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Autore: Nemainn    26/07/2014    9 recensioni
Un amore che trascende il tempo, la materia, la forma, riconoscersi e cercarsi, trovarsi, amarsi sullo sfondo dell'India contemporanea.
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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Le luci sfarfallavano leggermente, fastidiose, mentre con una certa noia Mark aspettava il suo turno per l’imbarco, si dirigeva al piccolo aeroporto indiano di Patna, nel Bihar. Aveva deciso di girare l’India sei mesi prima, in preda a quella che i suoi genitori avevano definito ‘stupida crisi mistica tardo-adolescenziale’. Aveva quindi impiegato poco più di due mesi per stilare itinerari, consultare i medici e fare le varie vaccinazioni obbligatorie, prendere i contatti con l’ambasciata del suo paese in India era stato l’ultimo passo, poi era partito. I risparmi di due anni di lavoro disponibili e quelli del suo appartamento che aveva affittato per quel periodo. Aveva ventitré anni e il bisogno di capire, ricominciare, conoscere posti nuovi che gli avrebbero, forse, dato risposte.
Tutto era iniziato per colpa di quei sogni; lo psicologo, alla fine, gli aveva detto che erano solo elaborazioni di cose che aveva visto o letto, ma lui non aveva mai studiato l’epica indiana. Non sapeva nulla dei Veda*, dell’induismo, nulla. Non aveva mai guardato nessun film o letto libri che ne parlassero. La cosa più indiana che conoscesse era il Kamasutra, ma chi non ne aveva mai neppure sentito parlare?
Doveva ammettere che gli avevano regalato il libro illustrato circa un anno prima: lo aveva sfogliato curioso, ridendo su alcune delle immagini più improbabili e saltando tutta la parte storica e nozionistica, insomma, cosa c’era di culturale nel Kamasutra?
Sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia e osservando le donne in sari che, con figli e mariti, attendevano chiacchierando rumorosamente in un angolo, mentre poco distanti uomini in distinti completi occidentali, di però chiara nazionalità indiana, con vistosi orologi d'oro al polso, attendevano con aria annoiata.
Era proprio vero, il mondo era paese.
I colori e la musica, i profumi, la cultura indiana poteva sembrare quanto di più lontano ci fosse dall’Europa, invece l’essere umano era, ovunque, una creatura decisamente simile a se stessa.
Cambiavano le cornici, le lingue, le parole, ma ovunque quello che muoveva le persone era l’odio, l’invidia, il rancore, il denaro e il potere: certo, c’erano sempre delle eccezioni ma ben poche.
Aveva sperato di trovare lì risposta a quei sogni che erano cominciati poco dopo che gli era stato regalato quel libro, motivo per cui la psicologa aveva detto che rielaborava quello che aveva visto in esso.
Sognava scene erotiche, vero, ma poi avevano cominciato ad apparire scene quasi domestiche, con un uomo che lo chiamava Sati, apostrofandolo al femminile e definendolo mia Amata.
Aveva fatto qualche ricerca, scoprendo che Sati era la prima moglie di un dio chiamato Shiva, morta e poi reincarnata in Parvati, seconda moglie di Shiva. Chiuse gli occhi mentre dagli altoparlanti annunciavano un ritardo nel suo volo. Del resto nella stagione dei monsoni era già tanto ci fossero i voli, più o meno, si disse con rassegnazione.
Doveva spostarsi dalla costa, erano all’inizio della stagione e rimanere lì voleva dire affrontare una serie di inconvenienti a cui non era preparato, per questo aveva deciso per una nuova meta che pareva abbastanza promettente: Patna.
Si trovava nello stato di Bihar nell’India nord-orientale e ne era la capitale, in passato era stato un centro culturale e religioso, ma in realtà quello che lo aveva spinto a scegliere quella città era stato l’ultimo sogno che aveva fatto, pochi giorni prima. Si era addormentato pensando a una nuova meta e quella non era nominata in nessuna delle guide che aveva consultato. Nella stanza del piccolo B&B a Visakhapatnam aveva fatto uno dei sogni più vividi e particolareggiati che gli fossero capitati da quando era iniziata quella specie di avventura. Aveva consultato pretenziosi esponenti di religioni New Age, nuovi santoni, parapsicologi, esoteristi e occultisti. A volte lo avevano guardato come un pollo da spennare, cercando di rifilargli storie di karma, pretendendo fior di soldi per liberarlo dal fardello delle colpe del passato. Altri gli avevano detto che era un camminatore dei sogni, altri ancora si erano inventati strane storie su alieni che volevano dominare il mondo, o qualcosa di simile. La risposta un attimo più credibile, però, l’aveva avuta da una ragazza che teneva un seminario sui Veda, gli antichi testi sacri dei popoli arii che invasero l'India settentrionale in un tempo decisamente remoto. Quando, alla fine di quell’illuminate pomeriggio in cui la ragazza aveva spiegato a grandi linee la mitologia indiana durante quella lezione semi deserta, aveva raccolto il coraggio per parlarle, l’aveva ascoltato con aria assolutamente seria e neppure una vaga scintilla di riso era emersa negli occhi di lei.
Gli aveva parlato di campi morfici, di memoria collettiva, indicandogli gli scritti del biologo Rupert Sheldrake che lui aveva poi letto. Non aveva una laurea ma da quello che aveva capito, secondo quello studioso, ogni specie, ogni membro di ogni specie, attingeva alla memoria collettiva della specie, si sintonizzava con i membri passati e a sua volta contribuiva all'ulteriore sviluppo della stessa. Tutto ciò comportava una sorta di ‘risonanza’ fra gli individui e i gruppi della specie, inoltre aveva letto una ipotesi su quello che lo scienziato chiamava ‘campi ricordi’. Cioè che la memoria non fosse effettivamente immagazzinata nel cervello, ma piuttosto in un campo di informazioni al quale si poteva accedere mediante il cervello… cosa che, quella ragazza, aveva accennato parlando di come il settimo chakra potesse essere in realtà un cavo connettivo con quei campi morfici.
In poche parole la docente gli aveva detto che, per qualche motivo che lei non conosceva, si era connesso con un’area di quel campo morfico e che si manifestava nei suoi sogni, trasmettendo con la sua mente a quel genere di conoscenza. Poi lo aveva guardato fisso negli occhi e, per un istante, Mark si era sentito nudo. Dopo quello sguardo aveva sorriso e gli aveva detto di seguire il suo istinto, poteva essere che fossero nozioni, ricordi, mille cose, ma che il primo passo era non averne timore e seguire il suo sesto senso. Così lui aveva fatto, partendo per l’India e il resto era storia.
Non stava davvero dormendo nella saletta dell’aeroporto, era più che altro appisolato, quindi quando il sogno bussò alle porte della sua mente ne fu molto sorpreso e cercò di svegliarsi mentre, con un certo panico opprimente, scopriva di non riuscirci.
Stai ricordando, Amata?” Mark si guardò attorno, si trovava in una zona piena dei templi indiani che aveva imparato ad ammirare con reverenza, ai cui confini la giungla rigogliosa si stagliava come un muro di un verde luminoso e intenso.
Non so chi sei.” Guardò l’uomo davanti a lui, gli occhi che lo fissavano erano neri e pieni di luce, espressivi.
Non lo ricordi, così come non ricordi chi sei tu, ma tu mi conosci.” Mark, nel sogno, scosse furiosamente la testa, stringendo i pugni con tutte le sue forze.
Si svegliò di soprassalto, i palmi dolenti per via delle unghie che si erano incuneate nella carne morbida. Ancora lui, l’uomo del sogno che lo chiamava Amata.
L’avviso d’imbarco lo svegliò del tutto, accantonò il pensiero e si mise lo zaino in spalla dirigendosi al gate e mettendo in un angolo quel tipo di pensieri per il momento.
Il viaggio in aereo fu tranquillo e Mark evitò accuratamente di appisolarsi, cercando di riflettere sul protagonista dei suoi sogni. In altri episodi onirici aveva scoperto che l’uomo si chiamava Shiva, ma non assomigliava poi molto alle statue di quel dio che aveva visto. Era alto, la pelle di una tonalità chiara, dorata, luminosa, il corpo statuario. Ma la cosa che più lo aveva colpito era la massa di capelli neri che scendeva fino alle ginocchia, liscia e ordinata, come una massa di fili di vetro filato.
Ogni volta che lo vedeva nei suoi sogni qualcosa, dentro di lui, vibrava e si tendeva. Ma non aveva mai visto quel tizio, ne era più che certo, eppure...
Probabilmente stava impazzendo o qualcosa del genere, perché in qualche modo si era convinto che
doveva conoscere quello Shiva. Non era solo la questione dei sogni che da un anno si presentavo alla sua mente, era qualcosa di diverso, dentro di lui, che si muoveva come una stretta sulla sua anima ogni volta che pensava a quel viso.
Ogni volta che lo sfiorava o guardava.
Ogni volta che diceva
Amata.
Amata, a lui.
Eppure non gli sembrava strano quando si appellava a lui con quella parola che, sulle sue labbra, suonava così piena di significato da trascendere ogni cosa abbia mai associato alla parola amore. Era un’impetuosa cascata di montagna, uno stormire di fronde, un calore avvolgente e la pura bellezza di un fiocco di neve.
Era tutto, era un intero universo, e lui era quello, nei suoi sogni, per Shiva.
Scese dall’aereo, seguendo la gente che dall’airbus entrava nel terminale, spiccando come non mai. Quella non era una meta turistica e di europei come lui non se ne vedevano.
Un giglio in un campo di bocche di leone… a quel pensiero si mise a ridacchiare tra sé. Lui, un giglio?
Certo, non era male e lo sapeva, ma giglio? Come gli era uscito quel paragone? Il vago ricordo, o meglio l’impressione di un ricordo, gli aleggiò ai confini della mente. Era stato chiamato così da Shiva in un sogno, forse?
Accantonò il pensiero dandosi dello sciocco, trovando un taxi e discutendo con l’autista che non conosceva quasi nulla d'inglese e riuscendo a farsi portare in quel piccolo alberghetto che aveva trovato, modesto, ai confini della città. Dal finestrino vide sfilare case e palazzi che, man mano che si allontanavano dal fulcro più ricco della capitale, diventavano modesti, spogli, quasi fatiscenti fino a che non si trovò circondato da bassi palazzoni segnati e sgretolati.
Deviarono in un’altra strada e l’aspetto cittadino recuperò un poco: Mark aveva per un attimo temuto di aver scelto decisamente male. Ma la zona dove si fermarono, pur essendo modesta, non era più fatiscente.
Scese, pagando le rupie che doveva all’uomo ed entrò nel piccolo albergo, lo zaino in spalla e il borsone in mano, trovandosi in una hall che più di un hotel gli ricordava la cucina della casa dei nonni materni, nella campagna bresciana. Solo che lì gli animali entravano a farsi una passeggiata e le galline erano le padrone incontrastate del davanzale della finestra, ma aveva visto di peggio. Nel primo mese l’impatto con quella cultura era stato sconvolgente: ricordava ancora un risveglio in un piccolo albergo accanto al Gange, con quello splendido profumo di carne alla griglia che gli solleticava le narici, per scoprire che era l’odore di una pira funebre e stare male tutto il giorno al pensiero che, a pochi metri da lui, sulle rive di quel fiume, avessero bruciato dei cadaveri e lui avesse trovato l’odore appetitoso…
Un sorriso tranquillo dominava sul suo volto quando entrò nella stanza, abbastanza pulita, con un lavabo sbeccato sotto la finestra e un letto singolo che non sembrava ospitare nulla di pericoloso o sgraditi ospiti. Si massaggiò la guancia e, sentendosi la barba sotto le dita, decise di radersi; prese il rasoio elettrico iniziando quel piccolo rito che non compiva da alcuni giorni con un certo piacere. I peli di un colore biondo più intenso di quello dei suoi capelli finirono nel lavandino e lui lo sciacquò con quel rivolo odoroso di cloro e con un colore non proprio trasparente che gli donava il rubinetto.
Si trovò a sbadigliare, la sera inoltrata e la stanchezza accumulata che si faceva sentire con una certa forza.
Si tolse i jeans e la maglietta sudata sfruttando ancora il lavabo e poi si distese sul letto, crollando addormentato.
Amata.” Mark nel sogno si trovò nelle vie della città, camminava in una strada di cui vide chiaramente il nome, capendolo nonostante la lingua non gli fosse proprio conosciuta, anzi. L’hindi era per lui totalmente sconosciuto e, nelle zone dove non era usata la doppia lingua cioè hindi e inglese, era perso.
Non sono la tua Amata!” Mark si voltò di scatto, fronteggiando quell’uomo che, con indosso solo un paio di ampi calzoni bianchi stretti in vita da una fascia, lo guardava con un sorriso sul viso avvenente.
Nonostante questa incarnazione sia davvero insolita per te, lo sei sempre e sempre lo sarai, in ogni luogo e in ogni tempo, Amata. Mia Amata.” La mano dell’uomo gli sfiorò il viso e, nel sogno, il brivido che gli scese lungo la schiena divenne piacere, un riconoscimento antico al di là del tempo, dello spazio e della carne. Conosceva quel tocco, lo sapeva. La paura sbocciò nel suo cuore e lui fece un passo indietro, sottraendosi, guardandolo spaventato. Shiva sorrise, indicò il nome della via.
Recati in questo luogo, Amata. Sei sempre più vicina a scoprire quello che desideri, la verità.”
Con un sobbalzo, il cuore che batteva un ritmo folle nel suo petto, Mark si sedette sul letto. Era sudato e tremante, mentre i piedi poggiavano sul pavimento fresco e lui raccoglieva le mani in grembo, incapace di pensare, di respirare, sentendo come fuoco l’impronta del tocco di Shiva sul viso e osservando la reazione del suo corpo, stupito.
Shiva era pur sempre un maschio, un uomo.
Con una fitta di colpa si guardò l’anulare dove, prima di partire, c’era stato un anello. Lui e Silvia non si erano sposati ma dopo anni di fidanzamento, un giorno, semplicemente, avevano spostato gli anelli all’anulare della sinistra, una promessa personale e silenziosa, solennizzata da una notte sotto le stelle. Avevano passato quel tempo donandosi l’uno all’altra dolcemente e lui era convinto, all’epoca, che quello fosse amore ma, da quando erano iniziati i sogni, erano iniziati i dubbi. Così quando era partito, seduto nella poltroncina dell’aereo, aveva guardato la sua mano per lunghi minuti per poi sfilare lentamente quel liscio e piatto cerchio d’oro bianco, decidendo che lo avrebbe rimesso solo quando avrebbe avuto la certezza dei suoi sentimenti.
Silvia, con le lentiggini su quel volto da elfo sempre sorridente, che sapeva accettare ogni suo lato con calma e gli dava pace con la sua presenza.
L’aveva lasciata al gate, con un bacio, mentre lei si sforzava di non piangere e di sorridergli, dicendogli di tornare vincitore e sereno, quando fosse stato il momento, ma di tornare da lei.
Invece con il passare dei giorni la stava letteralmente dimenticando, quello che provava per lei, paragonato a quello che Shiva sentiva per… lui? Per la sua Amata, era solo amicizia o poco più.
Si sentiva in colpa, un bugiardo, ma ormai aveva ammesso con se stesso che non amava Silvia. Era stato molto difficile, sopratutto nei primi mesi, quando si sentivano per telefono, cercare di fingere un amore che non provava e che sapeva di non sentire più, nonostante mentisse spudoratamente al suo cuore. Poi, un giorno, dopo uno di quei sogni, aveva preso coraggio e glielo aveva detto, non l’amava.
C’era stato il silenzio, lungo e più eclatante di mille parole o di fiumi di lacrime.
Silvia alla fine aveva detto solo
‘capisco’, poi aveva chiuso la comunicazione.
In quell’unica parola un oceano di sentimenti infranti, di emozioni spezzate e affilate che la mutilavano fin dentro l’anima.
Ancora, lei, non gli faceva colpe, non gli diceva nulla, non lo accusava.
Capisco.
Solo quello, sussurrato, atono, eppure così pieno di mille sfumature.
Sospirò, andando al lavandino e sciacquandosi il volto.
Si passò la mano tra i capelli che erano cresciuti liberi in quei mesi, sospirando di nuovo e guardando il cielo buio fuori dalla finestra, attraverso la vecchia zanzariera piena di polvere e tenuta assieme dalle preghiere e dal nastro adesivo, uno sposalizio azzardato e fragile.
Si sedette di nuovo sul letto, il pensiero che tornava a Shiva, a quella mano posata sul suo volto e si rese conto che, per la prima volta, nei suoi sogni lui lo aveva toccato.
Deglutì, mentre la sua eccitazione cominciava a premere e si abbandonò all’indietro, lentamente, la schiena che poggiava sul muro freddo dandogli un brivido tra il piacere e il fastidio, mentre la mancina andava a sfiorare il suo sesso in una carezza quasi inconsapevole.
Le labbra di Shiva.
Le sue mani.
Quel tocco fatto di fuoco ardente che gli sembrava ancora di sentire.
Cominciò a muovere lentamente la mano, il pensiero che continuava a intrecciare immagini di quel dio che dimorava nei suoi sogni con insistenza, mille particolari che non pensava di ricordare, mentre le carezze diventavano profonde e sempre più piacevoli, la mano sempre più veloce che immaginava essere quella dell’altro, riempiendo il suo corpo di brividi lunghi e pieni di respiri grevi e bassi fino a quando, giunto alla naturale conclusione di quell’atto, non ne raccolse il frutto nella mano, lo sguardo nuovamente a fuoco, pallido.
Si era masturbato pensando a un uomo.
Un uomo immaginario che viveva solo nella sua mente.
E gli era piaciuto come non mai.
Deglutì, guardandosi le mani e mordendosi il labbro con ansia. Non gli era mai successo di eccitarsi pensando a un maschio, ma era bastato il ricordo di quella carezza appena accennata a farlo partire.
Si lavò le mani, stendendosi ancora una volta nel letto fissando il soffitto e osservando un piccolo ragno che, indisturbato e laborioso, tesseva la sua tela.


 
 

Aveva cercato quella via per giorni, chiedendo a chiunque, ma Khajuraho non esisteva come strada. Era invece una città, situata nel distretto di Chatarpur, famosa per la grandissima quantità di templi che lì erano stati costruiti e, grazie alla tecnologia, guardando le immagini di quei luoghi scoprì che quelli erano i templi che sognava.
Passò ore a sfogliare le fotografie in internet, incredulo e spaventato, combattuto.
Templi dedicati a Shiva, Parvati e altri ancora... si rese conto che lui, però, sognava l’aspetto che dovevano aver avuto nel momento di massimo splendore, le statue e gli ornamenti ancora nuovi. Ottantuno templi di cui solo ventidue sopravvissuti. Perché sognava quel luogo e come faceva a vederlo nel suo vertice di bellezza?
Tra la paura e l’ansia si diresse in quel luogo, ricominciando il suo viaggio, salutando la famiglia che gestiva il minuscolo albergo.
Nell’uscire la figlia più grande, una graziosa sedicenne in un sari arancio e scarlatto, gli disse che la nonna voleva salutarlo. Aveva visto la donna solo una volta, di sfuggita, vestita con un sari che, nei colori, ricordava le tonalità delle piume del pavone. Si era avvicinato a lei, guidato dalla figlia, e rispose al saluto che la donna gli faceva, sorridendo.
“Namasté.” Le disse, sedendosi accanto a lei. Osservò il tilak* della donna, il segno che portavano in fronte le donne indiane, le tre linee orizzontali che la segnavano come una devota di Shiva.
Aveva imparato il significato di quel saluto con un misto di sorpresa e rispetto. ‘
Il divino che è in me saluta il divino che è in te’... per lui aveva assunto un’importanza quasi mistica. Aveva riflettuto per molto su quella parola e a come, per quel popolo, il sacro fosse vivo e presente in ognuno, in ogni vita.
La donna parlò in hindi, sorridendogli. Il viso rugoso e espressivo emanava pace e quiete e lui, pur non capendo le parole, si sentì cullato da esse.
“Mia nonna dice che tu sei segnato da Shiva.” Mark fissò la ragazzina, impacciata e rossa in viso.
“Come, scusa?” Chiese perplesso. “Cosa intende?” L’inglese della nipote della donna era buono e lui capiva che l’imbarazzo di lei era dato dal dovergli riportare i pensieri della nonna, ma il rispetto per gli anziani era così radicato in lei che aveva obbedito senza battere ciglio.
Parlarono tra loro per alcuni minuti, poi la giovane tornò a rivolgersi a lui.
“Dice che vede su di te il sangue di Shiva.” Indicò la sua fronte e lui se la toccò, sconcertato. Guardandosi allo specchio quella mattina non aveva notato nulla sulla sua fronte. “Il tilak, tanto tempo fa, era fatto alla moglie con il sangue del marito. Tu hai il sangue di Shiva sulla fronte e lei vuole onorarti.” L’inglese buono ma non ottimo era comunque chiaro e Mark fissava sempre più incredulo l’anziana. “Mia nonna vede quello che altri non vedono.” disse la giovane, semplicemente, come scusandosi sempre più imbarazzata e a disagio.
Al che la mano rugosa della donna si tese, sfiorandogli il petto all’altezza del cuore e ripetendo ‘namasté’ con un sorriso. A quel punto capì che l’incontro era concluso, quindi si alzò e uscì, pronto per un nuovo volo, senza capire o meglio, senza volerlo fare, troppo spaventato da quello che voleva poter dire quella donna.
I pensieri si affastellavano, pregni, forti, mentre Mark agiva senza davvero registrare le sue azioni, unendosi a una gita organizzata ai templi. Osservò le sculture erotiche all’esterno di essi, lontane dalle rappresentazioni degli dèi, visitò l’interno, privo di immagini a sfondo sessuale. Trovava tutto familiare, conosciuto, come se fosse sempre stato lì. Scoprì di sapere già quello che la guida diceva, la storia di quei templi. Ma quando l’aveva letta, studiata?
Infine entrarono nel tempio dedicato al dio Shiva, mentre sentiva senza registrare davvero le gesta mitologiche del dio, narrate con voce annoiata. Sapeva dov’era.
Sapeva già.
Un senso d’irrealtà entrò prepotentemente in lui mentre guardava una statua di Shiva distruttore di mondi, che danzava portando la morte. Alzò una mano, fermandola a mezz’aria.
Non si rese conto di essere solo e, solamente quando una mano gli si posò sulla spalla, sobbalzò, voltandosi di scatto.
Incontrò quegli occhi più neri di una notte senza luna, caldi e antichi, pieni di qualità a cui Mark non sapeva neppure dare un nome. Li guardò da sveglio, senza il protettivo velo onirico, scoprendo che calde lacrime avevano cominciato a scorrere sul suo volto.
“Sei qua.” Lui rimase immobile, le stille inarrestabili e incomprensibili che continuavano a bagnargli il volto.
“Sono qua, ma
qua dove è?” Le mani di lui si strinsero piano ai lati del volto di Mark. Il dio era più alto di lui di una spanna e lui osservò quel viso perfetto farsi sempre più vicino, fino a quando le labbra non lo sfiorarono.
“Qua è con me, sei al mio fianco, di nuovo. Ho atteso duemila anni per averti di nuovo al mio fianco, Sati. Giorni di vuoto e di immenso dolore e, quando nel mondo è risuonata la presenza della tua anima sopita, ho cominciato a cercarti pieno di speranza e ora sei qua.” Mark si allontanò di un passo, confuso da quel calore intossicante, da quelle labbra. Era spaventato, incerto, tremante… eppure, in un certo senso, quello che accadeva non gli sembrava folle.
“Non so chi sei!” disse, aggrappandosi alla logica in un ultimo tentativo disperato.
“Non lo ricordi, Sati. La memoria non è la conoscenza. Tu la possiedi, devi solo sollevare il velo che questa incarnazione mortale ha messo su di te. Vieni con me, ricorda,
Amata.” Quella parola, quel tono, fugarono i dubbi e Mark prese la mano del dio e tutto smise di esistere.
Non aveva più un corpo, una fisicità, era solo una coscienza intrecciata alla trama dell’intero creato, in simbiosi con l’universo, un’esistenza di pura energia.
Lì, dove il tutto era un’unica cosa, ricordò.
Rivide l’inizio dei tempi, il suo amore per Shiva, le loro vite assieme e provò lo straziante desiderio di toccarlo, unirsi a lui, baciarlo. Voleva chiamarlo Amato. Sentiva in quella parola tutti i significati di quel nome mentre la memoria tornava.
Era stato Sati, la prima moglie.
Quando era morta era tornata per lui come Parvati, sposandolo ancora una volta, tornando a formare quell’intero che solo attraverso loro due, assieme, poteva essere perfetto.
Ora era Mark.
Nomi diversi per la stessa essenza che agognava di riunirsi a Shiva, alla ricerca dell’equilibrio senza pecca, della pace e dell’amore superiore che condividevano.
Sentì di nuovo la forma del corpo e cercò le sue braccia, sconvolto dalla forza del desiderio, bisognoso di assaporare di nuovo la carne e lo spirito di colui che era la sua metà da sempre.
Si voltò verso il dio che era il suo completamento, prendendogli il viso tra le mani e trovando le sue labbra come se non avesse mai fatto altro nella sua intera esistenza e, in un certo modo, era così.
La coscienza di Mark si fondeva al sapere divino di Parvati, le risposte a ogni domanda chiare nella sua mente.
“Ti cercavo, mi tendevo verso di te, ma neppure lo sapevo…”
“Ti ho aspettato, Sati, ti ho sempre aspettato.” Mark sorrise, tornando a poggiare le labbra su quelle del dio per poi scostarsi di un passo.
“Sono Sati, sono Parvati, ma sono anche Mark, ora.” Shiva sorrise, la luce del firmamento in quelle iridi di un nero luminoso posate in quelle celesti dell’altro.
“Accolgo con letizia la tua nuova forma, Amato.” Il dio sfiorò il volto di Mark, colmo di gioia.
Si erano ritrovati, avevano riunito la parte mancante della loro essenza e ora erano tornati ad intrecciarla in un’unica via luminosa.

 

Questa storia NON VUOLE ESSERE un trattato di induismo.
Detto ciò una piccola spiegazione sul titolo...

Kama Sutra = Sutra del Kama

Cioè sutra (insieme di insegnamenti sapienziali espressi in modo breve e sintetico, con i secoli ha ampliato il suo senso sino ad indicare componimenti molto estesi ed articolati, perdendo, in parte, il senso originale di 'componimento breve' o 'aforisma') dell’amore in quanto desiderio carnale, unione.

Il Kama Sutra è l'amore visto come un'unione divina. Vatsyayana (il monaco/filosofo che lo ha scritto) credeva che il sesso in sé non fosse sbagliato, a meno che non lo si facesse solo "tanto per fare", con frivolezza.

Tanto che nella tradizione indiana Kama è il dio (deva) del piacere sessuale, dell'amore carnale e del desiderio. Il piacere non è un peccato ma uno dei quattro scopi della vita, anzi, nel Tantrismo, (cioè insieme di insegnamenti spirituali e tradizioni esoteriche originatesi nelle culture religiose indiane con varianti induiste) è una pratica che porta all'elevazione spirituale perché conoscendo la carne si arriva allo spirito.Queste sono le note introduttive, sono giusto dei piccoli spunti per la comprensione del titolo, o questo racconto diventa un saggio…



Grazie a tutti quelli che hanno letto la storia, se vi piace fatemelo sapere, fa bene alla mia autostima!


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