmente dettagliati. Con un gesto lento e imbarazzato, lo ripose di nuovo sul tavolo.
“Perché sei testardo.” Cacciò via un po' di fumo dalle narici, che arrivò dritto sulla faccia di Calum. Quest'ultimo fece una smorfia contrariata, spostando la testa di lato.
“Non è vero,” ribatté.
“Di tutti i miei pazienti, tu sei uno dei pochi che non vuole farsi aiutare,” ammise il dottore, scrollando un po' di cenere.
“Anche quel tizio di prima non vuole farsi aiutare,” si difese, incrociando le braccia al petto.
“Luke ha qualcosa di diverso, qualcosa che non può essere mandato via come una semplice dipendenza,” spiegò. Spense la sigaretta nel posacenere e congiunse le mani, un cipiglio serio sul volto.
“Lo so, l'ho capito ciò che ha provato a fare.”
“E credi che sia qualcosa di semplice?” Non stava urlando, né rimproverandolo in alcun modo, ma quel tono costantemente basso e il suo sguardo lo fecero sentire inferiore. Una nullità che non ci capisce niente. “Prova a parlargli e paragonati a lui soltanto quando ti risponderà.”
Calum ci pensò; in quei dieci secondi e mezzo di silenzio pensò che forse sarebbe riuscito a farlo parlare, perché non poteva essere così difficile. Aveva la certezza di essere carismatico e di fare in modo che la gente lo trovasse simpatico, se e quando lo voleva. Quindi, prima o poi, sarebbe riuscito a far parlare Luke. Era una promessa.
“Tornando a te, vuoi farti aiutare?” Ora il tono era più leggero e sbrigativo. “Allora smettila di fare battute che non fanno ridere e comportarti nel modo in cui un diciannovenne dovrebbe comportarsi.”
Il ragazzo non sbuffò, né alzò gli occhi al cielo. Rimase lì seduto a guardare le lancette dell'orologio che giravano, in silenzio. Questo fino a quando il dottore non gli permise di uscire di lì.
Camminava a testa bassa, quando si imbatté in qualcuno. Riconobbe subito la bandana tra i capelli e le due fossette, ancor prima di essere travolto dalla solita allegria che quel ragazzo si trascinava dietro. Ashton, così l'aveva chiamato Michael.
“Calum!” strillò lui. “Tutto okay?”
“Tutto bene,” rispose, sforzandosi di fare un sorriso e fallendo miseramente.
“Che ti ha detto il Dottor Male?” scherzò.
“Nulla, assolutamente nulla,” mentì, tenendo lo sguardo lontano dagli occhi del ragazzo.
“Non si direbbe, hai una faccia!”
Calum scrollò le spalle, “Davvero. A proposito, com'è che devo rivolgermi a te?”
“Sono Ashton davanti agli amici ed infermiere Irwin davanti ai nemici,” gli rispose e Calum si chiese se fosse quello che dicesse a tutti. Se fosse stato così, allora Michael reputava il dottor Coleman un nemico. Sorrise a quel pensiero. “Vuoi venire con me a svagarti?”
Calum non ebbe il tempo di rispondere, perché Ashton lo trascinò via. Lo portò in una stanza abbastanza grande, dove c'erano tutti quanti. Calum vide Michael davanti alla televisione, che si muoveva nervosamente e si rigirava la bandana tra le dita, forse aspettando con impazienza i risultati di una partita. Vide anche Luke, seduto di fronte ad una scacchiera, da solo. Non ci pensò due volte; salutò Ashton e gli si avvicinò. Luke inizialmente non lo vide, troppo assorto a creare una strategia di gioco. Quando lo fece, però, sobbalzò sul posto, e fu sul punto di alzarsi e scappare via. Calum però lo bloccò.
“Resta, voglio giocare a scacchi.” Okay, il fatto era che Calum non aveva mai giocato a scacchi in tutta la sua miserabile vita. Ma quella poteva essere un'occasione per stare con l'altro. Magari alla fine di quel giorno sarebbe stato capace di giocarci e sarebbe pure riuscito a farlo parlare.
Luke allora cominciò ad ordinare tutte le sue pedine bianche sulla tavola e Calum lo imitò, ordinando quelle nere. Sembrava dannatamente accurato, perché tutto ciò che si pensava quando si guardava Luke era bianco. Ma non per il colore della sua pelle, ma perché sembrava quasi un angelo. Mentre, Calum era il nero, il colore del male, senza macchie bianche e senza colori intermedi. Due colori così diversi per due personalità opposte.
Gli sembrò giusto avvisare Luke del fatto che non sapesse come si giocasse – non poteva improvvisare, è un gioco complesso quello! Allora il biondo, con gesti ed esempi, cominciò a spiegargli tutto ciò che c'era da sapere. Non una sola parola gli uscì dalle labbra. E quando Calum sbagliò a muovere il suo alfiere, Luke preferì colpirlo sul naso con il suo cavallo, piuttosto che rimproverarlo.
“Ahio!” si lamentò. Luke lo stava guardando con un'espressione arrabbiata, quasi volesse dire qualcosa come te l'ho mostrato almeno dieci volte, idiota! Calum scoppiò a ridere, tenendosi la pancia e rivoltando la testa all'indietro, e, quando si fu calmato, incontrò lo sguardo perplesso di Luke.
“Sei carino quanto ti arrabbi,” confessò Calum, passandosi una mano tra i capelli – stai davvero flirtando con un tizio che neppure parla?
Lo vide arrossire e abbassare lo sguardo sulla scacchiera, prima di fare scacco matto.
“Oh, dannazione!” esclamò Calum, mettendo su un finto broncio. Luke sorrise appena e per Calum quello fu mille volte più importante di una vittoria. Ricorda di aver pensato cosa cazzo mi sta succedendo?, mentre una sensazione strana gli cresceva alla bocca dello stomaco, ben più piacevole dell'effetto di uno stupefacente.

 

 

Il giorno dopo era una domenica e, di conseguenza, il giorno delle visite. Solitamente, di domenica, Calum era obbligato da sua madre ad indossare abiti eleganti che cozzavano con i suoi stivali e la sua faccia nera di rabbia. Era costretto a restare stipato in una scatola colorata e assistere ad un'enorme farsa della durata di due ore, dove tutti pregavano affinché potessero essere assolti da tutti i peccati. Odiava il modo in cui tutti lo guardavano, perché sapevano perfettamente che fosse lì per sbaglio. Quella mattina, però poté rimanere seduto sul divano a far finta di guardare un reality show. La stanza era praticamente vuota, eccezion fatta per due o tre persone che giocavano a dama o a scacchi o suonavano un pianoforte di legno antico e danneggiato in alcuni punti, che in precedenza lui non aveva notato, ma che doveva essere lì da molto tempo, e Luke. Distava da lui una ventina di centimetri, ma questo non gli impedì di studiare a fondo ogni suo dettaglio. Avrebbe dovuto guardare come quella ragazza voleva a tutti i costi vincere il titolo di nuova pasticciera emergente, ma il modo in cui Luke si mordeva il labbro inferiore quasi spasmodicamente gli sembrava molto più interessante. Perciò, continuò a mandargli occhiate con la coda dell'occhio, senza farsi beccare. Trovava interessante anche il modo in cui stringeva perennemente l'orlo della felpa e lo strattonava, in modo che coprisse sempre più lembi di pelle. Calum sapeva il perché e quello non lo trovava interessante, ma soltanto triste. Trovava addirittura attraenti gli occhi che riflettevano prima il giallo e poi il rosa della televisione, mischiandosi con l'azzurro cristallino delle sue iridi e andando a creare sfumature mozzafiato. Quando il programma finì, lasciando spazio alla pubblicità, lui non se ne accorse neppure. Lo intuì quando Luke voltò il viso verso di lui, le sopracciglia corrucciate in una muta domanda. Avrebbe preferito che gli chiedesse ad alta voce se fosse un pazzo che amava osservare la gente, ma dovette accontentarsi di quello.
“Stavo pensando, ti va di sentirmi suonare il piano?” domandò di getto Calum, senza pensare alle conseguenze. Perché lui il piano non lo suonava da almeno sei anni, da quando il maestro era diventato troppo costoso e lui era entrato nella fase punk della sua vita, e non era troppo sicuro di saperlo ancora fare. Ma il piccolo luccichio negli occhi di Luke, appena accennato ma pur sempre presente, lo convinse che quella era stata una gran buona idea.
Luke si alzò, con movimenti fluidi e leggeri, e camminò verso lo strumento, quasi come se fluttuasse. Calum lo seguiva. Il biondo appoggiò il gomito sulla superficie e lasciò andare la guancia sul palmo della sua mano, mentre Calum si sistemava sullo sgabello e cominciava a premere i tasti bianchi lucidi. Quella che stava suonando era la versione più brutta di Sweet Home Alabama che il mondo aveva avuto il piacere (o meglio, il dispiacere) di ascoltare; i suoi movimenti non erano più fluidi come una volta e aveva mancato qualche nota qua e là. Luke però non poté far a meno di spalancare gli occhi, colmi di qualcosa che Calum associò al puro entusiasmo. La canzone finì e Luke si rimise dritto per applaudire. Calum non notò le poche altre persone che gli chiedevano di suonare altro; notò però il modo in cui le labbra di Luke si incurvarono e poi si aprirono per sussurrare un brevissimo bravo. Poteva affermare di avercela fatta e di aver mantenuto la sua promessa; poteva correre fino allo studio dello strizzacervelli e rinfacciarglielo, con quel suo sorriso furbo e il tono saccente. Invece rimase lì, a suonare una vecchia canzone che gli era stata insegnata parecchi anni prima. E un'altra ancora e un'altra, fino a quando non fu ordinato loro di uscire di lì per andare a fare la doccia.
Calum seguì tutti gli altri, fino ad arrivare ad una stanza lunga e stretta provvista solo, appunto, di docce. L'unica volta che gli era capitato di lavarsi insieme ad altri uomini era stata tre anni prima, quando era ancora alle superiori ed aveva appena finito il suo allenamento di calcio. Ma erano solo ragazzi quelli con cui aveva dovuto condividere le docce; adesso invece c'erano persone di ogni età e con dei problemi, alcuni seri altri meno. Per questo, quella sua punta di timore era assolutamente giustificata. All'entrata un infermiere gli consegnò un asciugamano, della biancheria intima pulita e dei vestiti puliti. Cercò di fare in fretta, mentre si sfilava i vestiti e si teneva i boxer, perché l'idea di stare completamente nudo e alla mercé di chiunque lo imbarazzava a morte (ma questo non l'avrebbe mai ammesso). Si insaponò velocemente, si risciacquò – ignorando la fastidiosa sensazione dei boxer bagnati che gli si appiccicavano sulle gambe – e subito si coprì con l'asciugamano. Uscì dal box giusto in tempo per vedere Luke infilarsi, in un angolo appartato, la maglietta pulita e una felpa nuova – questa volta di una band metal di cui Calum aveva ascoltato qualche canzone. Si chiese perché a lui fosse permesso di indossare suoi vestiti e agli altri no. Poi pensò che, se glielo avesse chiesto, lui gli avrebbe concesso tutto ciò che voleva. Seppellì immediatamente quel pensiero da qualche parte nella sua mente.

 

Era sempre stato strano il modo di relazionarsi con la gente di Calum. Aveva passato gli ultimi quattro anni a cercare di allontanarsi il più possibile da tutti quanti. E c'era riuscito, perché nessuno sarebbe mai rimasto in contatto con uno che tratta la gente da schifo e si crede superiore. Calum, però, non si sentiva affatto superiore. Anzi, pensava di essere un adolescente come tanti altri, con i suoi ben giustificati difetti (era ciò che gli aveva detto un suo conoscente barra spacciatore la prima volta che gli era stato chiesto se volesse assumere cocaina. Era riluttante, non lo nascondeva. Sapeva che era pericoloso e proprio questo, insieme alla pacca sulla spalla e qualche sorriso rassicurante, lo aveva fatto).
Era altrettanto strano il modo in cui si era avvicinato a Luke in una sola settimana e mezzo. All'inizio gli si sedeva accanto e faceva a meno di parlare, consapevole che non avrebbe ricevuto alcuna risposta. Invece, lo guardava ogni poco, mentre Michael gli spiegava ogni dettaglio di quel film che aveva visto il giorno prima durante l'ora libera. Alcune volte, a pranzo o a cena, gli chiedeva se avesse fame, per ricevere in cambio un cenno con la testa. Quella tecnica si era perciò rivelata un fiasco e quella di sentire almeno un'altra volta la sua voce era diventata una priorità. Perché lì non c'era molto da fare, ovviamente. E poi, in quel modo, riusciva a non pensare al suo bisogno fisico di stupefacenti e al modo in cui il suo naso, non raramente, cominciava a sanguinare.
“Ciao, Luke.” Il lunedì mattina della seconda settimana, la mensa era piena. Aveva sentito dire, da due infermieri, che la sera prima erano arrivati nuovi pazienti (le parole esatte erano state “Greg, ieri notte sono arrivati altri pazzi! Posso dire addio alla mia settimana di ferie. Mia moglie mi ucciderà, sempre se non lo faranno questi squilibrati qui”). A Calum in ogni caso non interessava granché.
Il biondo alzò la testa per rivolgergli un'occhiata neutra. Calum non sopportava il fatto che Luke fosse così indecifrabile, soprattutto perché era sempre stato circondato da persone che esprimevano i propri sentimenti con facilità. In questo modo, poteva prevedere le loro mosse e prevenire disastri. Lui stesso lasciava trasparire la sua rabbia o, anche se più raramente, la sua felicità. Stare di fronte a Luke, invece, era uguale a stare di fronte ad un muro. E lui non avrebbe potuto prevedere le sue mosse. “Oggi hai fame?”
Ancora un volta, scosse la testa fermamente. Calum si accasciò sulla sedia e cominciò a mangiucchiare una fetta di torta alle mele. “Sai, una persona mi ha detto che la colazione è il pasto più importante della giornata,” gli confidò. Non gli disse però che quella persona era Michael, perché nessuno ci avrebbe creduto. Michael non sembrava un dispensatore di consigli di vita, comunque. Si stupì quando il ragazzo si sporse ad afferrare uno dei biscotti ancora intatti dal suo vassoio (nel farlo, la manica della felpa si alzò, mostrando di nuovo una serie di segni rossi sulla pelle diafana. Calum cercò di non guardare troppo e Luke non se ne accorse). Lo mangiò a minuscoli morsi e quasi come se fosse una tortura. Ma lo mangiò tutto, perciò Calum assunse che non lo disprezzasse quanto la pasta e la carne.
“Non ti piace troppo il cibo, vero?” Come previsto, non ricevette una risposta.
Era diventata un'abitudine invece quella di incontrarsi ogni giorno per giocare a scacchi. Calum, dopo essere battuto sonoramente, gli proponeva di suonare qualcosa e gli occhi di Luke si illuminavano. Quello era l'unico momento in cui il ragazzo abbatteva la barriera che aveva posto tra sé ed il resto del mondo. Lo vedeva da come prendeva l'iniziativa e si avvicinava allo strumento, tenendosi completamente ancorato a questo. Lo vedeva da come faceva ticchettare a tempo le lunghe e nodose dita sul legno e da come, un sabato pomeriggio, gli sussurrò di voler imparare a suonare il pianoforte. Calum rimase a bocca aperta, le mani sospese su due note e lo stupore che gli rendeva impossibile qualsiasi movimento. La sua voce gli arrivò alle orecchie come arriva la primavera; una sottile brezza tiepida che gli scaldò il cuore quel giusto per sciogliere il ghiaccio che vi si era formato. A quel punto aveva quasi dimenticato la sua promessa. Aveva dimenticato anche il proprio nome, a dir la verità. Riprese a suonare dopo un po'; la canzone, la ricorda ancora benissimo, era Asleep degli Smiths.
Lo stesso pomeriggio, sentì il bisogno di parlare con il dottor Coleman. C'era ancora una sorta di ostilità nei suoi confronti, soprattutto quando cercava di psicoanalizzarlo con frasi fatte che mandavano in bestia Calum. Ma, quando entrò nel suo studio e lo trovò lì a digitare qualcosa al computer, mise da parte quella ostilità per ciò che al momento sembrava più importante. Si sedette a gambe incrociate sul divano e incominciò a parlare prima che gli fosse chiesto.
“Si tratta di Luke,” disse tutto d'un fiato. Il dottore smise di rivolgere la sua attenzione al computer e lo guardò, questa volta veramente. “Mi ha parlato.”
Il ragazzo aspettò la risposta dell'uomo che però non arrivò. Solitamente lo incitava a continuare oppure faceva lievi commenti su ciò che aveva detto. Adesso però lo studio era immerso nel silenzio, perciò Calum si convinse a dire altro. “Stavo suonando il pianoforte e lui mi ha detto di voler imparare a suonarlo.”
“Ti ha detto qualcos'altro?”
Calum sospirò rumorosamente, “Nient'altro.” Poi si affrettò ad aggiungere: “Per ora.”
Il dottore fece quel verso che indicava che stava pensando cosa dire o cosa fare. Qualcosa come un mh prolungato che non preannunciava nulla di buono.
“Vuol dire che gli piaci.” Fu tutto ciò che disse; poi tornò a ticchettare sulla tastiera, come se da quei tasti dipendesse il mondo così come noi lo conosciamo. Calum soppresse un sorriso; era carino interessare a qualcuno che sembrava detestare ogni cosa. Lo faceva sentire piuttosto importante.
“Io piaccio a tutti!” chiarì, incrociando le braccia al petto.
“Be', stranamente piaci anche a lui. Forse non ti conosce abbastanza,” il dottore disse, alzando le spalle.
“Cosa vuol dire?” s'infuriò. Calum era sicuro di avere un buon carattere. Almeno, lo aveva quando non era arrabbiato, né triste oppure annoiato. Be', il suo carattere era okay e non c'era niente di sbagliato in esso. Aveva il carattere di ogni adolescente medio – anche se lui, adolescente forse non lo era più.
“Trovo strano che uno come Luke possa vedere qualcosa in te. Avete due caratteri troppo diversi.”
Calum fece un verso di scherno. Trovava giuste però le sue osservazioni; anche lui era stranito da quell'interesse. Se fosse stato bello quanto Luke, avrebbe frequentato qualcuno di altrettanto bello. Non uno come lui, per intenderci. Uno bello al livello di Frank Iero.
Si alzò dal divano con uno scatto fulmineo. Poco prima di uscire, l'uomo lo richiamò e “Non mandare tutto all'aria,” gli consigliò. Calum si chiuse la porta alle spalle con un tonfo.

 

La sua nuova stanza, aveva imparato durante la settimana, poteva diventare molto più di quattro mura bianche. Non sapeva se quel pensiero fosse la conseguenza delle terapie giornaliere, in cui veniva imbottito di frasi e consigli che coglieva a spezzoni, troppo occupato ad osservare chi era diventato il suo chiodo fisso. Le stesse mura potevano trasformarsi in tele candide su cui la sua mente tracciava linee colorate. Era strano, perché invece di uscirne sano di lì, ne sarebbe uscito completamente fuori di testa. Tuttavia ora non lo disturbava granché il pensiero di essere pazzo: più orribile ancora era la possibilità che non lo fosse. Calum, steso sul letto, le mani dietro la testa a creare un cuscino, ripensò alla voce di Luke. E come se quello fosse stato un via libera, le linee colorate si congiunsero fino a diventare il volto del ragazzo biondo, dagli occhi chiarissimi, contornati da un blu scuro, al naso piccolo e alle labbra sottili. Il suo cervello era stato contaminato da lui, seppure non nello stesso modo della cocaina, che gliel'aveva quasi distrutto. C'era però la possibilità che ad essere distrutto, senza se e senza ma, potesse essere il suo cuore. Non ricordava come ci si sentisse ad essere attratto da qualcuno, però, se gliel'avessero chiesto in quel preciso momento, avrebbe risposto che ci si sente come una ragazzina alle prime armi, guance arrossate e labbra secche comprese. Perché, dio, le sue mani tremavano convulsamente al solo pensiero di poter accarezzare la pelle di Luke e trovare, sul suo collo, tra un neo e l'altro, il suo punto sensibile. E andava in estasi se pensava che avrebbe potuto vederlo sorridere in un modo o nell'altro. Ma non uno dei sorrisi impacciati che gli aveva visto fare tante volte, no, uno di quelli che ti illuminano tutto il volto e le tue labbra si stendono, per mettere in mostra tutti i tuoi denti. Avrebbe dato qualcunque cosa per vedere qualcosa del genere sul viso di Luke. Dalle sbarre della finestra giungeva una luce fioca, quando arrivò alla conclusione di essere, praticamente ed irrimediabilmente, fottuto.
 

Non aveva dormito neppure per un minuto, lo si intuiva delle mezzelune scure sotto i suoi occhi. L'aveva capito pure Luke, seduto al solito tavolo, quando aveva incrociato il suo sguardo. Di nuovo, Calum poté bearsi della sua voce, pacata e armoniosa, che gli accennava un saluto. Durante la notte, aveva temuto che, dopo quella frase, non gli avrebbe più rivolto parola; per fortuna non era stato così. Calum rispose al saluto con un sorriso. Gli porse un biscotto, ma il biondo esitò, perciò Calum mormorò un non fa nulla e lo ripose di nuovo nel vassoio.
“Non hai dormito stanotte?” gli chiese, appoggiando una guancia sul palmo della mano. Calum non riuscì a concentrarsi sui suoi cerali e li lasciò diventare una poltiglia a mollo nel caffellatte. Era così strano intraprendere una conversazione con lui, ma al contempo così rilassante. Luke avrebbe potuto anche parlare dell'agricoltura biodinamica o spiegare come costruire un'arma nucleare per la distruzione di massa e Calum sarebbe rimasto lì, a pendere dalle sue labbra.
“Non proprio,” gli rispose.
“Neanche io dormo la notte,” commentò sovrappensiero. Fece per chiedergli il motivo, ma Michael gli sedette rumorosamente accanto, interrompendo la conversazione.
Buongiorno stelle del cielo,” strillò direttamente nell'orecchio di Calum, che piagnucolo tappandosi entrambe le orecchie con le mani. Portava ancora la bandana di Ashton al polso, ma adesso era molto più rovinata.
“Non dirmi che ti hanno lasciato guardare La fabbrica del cioccolato,” fece il moro in tono supplicante. Non avrebbe retto per ventiquattro ore nonstop un Michael emozionato che fa riferimenti al film e ne cita frasi a sproposito. Proprio no.
E invece, i suoi sospetti furono confermati quando “Non dovresti borbottare perché non capisco una parola di quello che dici” citò alla perfezione. Calum sbuffò e tornò a guardare Luke. Si rese conto che aveva smesso di parlare da quando Michael era nei paraggi e questo non gli piacque neanche un po'. Quando Michael se ne andò, portandosi via il suo sfavillante mondo fatto di Johnny Depp e cioccolato, Calum ne fu grato.
Luke sospirò, attirando su sé lo sguardo interrogativo di Calum. “Odio la terapia.”
Il moro non nascose un sorriso, “Anche io.” Calò il silenzio per un secondo, giusto il tempo che Calum pensasse a qualcosa e lo dicesse ad alta voce. “Potremmo saltarla.”
Aveva un sopracciglio alzato e quel suo solito ghigno in volto. Luke si riscoprì curioso di sapere come (in verità, Calum non ci aveva ancora pensato, ma gli piaceva la prospettiva di passare un'ora da solo insieme a Luke). Fu la faccia del biondo ad illuminarsi, segno che aveva avuto un'idea (e Calum lo vide, quel sorriso a cui tanto aveva agognato per tutta la notte e decise che non ci fosse nulla, né in cielo, né in terra, che potesse eguagliare quella bellezza).
“Potremmo... Non so... Tipo, stare nella mia stanza... Solo se vuoi!” balbettò incerto, lo sguardo fisso sulle mani che giocavano sotto il tavolo. Calum la trovava un'ottima idea e non mancò di farglielo sapere, prima di alzarsi e convincerlo a fare lo stesso. Sgattaiolarono fino al corridoio e arrivarono davanti alla porta della stanza di Luke, che era soltanto a poche porte di differenza dalla sua. Calum temeva fosse chiusa, ma Luke la aprì con facilità. Appena entrato notò subito che fosse diversa dalla sua. Per cominciare era più spaziosa; la porta del bagno era colorata di viola e sulle pareti c'erano un'infinità di scritte di tutti i colori – Calum ne lesse qualcuna velocemente e capì fossero testi di canzoni. Ai piedi del letto c'erano ammassate varie felpe, mentre sul comodino c'era un libro al contrario, aperto sulla pagina a cui era arrivato. Era chiaro come il sole che Luke stesse lì da molto tempo. Calum si sedette sul letto, dopo aver chiesto il permesso a Luke, e vide il biondo imitare i suoi movimenti.
“Che stai leggendo?” gli domandò Calum, per evitare qualsiasi silenzio imbarazzante che sarebbe potuto crearsi.
Luke guardò il libro; aveva una copertina bianca e varie scritte in rosa e azzurro. “Un libro su come combattere l'insonnia e gli incubi.”
La leggerezza con cui lo disse stupì Calum; era forse perché si era abituato a non dormire? Calum cercò di immaginarselo da solo, in quella stanza buia, svegliato di soprassalto da un incubo. Ci riuscì e la sola idea lo faceva rabbrividire.
“C'è scritto che sarebbe utile dormire con qualcuno,” ridacchiò – il suono più bello che Calum avesse avuto l'occasione di sentire. Gli parve di cogliere una lieve punta di desiderio nella sua voce. Come se volesse proprio lui accanto la notte. Chiuse gli occhi e immaginò anche come sarebbe stato stringerlo tra le braccia dopo un brutto sogno. Fu però riportato subito alla realtà da Luke (non poteva volere lui, né chiunque altro, comunque), che gli chiese se avesse una canzone preferita.
Bad reputation, Joan Jett,” rispose di getto. “E la tua?”
Lo sentì ridacchiare, di nuovo (e il suo cuore mancò qualche battito, di nuovo), “A me piace quella che hai suonato ieri con il pianoforte.”
Asleep?” Luke annuì. Rimasero in quel modo, a parlare di tutto, tranne che del loro stato mentale e di tutte quelle cazzate che avrebbero dovuto dire alla terapia. E Calum si sentì vivo.

 

Ci misero più tempo del previsto a scoprire della loro scappatella. Calum aveva ingollato anche l'ultimo boccone del suo pranzo – maccheroni al formaggio –, quando due infermieri dissero loro di alzarsi e li scortarono nell'ufficio del dottor Coleman. Luke gli rivolgeva ogni tanto sguardi mortificati e Calum avrebbe voluto poter avvicinarglisi e dirgli che andava tutto bene, perché cos'altro poteva succedergli? Il dottore era in piedi accanto alla scrivania, le braccia conserte e l'intero viso rosso mattone, dal mento alla punta delle orecchie.
“Sedetevi,” ordinò loro. Luke non ci mise molto a sgusciare verso il divano, mentre Calum gli lanciò un'occhiataccia prima di imitare i movimenti del biondo.
L'uomo fece un respiro profondo, probabilmente per non dare di matto. “Sono felice che voi altri andiate d'accordo. Davvero, davvero felice.” Calum non seppe se stesse ironizzando o meno e preferì non saperlo. “Ma saltare la terapia? Scommetto che è stata una tua idea.” Indicò Calum con un gesto quasi sprezzante e lui non poté far a meno di abbassare il capo.
“In realtà, è stata anche una mia idea,” squittì Luke. Calum si girò a guardarlo, la bocca schiusa. No, non voleva che Luke si caricasse di un altro peso. Scosse perciò la testa, “Non è vero, lui non ha colpe.”
“Invece sì. Siamo stati in camera mia.” Sia Luke che Calum notarono il modo in cui le sopracciglia del dottore si alzarono e come avrebbe voluto domandare qualcosa come avete fatto qualcosa da soli in camera? Il biondo arrossì così tanto da sembrare che si stesse fondendo con il carminio della pelle del divano. Calum invece tossicchiò, battendosi dei colpi decisi sul petto. Era indignato da quella supposizione. Pensava che fosse così superficiale e che credesse che l'importate è fare sesso?
“Abbiamo parlato,” chiarì il moro. Tuttavia riusciva ancora a vedere quella punta di incredulità sul viso dell'uomo.
“Avreste potuto parlare alla terapia.” Fu soprattutto rivolta a Luke questa frase, perché lui era solito rispondere con cenni o a non rispondere proprio.
Luke soppesò per un momento le parole, prima di parlare. “In tre anni non mi avete chiesto neanche una volta quale fosse il mio film preferito.” Scrollò le spalle e Calum poté giurare di percepire in ogni singola sillaba tutta la tristezza del ragazzo e sentirla addossarsi sulle proprie spalle. Ma il mondo era troppo pesante per le spalle fragili di Luke, quindi lascia che ti aiuti a sostenere il peso, ti prego. “Nessuno si è mai interessato a me veramente. Il vostro obbiettivo era comprendermi attraverso metodi che non hanno mai funzionato.” Né il ragazzo, né l'uomo osarono interrompere Luke. In un modo o nell'altro Calum sapeva che era arrivato il momento, quello in cui Luke si sarebbe finalmente sfogato per tutte le volte in cui era rimasto in un tacito silenzio. Tutti sapevano che Luke fosse silenzioso, che odiasse parlare, ma qualcuno si era mai chiesto il motivo? Qualcuno aveva mai provato a capire chi fosse veramente Luke? La prima persona a farlo era stata Calum e solo ora, mentre il ragazzo con le tendenze suicida vomitava il fiume di parole che si era tenuto dentro per troppo, troppo tempo, John Coleman iniziava a capire perché avesse deciso di aprirsi con uno come lui. In quel lasso di tempo, Calum Hood era arrivato lì da cocaina-dipendente, con la sua faccia da schiaffi e i suoi stivali logori, e aveva scombussolato la vita di Luke Hemmings. Soltanto, in positivo. Per questo, nel preciso momento in cui veniva accusato di non prestare veramente attenzione ai suoi pazienti, John sorrise.
“E adesso perché sta sorridendo?” strillò il biondo, le guance ancora chiazzate di rosso e la vena sulla gola che pulsava per lo sforzo. Era bello anche così, si rese conto Calum.
“Perché hai capito finalmente lo scopo della terapia.”

 

Era di nuovo sera.
Calum stava ripercorrendo gli attimi di quella giornata che, vividi, si susseguivano nella sua testa e sulle pareti, nella penombra della sua stanza. Inconsapevole dei suoi gesti, si tirò su da letto e si infilò gli stivali. Lasciò il freddo cupo della sua stanza e, non prima di aver dato un'occhiata al corridoio, uscì, socchiudendo la porta alle sue spalle. Accanto ad una porta c'era, seduto su una sedia, un infermiere che non aveva mai visto prima. Stava sonnecchiando, quindi Calum poté avanzare indisturbato e a passi lenti. Si aggiustò i capelli, prima di poggiare la mano sulla maniglia e spingerla. C'è scritto che sarebbe utile dormire con qualcuno. Non sapeva se stesse facendo la cosa giusta, ma quando la porta si aprì, un'ondata di sollievo lo investì e lui si sentì carico. Il ragazzo era steso sul letto in posizione fetale rivolto verso di lui; il petto gli si abbassava e alzava ad un ritmo esageratamente veloce e le palpebre gli si muovevano spasmodicamente. Aveva la bocca socchiusa e da quella usciva un rivolo sottile di saliva. Calum era certo che stesse facendo un incubo. Gli si avvicinò e si sedette a terra.
“Va tutto bene,” mormorò premuroso. Senza neppure accorgersene, la sua mano stava stringendo quella del biondo e il suo pollice gli accarezzava il dorso. Non ci volle molto prima che Luke si svegliasse, le guance striate da lacrime salate. Si accorse immediatamente che c'era qualcuno insieme a lui, qualcuno che lo guardava con gli occhi tristi. Luke non si spaventò, né provò a divincolarsi dalla sua stretta. Invece, abbozzò un sorriso e “Sono felice che tu sia qui,” gli sussurrò, cadendo nuovamente sul cuscino. Era tutto diverso dalla mattina; la stanza era illuminata soltanto da una fioca luce gialla che teneva sul comodino e l'atmosfera era decisamente più intima. Luke si asciugò il sudore e le lacrime con il lenzuolo e gli fece spazio. Calum non esitò neppure un attimo e si stese accanto a lui, la pancia rivolta verso l'altro. Fece vagare lo sguardo sulle mura dipinte, mentre continuava ad accarezzare un lembo di pelle del ragazzo, proprio come si era immaginato. Lesse frasi su frasi (“Terapia, non sei mai stata un'amica per me, puoi riprendere tutta la tua miseria”, “Cammino per questa strada solitaria, l'unica che ho mai conosciuto”) fino ad arrivare a leggere, in un angolo seminascosto, tanto che si chiese come avesse potuto vederlo, il suo nome. Era scritto col pennarello rosso, insieme alla data del suo arrivo. Nient'altro. Solo un Calum 13/11/14 in bella calligrafia. Una piccolezza che però contribuì ad aumentare il livello di felicità. E quando udì il respiro cadenzato di Luke, fu sicuro come mai lo era stato che quello era il suo posto.
Come gli scacchi e il pianoforte, divenne una sorta di abitudine il dormire insieme. Ogni sera, Calum usciva dalla sua stanza e imbrogliava gli infermieri, col solo intento di raggiungere Luke. Era bello sentirlo sproloquiare su qualunque cosa o cantare per lui. Perché Luke aveva ammesso di amare la sua voce e questo era un buon pretesto per non smettere mai di cantare. Anche se gli ci vollero parecchie sere ed altrettante canzoni per scoprirlo, Calum si rese conto di essersi innamorato di Luke con una facilità disarmante, nello stesso modo in cui respirava. Avrebbe potuto fare una lista di ciò che amava di lui, ma sarebbe stata infinita, perché ogni giorno scopriva qualcosa su di lui che portava ad amarlo ancora di più, incondizionatamente. Non lo spaventava tanto il fatto di ricevere un rifiuto, quanto la possibilità che lui sarebbe uscito di lì prima di Luke e che quindi non avrebbero più avuto la possibilità di vedersi. Era consapevole che prima o poi la sua permanenza lì sarebbe finita e ne era consapevole anche Luke. Glielo disse una notte, quando erano sul punto di addormentarsi.
“Calum,” lo chiamò a voce bassa e impastata dal sonno. Le loro mani erano unite, da qualche parte sotto lo coperte, e le loro gambe aggrovigliate insieme.
Il moro aprì subito gli occhi, “Dimmi, Luke.”
“Ti hanno già detto quando andrai via?”
“No, ma sarà presto.”
Luke non aggiunse altro. Si sporse soltanto per lasciargli un bacio a fior di labbra, veloce quanto un battito di ciglia. Bastò però a mandare in cortocircuito Calum, che sentiva il cuore che gli martellava in petto, i battiti più forti di ogni suoi pensiero. Ne aveva ricevuti di baci in passato, ma quello li oscurò uno ad uno. E il sapore dolce, mischiato all'odore di Luke, servì a dimenticare per una notte che presto tutto quello sarebbe stato solo un ricordo.

 

Era il secondo giorno di gennaio quando gli comunicarono che la settimana dopo sarebbe stato libero di tornare a casa. Ashton ci aveva scherzato su, per nascondere un po' della tristezza che aleggiava sul loro tavolo nella mensa. Luke invece lasciò andare il biscotto che stava mangiando e corse lontano di lì. Calum fece per rincorrerlo, ma Michael lo bloccò, dicendogli che era di sicuro andato dal dottor Coleman. Calum allora scosse le spalle e si limitò a consumare il suo pranzo in silenzio.
Giunta la sera, il moro era deciso a chiarire con lui. Voleva che gli ultimi momenti fossero speciali, momenti che gli sarebbero poi rimasti nella memoria fino a quando anche Luke non sarebbe uscito di lì. Glielo avrebbe detto che presto sarebbero potuti ritornare insieme e, una volta che Luke avrebbe compiuto diciotto anni, sarebbero partiti per Londra, perché il ragazzp gli aveva confidato che era la sua città preferita. Riusciva ad immaginare loro due sul London eye, dove gli avrebbe detto per la prima volta di amarlo e di voler passare il resto della vita con lui. Calum chiuse gli occhi e respirò a fondo, un sorriso appena accennato sulle labbra, per poi uscire dalla sua stanza. Percepì che c'era qualcosa di diverso ancor prima di arrivare di fronte alla porta di Luke; non era niente di visibile, solo una sensazione che gli stringeva il petto e gli faceva provare dolore. Cacciò via quella sensazione e spalancò la porta. E allora capì da cosa derivasse quella sensazione. Tutto ciò che pensò fu sangue. Rosso su bianco. Era su una pozza di sangue che infatti giaceva immobile il piccolo corpo di Luke. A Calum mancò la terra sotto i piedi. Sembrava come se stesse sprofondare e la terra sopra di lui lo stesse inghiottendo, lasciandolo nel buio più totale. Provò a respirare, ma fu come se i polmoni gli si stessero colmando di terreno e gli fosse impedito di farlo. Col respiro mozzato, Calum si gettò a terra e strisciò fino a Luke. Gli occhi azzurri che Calum tanto amava erano fissi su di lui, ma, anche se lo stava guardando, era come se fosse lontano da lui mille miglia. Il liquido rosso scuro usciva ancora a fiotti dai suoi piccoli polsi, incisi in verticale da una lama. Calum tremava quanto una foglia, mentre cercava di posare le mani sulla ferita per arginarla e fermare il flusso. Provò ad urlare, chiamare aiuto, ma la voce gli si bloccò in gola quando Luke emise un rantolio contrariato. Perché non vuoi essere salvato? Lascia che ti salvi. L'unica cosa che Calum fu in grado fare fu appoggiarlo con attenzione sul letto; le lenzuola che li avevano ospitati e che avevano visto il loro amore sbocciare e fiorire come una rosa durante la stagione, ora erano macchiate dello stesso colore che si associava a quello stesso sentimento. Anche le mani di Calum, che tante e tante volte avevano accarezzato il corpo di Luke, ora erano scarlatte.
“Ti va di cantare qualcosa per me?” La voce del suo amato gli arrivò ovattata e come un fioco rantolio. Calum gli accarezzò una guancia, lasciando una macchia rossa, e un attimo dopo aveva già iniziato a cantare. Canta per farmi addormentare, canta per farmi addormentare e poi lasciami solo. Non cercare di svegliarmi al mattino, perché me ne sarò andato.
La vide perfettamente, quasi fosse un qualcosa di fisico, la luce nei suoi occhi spegnersi, come un fuocherello che nessuno era in grado più di attizzare. E solo allora, quando i suoi occhi divennero vitrei e il battito del suo cuore inesistente, Calum si lasciò andare in un pianto fatto solo di singhiozzi. Canta per farmi addormentare, canta per farmi addormentare. Non voglio mai più svegliarmi da solo.



Note d'autrice
Allora, questa è in assoluto la mia prima storia angst. Sono consapevole che sia affrettata, che in alcuni punti faccia schifo e che abbia usato una canzone così bella per uno schifo del genere. Ci terrei davvero molto a ricevere i vostri pareri, che siano critiche o soltanto insulti. Mi scuso, perché non sono informatissima su questo genere di argomenti, quali l'autolesionismo, la depressione, l'uso di cocaina e altri disturbi sopracitati (ho fatto qualche lettura, ma è superficiale). Qua e là ho aggiunto alcune frasi tratte da telefilm, libri o canzoni, che ho evidenziato in corsivo. Ah, prima che mi dimentichi, ci ho fatto una playlist che potete trovare qui.
Also, vorrei ringraziare ogni singola persona che mi ha aiutato in quest'impresa e ogni persona che pensa che io scriva bene (cosa falsissima), perché mi avete sempre alzato l'autostima.
Spero che almeno non vi abbia fatto vomitare. Aspetto pareri.
Un bacio :)
   
 
Leggi le 17 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer / Vai alla pagina dell'autore: mardeybum