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Autore: Ghevurah    24/07/2014    6 recensioni
Aveva capito, ormai: l’immortalità era una storia per bambini, e forse nemmeno per loro. Un'illusione suadente adatta ad una melodia intonata a mezza voce.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Maedhros, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia stata scritta senza scopi di lucro. Personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne abbia acquisito o ne eserciti i diritti. Nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.


Nomi Quenya usati nel testo con loro corrispondenze in lingua Sindarin:
Russandol - Maedhros
Findekáno - Fingon









 





Tyelimalírë








Ascolta. Questo è il canto discreto di una tragedia consumatasi in un tempo immobile. Ed è il silenzio, algido e stridente ad intonarlo. Le fiamme sono state spazzate dal vento, lapilli orfani volteggiano assieme alla polvere. Qui radica la desolazione.
Ascolta.
Lo spazio si dilata, uno slabbro ne solca il tessuto ineffabile, svelando l’antro ove l’abisso languisce. L’occhio oscuro di una creatura atavica pronta all’agguato. Annusa l’odore della disperazione, la cerca e la stana. Si nutre di essa.
Ascolta.
Il cielo è indifferente alle sorti di coloro che gli rivolgono sguardi imploranti. La preghiera è cancrena dell’animo. Non c’è nessuno oltre a noi, nella polvere.
Ascolta.
Questo è il mio canto.
Questa è la mia eredità.




È guardando alle incommensurabili volute dello spazio che assapora per la prima volta la propria solitudine. Non li aveva mai notati, quei sottili filari che tendono le maglie dell’universo. Ora, però, è diverso.
Piove e il mare si gonfia e si racconta. E c’è solitudine anche nella sua, di storia. Trapela all’orizzonte, là dove si tende con l’intento di raggiungere il cielo. Un tocco mancato, un spicchio di spazio di troppo. Ancora spazio, disarmante nella sua vastità. Ma questo è il prezzo della solitudine. Percepire quell’infinita espansione che genera il vuoto: una dilatazione in grado di asciugare l’animo.



Non ha più lacrime da versare, sono andate perdute tra i marosi di un esistenza interminabile. Aveva deciso che ne avrebbe speso di eguali per tutti. Aveva deciso che sarebbe stato giusto, almeno in quello. Ma ha commesso un altro errore.
Troppe lacrime per il primo addio. Perché il fuoco, allora, bruciava terribile ed imperioso e piangere sembrava l’unica cosa in suo potere.
Dopo si era detto che vi avrebbe fatto l’abitudine. Aveva capito, ormai: l’immortalità era una storia per bambini, e forse nemmeno per loro. Un'illusione suadente adatta ad una melodia intonata a mezza voce.
Eppure il secondo addio era giunto tanto inaspettato quanto s’era ripromesso che non sarebbe stato. Il cielo pallido aveva accolto a sé le ceneri di un Re, di un padre arso nell’incendio che egli stesso aveva appiccato al mondo. E le lacrime, sul viso, erano bruciate amare e brutali come notti di veglia scandite da maledizioni mormorate a denti stretti. Poi più nulla era sembrato giusto sotto quel cielo così altero, così irraggiungibile. Ma potevano, loro, permettersi di dare un nome alla giustizia?



Questo è il filo per le nostre azioni, aveva detto Russandol quando i fratelli caduti erano stati troppi e le lacrime da versare non sembravano mai abbastanza. A differenza sua Russandol non aveva pianto. Il corpo straziato di Findekáno aveva asciugato tutte le sue lacrime, annichilendo ciò che restava della sua anima.
Lui si era sforzato di guardare quell’ombra d’uomo e chiamarla fratello. C’era riuscito per anni, ancora. E forse questo era il segno più evidente della sua dannazione.



Le ultime lacrime le aveva versate alle Bocche del Sirion, quando per un altro fratello perduto aveva impegnato le esistenze di due innocenti. Pago il filo, aveva detto a Russandol. Perché quei bambini tracciavano un disegno arcano nel firmamento dei loro destini. Come il primo e l’ultimo caduto dei loro fratelli possedevano lo stesso viso, lo stesso sguardo, e v’era più d’un carezzevole conforto in una simile eredità.



Erano state lacrime perdute, le sue. Ma versate senza rimpianto, vibranti quanto il canto che ora lambisce il mare.
È giunto anche il mio momento di pagare, gli aveva detto Russandol, infine. La mano arsa da quella gemma splendente e terribile. Gli occhi a riflettere il ricordo di lontani giorni dorati. Non aveva odiato nessuno, nessuno a dispetto dell'Avversario fautore della loro rovina. Eppure mai s’era stancato di portare il peso della maledizione incandescente a cui erano avvinti. Mai aveva pensato di arrendersi alla pace, lui che aveva amato anche all’ombra di quella guerra perenne.
Per questo lo aveva lasciato andare. Là, nel fuoco, da cui tutto aveva avuto inizio, affinché fossero le ceneri, ancora una volta, a conservare la memoria della loro tragedia.
E forse è davvero giusto così. Una fine senza lacrime, senza grida, silenziosa come quel cielo altero e schivo che il mare non potrà mai raggiungere.


Rimane la solitudine, poi. E lo spazio infinito in cui echeggia il canto di un'anima arida.

Ascolta.












 
Tyelimalírë, il titolo, è composto dalle parole Quenya tyelima che significa "ultimo"/"finale" e lírë "canto".

   
 
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