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Autore: ValentinaRenji    21/07/2014    2 recensioni
One-shot Szayel x Nnoitra senza pretese: sentimenti, istinti e paure nell'oscura Las Noches, quando Neliel era ancora la tercea espada e i due arrancar si sono uniti in una terribile congiura contro di lei.
Dal testo:
"Nnoitra Jilga in realtà non pensa davvero ciò che le sue labbra arrossate hanno appena scandito. In realtà anche lui ha provato il medesimo dolore nel petto, la stessa ferita nel cuore. Anch’egli ha desiderato stringere quel corpo massacrato dai morsi e farlo suo completamente, appropriarsi per pochi secondi d’ogni battito di quell’organo tanto forte.
Non sa se Szayel si è accorto del cambiamento nel suo sguardo, ma sa con certezza d’aver notato un lampo diverso in quello dell’arrancar. Qualcosa di indescrivibilmente umano, simile alla paura, al più puro terrore."
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Neliel Tu Oderschvank, Nnoitra Jilga, Szayel Aporro Grantz
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Madness & Despair
 
 
Breve introduzione:
Ho deciso di scrivere questa storia in onore di due personaggi che adoro con tutto il cuore: Szayel Aporro Grantz e Nnoitra Jilga.
Il racconto ruota attorno alla congiura dei due arrancar verso Neliel, all’epoca terza espada, pertanto Nnoitra è il numero otto e Szayel non è ancora nei dieci.
Spero ne possiate cogliere il valore introspettivo e l'evoluzione della personalità d'entrambi, intuibile soprattutto al termine del racconto.
Buona lettura :)

                                                                                 
 
 

La pioggia scende copiosamente dal cielo nero della notte eterna, affollato da dense nubi plumbee e pesanti, impregnate di lacrime cristalline e tondeggianti che precipitano al suolo in un triste canto di solitudine. L’acquazzone sferza le sabbie desolate dell’infinito deserto, modellandone le dune ora umide, scivolando sui sottili e fragili rami minerari degli alberi del mondo vuoto.
Lo scroscio perpetuo e cantilenante ticchetta sui tetti del grande palazzo, inondandolo con la sua musica, simile ad un temporale estivo proprio là dove non esistono stagioni, né tempo, dove esiste una mera concezione personale dello scorrere delle ore poiché la Luna pallida e scarna regna sovrana, carezzando con la sua malevola luce la spettrale foschia e le aride terre.
L’uomo avanza silenziosamente nel corridoio buio, scandendo il proprio passaggio con il solo eco dei propri passi sul pavimento lucido e pulito, anch’esso di tonalità scura, delineato da alte colonne bianche come le altre mura della struttura, dalle quali è possibile intravedere finestra non troppo grandi che si affacciano sull’ambiente esterno, lasciando insinuare nella struttura il profumo della sabbia bagnata e l’aroma della pioggia.
Con le mani raccolte dietro la schiena prosegue il cammino, le iridi ambrate puntate verso il basso in un’espressione pensierosa e raccolta, estraniata dalla realtà circostante, chiusa in se stessa in chissà qualche congettura, ragionamento.
Ciocche rosate ricadono sulla fronte dalla pelle chiara, adombrando quegli occhi geniali ma mostruosamente folli, quelle labbra sottili dischiuse in un ghigno terribilmente beffardo, malevolo, sprezzante; uno di quei sorrisi assolutamente finti, quasi disegnati con la matita su un foglio bianco, una di quelle smorfie di superiorità di chi osserva gli altri dall’alto di un piedistallo, compatendoli per la loro inettitudine, ignoranza, incapacità di essere alla sua altezza in qualsiasi circostanza.
 
Patetici, veramente patetici.
 
È sempre stato questo ciò che Szayel Aporro Grantz pensa degli altri: creature nate dall’oblio, probabilmente lodevoli per la forza fisica e la destrezza in battaglia, ma per il resto semplici pedine in un gioco ironicamente prevedibile, formiche da schiacciare con un dito, una per una, nessuna eccezione.
L’assenza di numeri tatuati sul proprio corpo gli ricorda in ogni momento la sua inferiorità a loro, dettata da una minore abilità nel combattimento, soprattutto quello corpo a corpo. Ma cosa può interessargli il grado in una scala gerarchica dove a definire le posizioni è solamente la brutalità?
Gli Espada sono guerrieri, sono bestie sorte dal dolore, dal peccato, animali che lottano costantemente per sopravvivere in una dimensione angusta, soffocata dalla sofferenza. Eppure, se solo volessero, potrebbero diventare qualcosa di più: esseri pensanti , per esempio, proprio come lui. Ecco perché li considera schifosi insetti, ecco perché nonostante davanti a lui vi siano altri innumerevoli arrancar la cosa non lo sfiora minimamente, continuando a farlo sentire ugualmente il migliore di tutti: perché lui riesce a pensare, ragionare, progettare, comprendere, studiare.
Perché la sua mente non è proiettata al mero uccidere, all’inebriante sensazione data dal pungente odore del sangue caldo del nemico riverso al suolo privo di vita. Al sapore della morte nelle fauci bramose di carne.
A lui non interessa, le priorità sono tutt’altre: la ricerca, la scienza … la perfezione.
 
Immortalità. È questo ciò che significa essere perfetti. Non la trascendenza della morte, piuttosto catturare la vita e la morte di qualcuno nel circolo della rinascita.
 
Si ferma improvvisamente, attirato da un vicino rumore di passi, percependo un reatsu ormai familiare, impregnato di olezzo omicida, di famelico istinto di sopraffazione. Una forza spirituale pungente come la più latente disperazione.
Si volta in silenzio, attendendo l’avvicinarsi dell’espada numero otto ancora immerso nell’ombra di quell’infinito corridoio sospeso nel tempo.
L’hollow dai lunghi capelli neri lo raggiunge in fretta, digrignando i denti dalla rabbia, le mani tremanti strette sull’arma a mezza luna la cui lama tagliente riflette la fievole luce penetrante dalle finestre aperte.
Il fiato rancoroso gli preme nel petto, trafiggendolo come aghi appuntiti, la pelle arrossata ed escoriata da un recente combattimento sanguina in alcuni punti, macchiando la divisa bianca ed attillata.
Lo scienziato lo fissa immobile, attendendo con leggera stizza l’intervento di Nnoitra Jilga, inferocito come una fiera nell’arena.
L’uomo lo scruta con l’iride ametista, rantolando frasi incomprensibili, digrignando i denti con aggressività ma sembra non avere alcuna intenzione di aprire bocca per dare voce al proprio odio.
Lo studioso sistema meglio sul naso dritto gli occhiali dalla montatura bianca, inarcando le labbra in un sorrisetto beffardo:
“Vogliamo stare a fissarci tutto il giorno, Nnoitra Jilga?”
L’arrancar sobbalza, incalzato da quella domanda retorica supportata da un fastidioso e mellifluo tono di voce, talmente disgustoso e viscido da pizzicargli la pelle in una lunga scia di brividi.
Sbuffa, sputando sul pavimento un rivolo di sangue denso e carminio, tossendo malamente mentre una mano stringe il ventre evidentemente dolorante.
Ansimante si avvicina al sottoposto, accorciando la distanza fra i due corpi fino a poterlo osservare chiaramente dall’alto dell’elevata statura:
“Quella femmina … quella maledetta … femmina …”
Il ragazzo dal manto rosato accoglie lo sguardo truce dell’altro, le sue iridi dorate scintillano vezzosamente trapelando lucida pazzia.
Ha capito di chi sta parlando, anzi, l’ha compreso addirittura prima di veder apparire quell’essere distrutto di fronte a sé, travagliato più dal proprio rancore che dallo scontro con la bellissima Neliel. Esatto, poiché è proprio questa donna la causa delle sue pene, il tormento tiene sveglio il corvino tutte le notti, che gli stringe lo stomaco in un fuoco ardente e corrosivo come veleno.
 
Hai perso di nuovo, eh Jilga? Quanto ti dà fastidio fallire, vero? Sentirti una nullità, avere la tastabile certezza di esserlo davvero. Povero illuso, povero sciocco.
 
“Deve morire … lei deve morire … è inaccettabile che una donna sia … sia…”
“Sia più forte di te?”
Nell’udire quella parole un moto di rabbia lo pervade interamente, scuotendolo come il vento che ora soffia fuori dalle alte mura intriso di algida pioggia. Afferra la bianca divisa del più piccolo all’altezza del collo, stringendo con astio mentre il ghigno di questi si fa sempre più sadicamente divertito.
“Cosa vuoi da me?”
“Curami, fottuto bastardo. Ho perso solo … perché non si erano ancora rimarginate le ferite dell’ultima volta.”
“Capisco. D’accordo, seguimi allora.”
Si divincola dalla morsa d’acciaio, dando le spalle al persecutore per avviarsi a passo di sonido verso il grande laboratorio.

 
* * *

 
“Mi fai male, cazzo!”
“Sta zitto.”
Lancia uno sguardo serio al paziente disteso sul lettino dell’enorme laboratorio, indispettito dalle sue continue polemiche decisamente fastidiose all’udito, dagli strilli e gli insulti rivolti ad una banale iniezione. Certo, magari causa un po’ di bruciore ma nulla di insopportabile.
L’arrancar si divincola sulla barella candida, stringendo il braccio appena trafitto dall’ago spesso, mordendosi le labbra per non gridare il forte dolore, mentre le ferite lentamente si rimarginano da sole, assorbendosi nella pelle e sparendo alla vista.
Un moto di stupore lo assale, dimenticando per qualche istante il lancinante fuoco conficcato nella carne.
“E’ incredibile …”
Sfiora con l’indice magro il petto liscio e latteo, sgranando l’occhio dalla sorpresa. Una ciocca di capelli scuri come la notte gli ricade sul volto, adagiandosi nella conca dentata che costituisce il foro da hollow sul lato sinistro del capo.
Un ghigno soddisfatto solca il volto dello scienziato, in piedi accanto al ferito, talmente vicino da poter annusare chiaramente la sua essenza di sangue e distruzione.
Le luci a neon invadono la grande sala con il loro alone di finto bianco, mostrando i raccapriccianti macchinari di lucido metallo, splendente e terso; l’aroma di disinfettante punge le narici del moro che con disgusto allontana quell’olezzo molesto con un moto della mano.
“Oh, ti chiedo scusa. Anche la mia divisa ne è pregna.”
“Allora levatela, mi dà la nausea.”
“Non posso.”
Picchietta le dita su un’altra siringa colma fino a metà di un liquido giallastro, indirizzandola successivamente verso le clavicole di Jilga, che sobbalza dall’inquietudine:
“Ehi basta! Sto già meglio non mi serve altro!”
“Vuoi vincere o no?”
Deglutisce, ingoiando l’ira fremente nel petto: che domande, certo che vuole vincere! Ma non intende sottoporsi a quelle torture di nuovo, soprattutto se sembrano essere frutto di un perverso gioco fine a se stesso, senza più finalità curative.
Si mette a sedere rantolando, lasciando cedere penzoloni le lunghe gambe nude, il bacino appena coperto da un lenzuolo color panna, leggero. Un’ondata di freddo lo punge sulle costole, sui fianchi, sulla schiena, ricoprendolo di brividi dolorosi e di fitte al ventre. Non riesce a trattenere la tosse ed un cospicuo rivolo di sangue gli cola da un’estremità della bocca, rovinando sul tessuto candido e sulla barella stessa, con sommo dispiacere del curante.
“Ti ha proprio conciato male, ah?”
Gli tampona il liquido scarlatto con uno straccio pulito, attento a non sporcare i guanti aderenti alle mani esperte.
“Levati, posso farlo anche da solo!”
Lo scosta con uno spintone, più per disperazione che per rabbia effettiva, afferrando il fazzoletto di stoffa e portandoselo alla bocca, macchiandolo ben presto interamente di chiazze carminio.
“Evidentemente ho ancora del lavoro da fare su di te. Chissà che organo ti ha danneggiato … hmm, fammi pensare. Lo stomaco forse? I polmoni? Devi averla fatta incazzare parecchio stavolta.”
“Stai zitto!”
Con un ultimo gesto che pare sfociare nel panico afferra Santa Teresa, puntandola al collo del suo persecutore.
La voce gli trema nella gola, graffiante e roca, livida di rancore:
“Che cosa si prova a primeggiare sugli altri, Szayel Aporro? Tu lo sai? Me lo sai descrivere il gusto di veder morire una persona sotto la propria lama?”
“Ma certo che posso. Il suo gusto è insapore, inodore, non mi dà piacere. La vittima muore, la sua anima si dissolve in cenere o in alternativa viene divorata dal sottoscritto, tutto qui. Non c’è nulla di inebriante in questo.”
Il moro ride, asciugando un altro rivolo porpora dalle labbra.
“Cosa ti dà piacere, allora?”
“Oho , che domanda stravagante.”
Un lampo malizioso gli attraversa lo sguardo dorato, la lingua carezza i piccoli denti puliti soffermandosi sui canini minuti ma appuntiti. Con fare indifferente porta dietro le orecchie un ciuffo pastello, portando le iridi folli sul malcapitato:
“Cosa mi fornisce piacere dici? Vedere le mie vittime incespicare sul palmo della mia mano, giocare con loro come farebbe un gatto con il topo, morderle, lasciarle agonizzare a lungo prima di costringerle a spirare l’ultimo respiro sotto ai miei occhi. Questo sì, mi dà molto divertimento.”
“Tsk, mi disgusti.”
“Perché mai, mio caro?”
“Perché denigri il vero significato del combattere. Il tuo è un passatempo insano per schifosi pervertiti. Chissà cosa sperimenti su quei cadaveri prima di ucciderli, mi domando cosa partorisca la tua mente in quelle circostanze.”
“E qual è allora il significato reale?”
Rigira i capelli rosa fra le dita, pregustando dell’interesse verso quell’essere improvvisamente allettante.
“Il combattere è un mostro nato dall’intolleranza e dall’ingiustizia. Non sarà mai corretto, ma proprio per questo è necessario mettere completamente a repentaglio la propria vita e sacrificarla se necessario. Almeno hai un motivo per esistere fino a quel momento.”
“Che motivo idiota. Il mio obiettivo è raggiungere la perfezione. È solo ad un passo da me, oramai …”
Con destrezza ficca l’ago nella carne della coscia, facendo gridare Jilga con tutto il fiato rimasto nei polmoni.
Il dolore viene sopraffatto da un nuovo benessere, quello della completa sanità fisica e mentale.
Ghigna malignamente, balzando già dal lettino ed afferrando il nuovo nemico, buttandolo a terra con un sonoro tonfo. Gli stringe il collo magro con rabbia, imprimendo nella pelle delicata degli ematomi rossastri, sintomo di quell’atto violento ed inaspettato.
“Cosa vuoi fare Nnoitra? Uccidermi dopo che ti ho curato?”
Non sembra spaventato, non lo sembra affatto. No, non solo non sembra, non lo è. Ghigna beffardo e ben presto quel sorriso strampalato si trasforma in una vera risata a squarciagola, che sconvolge l’avventore fino a farlo allentare la presa.
“Uccidi se ti pare, ma non cambierai il fatto che sei e rimani un fallito.”
L’altro gli punta l’arma alla gola, posando la lama gelida sul corpo del sottoposto.
“Ucciderò quella femmina. E poi ucciderò anche te.”
“Io ti posso aiutare ad eliminarla.”
Sussulta, il cuore batte all’impazzata, l’ adrenalina entra in circolo vorticosamente.
“… cosa?”
“E’ una mia nuova invenzione, potremmo esserci utili a vicenda: devo ancora testarla perciò … tu mi concederai di usarti come esperimento per verificarne la corretta funzionalità. Ed in compenso, se tutto andrà secondo i piani, tu riuscirai a sconfiggere Neliel.”
Nessun giro di complicazioni, un basilare concetto: collaborazione reciproca, un complotto fatto di compromessi, una congiura alle spalle della dolce Nel.  Avrebbe accettato?
Avvicina il volto magro ed affilato verso quello di Aporro, le labbra tanto vicine da sussurrare le parole sulle labbra l’uno dell’altro; lo scienziato non appare affatto imbarazzato da quel contatto decisamente intimo, anzi, il suo ghigno malevolo si delinea maggiormente fino a mostrare i piccoli canini.
“Szayel Aporro ….”
L’uomo alza lo sguardo ambrato, incontrando quello intrepido dell’Espada.
“Che vuoi?”
Inspira profondamente, passandosi la lingua appuntita sulle labbra:
“Odori di morte…”
Non risponde, rimane a fissarlo in silenzio finchè dopo una manciata di minuti riprende il discorso:
“Che percentuale di riuscita abbiamo, Grantz?”
“Un largo 85% direi.”
Una scossa di emozione attraversa l’octava espada, il sapore della vittoria già dilaga nelle sua fauci; un’inevitabile risata acutissima e perfida gli risale la gola, lasciandolo lì, cavalcioni sull’altro arrancar ancora steso a terra, a schiamazzare anch’egli come un folle.
 
* * *
 
“Probabilmente continuerai a pensare che sono un animale, ma non me ne frega un cazzo Neliel. Combattere è solo una questione di vincere o perdere. Cercare una ragione per combattere o una merda simile è da ignoranti: non è mai esistita una ragione per continuare a combattere! Tu l’hai cercata … e hai perso. Mi fai vomitare.”
Nnoitra osserva il cranio insanguinato della donna, i capelli verdastri intrisi di liquido vermiglio e denso, il teschio spezzato da una profonda e dilaniante spaccatura. Lei sembra non respirare, avvolta da quel grande sacco in cui è stata rinchiusa insieme alle sue due fedeli Fraccion.
L’iride violacea dell’assassino la scruta attentamente, priva di alcuna emozione, fredda come il ghiaccio. Una smorfia sgomenta appare sul suo volto, l’espressione di chi non è pentito per ciò che ha fatto bensì si continua a domandare come sia potuto esistere un essere tanto nauseante.
Ma ora, per fortuna, l’ha eliminato.
Dei passi alle sue spalle, di nuovo quell’odore di morte che pochi mesi prima ha annusato ravvicinatamente, fino a inebriarsene.
“Che cosa vuoi?”
Il cielo di Las Noches è nero, più scuro del petrolio. Questa volta non è la pioggia a regnare, piuttosto una placida notte, scandita solo dal perpetuo passaggio di rade nubi grigiastra, spostate dal vento freddo di un deserto vuoto ed infinitamente vasto, algido come il ghiaccio, spinoso come i rovi di un roseto.
“Il tuo lavoro è finito, Szayel Aporro.”
La sua voce è fredda, velatamente infastidita da quel pagliaccio impiccione, venuto a controllare di persona gli effetti del proprio esperimento.
Lo odia. Ma mai quanto lei.
Lo scienziato mormora qualcosa riguardo le loro ambizioni comuni, sistemandosi gli occhiali dalla montatura bianca, apparentemente divertito dalla cruenta situazione.
“Almeno lasciami osservare il soggetto fino al termine dell’esperimento.”
Stizzito il corvino si volta appena, quanto basta per osservare l’ospite indesiderato con la coda dell’occhio, sputandogli addosso le parole:
“Non ricordo di condividere alcuna delle tue ambizioni, perdente … E’ stata una coincidenza che i nostri interessi si siano sovrapposti per un minuto. ”
La voce melliflua e sinuosa di Szayel lo incalza nuovamente, ignorando le proteste precedenti.
“Abbiamo lavorato insieme così che tu potessi combattere contro Neliel ed io potessi invece condurre ricerche sul nuovo congegno.”
“Tsk, la tua stupida filosofia mi fa vomitare.”
Stringe le dita attorno all’involucro che contiene i nemici, lasciandosi invadere dal corrosivo fuoco della vendetta.
Quell’arrancar lo sta stancando, lui e la sua bocca sempre pronta a sparare idiozie.
Il vento gli carezza i capelli d’ebano che ondeggiano trasportati dai suoi soffi tremuli di gelo.
Protende il sacco di iuta marrone nel vuoto, mollando la presa per lasciarlo precipitare dall’immensa altezza del palazzo. Colpisce il suolo dopo pochi secondi, provocando l’alzarsi di un cumulo di sabbia, delineando tre figure malignamente sfigurate a morte riverse inermi fra le dune.
 
Neliel … ciò che ci separa è l’esperienza … non la forza.
Ti supererò prima che tu ti possa recuperare da quella ferita e ritornare a Las Noches. Diventerò così forte che la tua spada non sarà più capace di raggiungermi.
 
Distoglie lo sguardo dalle creature in fin di vita dopo attimi simili ad un’eternità, per rivolgersi all’arrancar dal manto rosato.
“Andiamo.”
“Per favore, non comportarti come se potessi darmi degli ordini.”
“Perché no? Non sei ancora un espada!”
“O kami, non posso crederci che a dire questo sia qualcuno che ha avuto bisogno del mio congegno per aprire una breccia contro Neliel.”
Nnoitra gira il viso verso l’interlocutore, proiettando su di lui uno sguardo turbato, innervosito.
Con sommo piacere Grantz continua il proprio discorso:
“E’ vero, no? Abbiamo interessi comuni.”
L’omicida si avvia per ritornare all’interno del palazzo ma un forte alone di luce sorprende entrambi, inducendoli a sporgersi oltre l’altura ed osservare quanto sta accadendo sotto ai loro occhi attoniti:
“Il suo reatsu è …. È tornata una bambina??”
“Così … affascinante. Non ho mai visto prima questo fenomeno. Il suo reatsu è fluito fuori dalla maschera rotta restringendo conseguentemente la sua forma spirituale o forse …”
“AH! Chi se ne frega di cos’è accaduto!”
Ride acutamente, la bocca tanto spalancata da mostrare il numero otto tatuato sulla lingua:
“Sei patetica Neliel! Guardati ora! Quel corpo ti si addice alla perfezione! Sembra che le nostre spade non si rincontreranno di nuovo, l’unico lato negativo in questo.”
Finalmente si volge, pronto ad andarsene definitivamente dopo il crimine commesso, seguito a ruota da un pensieroso Szayel, probabilmente immerso in qualche strana rete di ragionamenti.
 
“Perché continui a seguirmi Szayel Aporro?”
“Evidentemente stiamo andando nella stessa direzione.”
Sorride ironico, sbattendo le ciglia con atteggiamento innocente.
Mai come stavolta i corridoi di Las Noches sembrano tanto lunghi ed impervi. Mai come quando compi un danno atroce la coscienza ti pesa nell’anima soffocandola passo dopo passo: ma questi due arrancar probabilmente hanno trafitto la propria da oramai troppi secoli, l’hanno eliminata senza rifletterci nemmeno riducendosi al punto di non ricordare nemmeno in cosa consista.
Preoccuparsi degli altri? Empatia? Altruismo? Gentilezza?
Che parole sono mai, queste? Cosa significano?  Non sono altro che un’illusione umana, una speranza vana per strascinarsi giorno dopo giorno in un mondo fondamentalmente tetro e cupo, dove la belva interiore cerca di sopraffarti e tu ti aggrappi a qualsiasi ideale per non soccombere.
Gli hollow hanno liberato quella fiera, sono stati invasi dalla sua ferocia ed ora vivono in simbiosi con essa, assecondandola fino al midollo.
Ecco perché Grantz è una creatura pericolosa. Ecco perché non basta il suo volto angelico per nascondere lo stigma di morte che ha impresso addosso. Chiunque lo guardi profondamente negli occhi giallastri può riuscire a carpire la sua essenza, quella di anima impura in ogni suo brandello, uno spirito lussurioso e famelico come un lupo travestito d’agnello.
Lo stesso Nnoitra si è accorto, nelle notti trascorse con lui a perfezionare il tranello, della sua infida crudeltà: è riuscito a scrutare oltre quei modi apparentemente gentili fino a scovare il vero Szayel, quell’animale che si lecca le labbra dal piacere nel veder perire qualcuno per mano sua dopo atroci sofferenze, quella bestia che si diverte sadicamente nel mandare in frantumi gli organi del nemico uno ad uno, causandogli una morte straziante e, soprattutto, lenta.
Lui non combatte per sopravvivere, non combatte per necessità. Lo fa solo per un folle drammatico sfizio.
Uno sfizio che attrae indescrivibilmente Jilga, tanto da indurlo a rallentare il proprio passo ed infine fermarsi, attendendo d’avere accanto l’altro.
Le azioni che seguono non riuscirà a spiegarle chiaramente nemmeno a se stesso.
Forse sono dettate dall’entusiasmo della vittoria, forse da una sommessa e nascosta gratitudine o forse ancora non hanno realmente una motivazione reale ma sono solamente frutto di quel già noto istinto, quello che ti rende un salvatore e, al medesimo tempo, un persecutore spietato.
Incredibilmente quell’alone di follia ed oscurità lo inebria tanto da mozzargli il respiro, l’euforia della battaglia scorre ancora nelle sue vene, il mostro è sveglio nel corpo e nella mente, un mostro avido, assetato, non ancora sazio. Posa l’iride cristallina sul corpo slanciato ed alto dello scienziato, mordendosi bramoso le labbra. L’arrancar scorge nel corvino un cambiamento repentino: la luce spenta della disperazione muta nei suoi occhi, trasformandosi in qualcosa di diverso, di più sottile … qualcosa che lo sfigura, rendendolo irriconoscibile. Il pomo d’Adamo si alza e si abbassa, ingoiando una manciata di saliva per liberarsi dall’inquietudine ma due braccia possenti lo ghermiscono, travolgendolo a passo di sonido fino a ritrovarsi all’entrata di una stanza non sua, illuminata scarnamente dai raggi lunari.
Inarca un sopracciglio rosa, trattenendo una smorfia di stupore:
“Ah…?”
“Sdraiati.”
Indica un letto sfatto, trono assoluto in quella camera praticamente vuota e semibuia, senza grate alle finestre ma ugualmente simile ad una prigione. È priva di qualsiasi arredamento, solo il letto abbastanza grande, le lenzuola scomposte e spiegazzate, un tappeto, le alte mura spoglie, sgretolate in alcuni punti forse a causa di chissà quale moto di rabbia del proprietario di quel luogo trasandato.
La sua essenzialità, la vuotezza, l’assenza di luce: tutto di quella stanza sembra parlare dell’espada, ogni singolo particolare pare urlare al mondo la lacerazione interiore con cui convive ogni giorno della sua misera vita.
“Non credo di capire.”
“Voglio ringraziarti, perciò sdraiati.”
Szayel non sa scegliere quale dei due aspetti lo interessi di più: il ringraziamento oppure le effettive intenzioni? Entrambe le cose gli vanno più che bene, anzi, lo affascinano. Quel “superiore” si è rivelato una splendida cavia da laboratorio, un magnifico soggetto da studiare.  Lo desidera, diamine, se lo desidera!
Aporro è fatto così: se vuole una cosa lui la prende. Ed in questo caso pare non necessario adoperarsi troppo per ottenerla, anzi, l’ha ottenuta senza muovere un dito già servita in un piatto d’argento.
Ma a lui piace giocare, Nnoitra Jilga, l’hai forse scordato?
Il sottoposto rimane in piedi, pigramente adagiato allo stipite liscio, le mani congiunte dietro la schiena.
La sua immobilità scaturisce uno sbuffo sgomento nell’espada, che lo afferra per le spalle lanciandolo sonoramente sul materasso.
“So che mi consideri un idiota Grantz, lo vedo quel tuo sguardo di merda che sembra affermare la tua superiorità in ogni istante. Ma credimi, da quegli occhioni trapela anche altro.”
Steso sulla morbida superficie i capelli si diramano come steli d’erba, coronando il volto fintamente ingenuo, addirittura privo del solito ghigno sprezzante:
“Temo davvero di non capire, caro.”
“Invece capisci eccome!”
Con un gesto secco abbassa la zip della divisa, lasciandolo a petto scoperto, effettivamente magro e longilineo, ben definito. Lo percorre con la punta della lingua tagliente, assaggiandolo in tutta la sua lunghezza senza però strappare alcun sospiro all’altro, che continua a fissare il moro con sguardo serio ed imperturbabile.
Nnoitra ride sguaiatamente, strappandogli di dosso quell’indumento ormai inutile:
“Ho visto come mi fissavi. Sembravi divorarmi, posso non sapere nulla di scienza o delle tue cazzate simili ma credimi, so con certezza che mi vuoi. Sbaglio, Szayel Aporro?”
“Anche se fosse, non sono io ad esserti saltato addosso. Perciò cosa vuoi tu da me, piuttosto?”
Quell’atteggiamento distaccato e fintamente calmo gli manda in cortocircuito l’intero sistema nervoso. Con estrema velocità si libera delle proprie vesti, ormai troppo strette, rimanendo completamente nudo, illuminato dalla luce della luna riflessa sulla pelle lattea, chiara come fiocchi di neve.
 
Il gioco ha inizio, Jilga.
 
Lo scienziato gli si avventa addosso, sprofondando i propri denti nella carne dell’altro, leggermente sudata, percorsa da incontabili brividi. Affonda le zanne sulla spalla finchè un rivolo di sangue cola vermiglio lungo la schiena gelida e magra, strappando un urlo affannoso sferzato dal dolore fisico.
Le mani dell’arrancar affondando anch’essere le unghie in zone prossime alla colonna vertebrale, inducendo la nuova vittima ad inarcare la schiena sofferente in preda alle fitte profonde.
Chi gioca con il fuoco si scotta e, soprattutto, non può più tirarsi indietro.
I morsi continuano famelici in tutto il corpo, sempre più violenti, lasciando al loro passaggio rivoli di porpora e scuri ematomi, affievoliti dalle scie di lappate bollenti nel basso ventre, sulle cosce, sull’inguine.
Con un urlo roco ed animalesco il corvino punta i palmi tremanti sulle spalle dell’altro, liberandosi con volontà disumana dalle fauci dell’altro per obbligarlo a stendersi nuovamente, stavolta immobilizzato dal peso del proprio corpo più forte e massiccio del suo.
Ansima, cercando di biascicare qualche parola sensata:
“Non … non mi sottovalutare …. Grantz… devi ficcarti … in quella testa … che sono io il migliore …”
Aporro sorride, digrignando i denti dal dolore causato dalla “gentilezza” dell’espada nel ricambiare il trattamento a lui precedentemente riservato. Gli hakama bianchi scivolano via come acqua di una sorgente.
 
Tsk , migliore di me? Impossibile … pura … follia.
 
Senza nemmeno accorgersene ascolta la propria voce echeggiare straziata nella stanza, fra quelle mura pallida e rovinate. Non si capacita di come simili suoni gutturali e strozzati gli escano dalla gola, non comprende davvero di essere lui a produrre tanto agognato rumore sfumato da voluttuoso desiderio.
Un dolore lancinante lo fa sussultare, stringe le palpebre accettando l’intrusione dell’altro nel proprio corpo, umiliato dalla sua lingua fra le labbra: vorrebbe staccargliela con rabbia, divincolarsi dalle sue gambe forti come acciaio, separarsi da quel respiro affannoso e da quel ghigno, quel maledettissimo ghigno bastardo sul volto affilato.
 
Bella scusa vero, Nnoitra? Nasconderti dietro le mie volontà … per celare le tue …
 
È proprio in quel momento, nell’esatto istante in cui la lussuria lo avvolge totalmente inducendolo a spingere il bacino verso quello dell’altro, che una nuova consapevolezza si fa strada in lui: calore.
Calore umano. Non passione, non fame da saziare, non brama di carne.
Semplice e puro calore. Emozione , sentimento, fragilità.
Una crepa profonda scricchiola nel suo castello di convinzioni, compromettendone la stabilità, demolendone le fondamenta, facendolo oscillare ed infine crollare in frantumi.
Perché provare qualcosa diverso dalla follia e dalla malvagità lo rende debole. Perché le emozioni positive sono sconosciute in quel mondo tetro, sono represse ancor più del mostro che alberga nello spirito d’ognuno.
Perciò cos’è quella mezza felicità? Quel senso d’appartenenza e benessere dato dalle braccia strette di Nnoitra attorno al suo corpo? Perché non riesce ad usarlo come un oggetto per soddisfare le sue momentanee voglie da riporre poi come uno straccio vecchio?
Mugola sfrontatamente, conficcando le unghie nella carne di Jilga ad ogni spinta, bagnandosi le mani di sangue e sudore.
 
Szayel Aporro è distrutto, sgretolato, ridotto a polvere. La sua maschera di vili menzogne, il temperamento altinelante, il ruoto d’attore costruito nei secoli: tutte macerie, fottute macerie.
Cos’è rimasto di lui ora? Come può vivere portando nel petto quel rivolo di luce per affrontare giorno dopo giorno una schifosa realtà sempre più buia?
Scuote la testa, i capelli rosati ondeggiano, sul volto dipinto lo sconforto più totale: non ha aiutato Nnoitra perché gli andava. Non l’ha davvero fatto per testare il suo nuovo congegno, né per sopprimere la povera Neliel. Anzi, ad essere sincero lui non ha mai provato nulla di negativo verso quella donna.
Ed ora lei giace morente ai piedi del castello, a meno che non sia già stata divorata da qualche mostruosa creatura.
Ma dopo quello che ha fatto, chi può essere più mostro di lui?
Si avvinghia al moro con tutta la sua forza, facendolo sobbalzare dalla sorpresa, pregando in silenzio di venire consumato da quell’amplesso, di essere usato come fa lui con gli altri finchè non rimanga nulla del suo corpo e della sua anima. Prega un dio indefinito e inesistente, supplicandolo di uccidere di nuovo quella coscienza che ora lo divora con atroce lentezza, prega di poter morire anch’egli mentre l’apice del piacere si unisce con disperazione al culmine dello strazio.
“Nnoitra …”
Sussurra appena, entrambi immobili, stretti l’uno all’altro, immersi nell’aria madida delle loro essenze, umida proprio come le lenzuola e i loro corpi.
“Che vuoi?”
Rotea l’iride verso di lui, senza lasciare la presa, permettendogli di appoggiare il capo pesante sulla spalla ancora macchiata di sangue.
“Veramente volevi sdebitarti?”
“…. Ovvio.”
“Allora per favore uccidimi.”
Percepisce il corpo dell’altro irrigidirsi, nonostante ciò rimane adagiato su di lui, gli occhi chiusi, i capelli aderenti al volto bagnato.
“… No.”
“Fallo. Non voglio più stare qui.”
“Sei veramente caduto in basso.”
“Lo so …”
 
Nnoitra Jilga in realtà non pensa davvero ciò che le sue labbra arrossate hanno appena scandito. In realtà anche lui ha provato il medesimo dolore nel petto, la stessa ferita nel cuore. Anch’egli ha desiderato stringere quel corpo massacrato dai morsi e farlo suo completamente, appropriarsi per pochi secondi d’ogni battito di quell’organo tanto forte.
Non sa se Szayel si è accorto del cambiamento nel suo sguardo, ma sa con certezza d’aver notato un lampo diverso in quello dell’arrancar. Qualcosa di indescrivibilmente umano, simile alla paura, al più puro terrore.
Ma non glielo dirà mai, né mai pretenderà di ascoltare tale confessione dallo scienziato.
Per ora va bene così, entrambi stretti l’uno all’altro nell’intenso buio della notte eterna, i corpi aderenti ancora infatuati dal bollore, avvolti dalle coperte e dal calore delle sensazioni, mentre le nubi scorrono nel cielo d’ossidiana come velieri fantasma ed il vento ulula il suo canto di morte.
Va bene così, due spettri nell’oscurità che si rincorrono e s’allontanano, che sacrificano un nemico indefinito per avvicinarsi anche solo per qualche istante. Due anime perse nella follia e nella disperazione, nel baratro dell’oblio più tetro dove, una volta toccato il fondo, non puoi fare altro che rialzarti e risalire insieme.



Ciao lettori!
Grazie a chiunque sia riuscito ad arrivare incolume fin qui! 
Mi scuso anticipatamente per eventali errori, appena sarò meno stanca controllerò tutto (giuro) e correggerò.
Mi auguro di cuore che la lettura sia stata di vostro gradimento, nonostante sia consapevole che il paring Szayel x Nnoitra sia solitamente poco apprezzato XD
Grazie a chiunque recensirà , mi farà piacere:)

PS: Don't worry, in questi giorni aggiorno l'altra storia "Seasons", non l'ho scordata :)

Un bacio :**

Valentina 

 
   
 
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