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Autore: TheUnknownDevice    26/07/2014    6 recensioni
“La convinzione fotte la gente”, disse qualcuno.
Honey, dopo aver passato dieci dei suoi diciotto anni su una sedia a rotelle, è convinta di non avere nulla: non ha un paio di gambe funzionanti, non ha dei genitori, non possiede alcun amico né un qualche animale domestico.
Dylan, lo scapestrato e fin troppo attraente ragazzo che irrompe nella sua vita e le propone un patto a doppio senso, invece, sembra essere contento e fiero della propria vita.
Ma non è tutto come sembra, dipende solo dai punti di vista. E quando gli antipodi si scontrano, ogni cosa è davvero possibile, perché tutto passa, ma niente cambia davvero. Forse, solo se ne sei profondamente convinto.
È come in una guerra, come un accordo di mutuo soccorso tra Paesi alleati. Il primo a cadere perde, ma può contare sull’aiuto dell’altro.
Una solida alleanza, un tacito patto a doppio senso, un appiglio per salvarsi dalla fredda ed esigente realtà.
And nothing else matters - E non importa nient'altro.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo 8


Sorprendente

 

 

«I can’t get no! Na na naa... I can’t get noo! Na na naa... oh no no no!» Il mio canto da usignolo – o le mie grida da cornacchia, dipende dai punti di vista – riempiva il salone, accompagnando le note di ‘Satisfaction’ che rimbombava dalle casse di zio Cedric ad un volume probabilmente illegale.

A malapena sentii il telefono squillare, quindi.

«Pronto?»

«Ehi, principessa... che stai combinando?» Possibile che il canto da cornacchia si sentisse perfino dal suo ufficio?

«Ehm, niente... ascolto un po’ di buona musica prima che arrivi Dylan.» Tralasciai la parte in cui nominavo le sue adorate casse; mi avrebbe trucidata se avesse saputo che le usavo senza il suo permesso.

Quanto sei diventata trasgressiva...

«Ah ah, capito... farò il più tardi possibile, allora

«Cedric! È solo fisioterapia», sibilai piuttosto imbarazzata. Ancora non mi ero abituata a fare certi discorsi con zio Cedric. Sarebbero stati molto più fluidi se il protagonista di tali discorsi non fosse stato Dylan. «Vedi di tornare per l’ora di cena piuttosto, il frigo grida pietà e sai bene che io non so far bollire nemmeno l’acqua.»

«Lo so, lo so. Farò come vuoi bambolina, sta’ tranquilla. Un bacio

«Ti voglio bene, a dopo.»

Dopo dieci secondi contati, giusto giusto necessari per far sussurrare un suadente ‘satisfaction’ a Mick Jagger, un nuovo suono interruppe la mia momentanea furia da rockstar.

Scivolai con la sedia verso la porta e la aprii, dimenticandomi completamente di spegnere la musica.

E che cavolo! Un momento come quello non poteva essere interrotto più di una volta!

«Mmm, Rolling Stones... molto bene mister. Vedo che hai buoni gusti musicali.» Tipica entrata in stile Hamilton.

«Ottimi, direi. E ciao, comunque.»

«Ciao a te», disse, depositandomi un leggero bacio sulla fronte.

E quant’è casto lui, invece...

«Ti prego, dimmi che non andremo in qualche posto compromettente anche oggi. Ti ricordo che siamo indietro con la fisioterapia, l’algebra non si insegna da sé e – dulcis in fundo – il tragus dopo una settimana continua ancora a pizzicare. È normale?»

Il suo anellino argenteo invece faceva bella mostra sul suo labbro inferiore e lui pareva non provare fastidio.

«Mmm... rispettivamente: sì, sì e sì.»

«La domanda era riferita solo al piercing!»

«Oh. Allora sì.» Era irrecuperabile.

«Facciamo in fretta. Vorrei andare al centro commerciale per cercare un vestito adatto al pranzo di Natale.»

«È già Natale?»

«Sì Dylan. Tra una settimana, precisamente.»

«Mi sono perso qualcosa ultimamente...»

«Ho notato», dissi in modo sarcastico, «quindi diamoci una mossa così potrò dedicarmi al tanto amato shopping!» Il sarcasmo è sempre stato il mio forte, non c’è niente da fare.

«E con cosa ci vorresti andare? Col pullman?»

«Bè, avevo intenzione di chiedere a Cedr-»

«No, macché, tuo zio ha i suoi impegni. Se proprio insisti, ti ci porto io al centro commerciale.»

«Dylan, io non ti ho chiesto nulla.»

«Lo so, lo so... ma, ehi: non è gratificante per un uomo offrirsi volontario per portare una donna a fare shopping. Ti immagini che delirio? Quindi facciamo pure finta che tu mi abbia implorato di accompagnarti, ok?»

«Ma guarda che posso andarci pure con Ce-»

«Non se ne parla. Ti ci porto io.»

Era molto strano e sorprendente. Nella maggior parte dei casi – come lui stesso aveva notato – un uomo si sarebbe detto allergico allo shopping, pur di non accompagnarci una donna. Quindi... perché lui insisteva tanto? Quella domanda bastò per farmi accettare l’offerta, poiché ero sicura che proprio nel luogo maledetto – altrimenti conosciuto come grande magazzino o Western Mall – avrei trovato la risposta. Sesto senso di donna.

Oppure vuole solo essere carino con te e darti una mano. Perché, diciamocelo: Cedric tornerà per cena e dopo una lunga giornata di lavoro non potrai ossessionarlo con la tua voglia di shopping.

Tutto molto vero, ma propendevo per la prima ipotesi.

«Okay...»

«Bene. Allora oggi facciamo qualcosa di molto semplice per la tua Dylanterapia.»

Quel nome me l’ero quasi dimenticato! «Cosa?»

«Hai mai giocato alla bicicletta da bambina?»

«Sì, certo. Ti stendi per terra e pedali con...» Mi bloccai. L’avevo fatto sì e no un centinaio di volte quel gioco, con le mie amiche del cuore e soprattutto con i miei genitori. Io e papà ci stendevamo sul loro enorme letto e pedalavamo per ore, tra scherzi e risate. Mamma preferiva l’erbetta all’inglese che c’era in giardino: passavamo i migliori pomeriggi a rotolarci in quell’erba soffice.

Sospirai. «Dylan, non mi sembra il caso. Credo che sia troppo presto, non so se ci riesco...» Era quella la mia paura più grande. Dopo l’incidente non l’avevo più fatto e avevo il terrore di non poterci più riuscire. L’idea di riprovarci mi spaventava.

«Ma sì che ce la fai! Dai, ti aiuto io.»

«Dylan...» Era incredibile come, ogni qual volta cantilenassi il suo nome senza poi dire più niente, lui capisse al volo che c’era qualcosa che non andava.

«Ehi, mister. Che ti succede?»

«Non voglio fare la bambina frignona... ma questo era un gioco che facevo sempre con i miei e ho una paura cane di non poterci più riuscire. Non so perché, ma è come se tradissi ciò che mi hanno insegnato...»

«Oh», disse scrutandomi con quegli occhi smeraldini, «ma non credi che, se almeno non ci provi, non potrai mai saperlo?»

«Ho paura, Dylan. Una fottuta paura, ad essere sinceri. Non mi chiedere il motivo, ma ho passato poco tempo con i miei, ho potuto imparare poche cose da loro e... questa è una delle poche. Non posso accettare di dimenticare come si fa.»

«Non lo accettare, allora.»

«Non dipende da me, Dylan!» Avevo alzato il tono di qualche ottava, anche se la voce andava scemando sempre più.

Negli anni successivi al mio coma avevo avuto qualche crisi; nulla di serio che avesse comportato medicinali o dottori, ma comunque avevo sentito il bisogno di sfogarmi in certi momenti. Avevo visto uno psicologo per tre anni, solo perché la riabilitazione comprendeva sia quella delle gambe che quella mentale. Non mi ero sentita meglio col suo aiuto, non era cambiato granché; mi ero sfogata, sì, ma non poter ricordare l’incidente era un ostacolo insormontabile per la buona riuscita della terapia. Quindi, con il consenso di zio Cedric, avevo deciso di interrompere le sedute, poiché non le ritenevo più così necessarie.

Quella che stavo avendo non era certamente una di quelle crisi, ma poco mancava che lo diventasse. Ed io non ero assolutamente pronta a trascinare Dylan nei miei problemi, o almeno non più di quanto già non ci fosse.

Non se lo meritava, soprattutto.

«Okay... però calmati mister, non posso vederti così.»

Il suo tono dolce e quegli occhioni verdeggianti che prima o poi avrei strappato con le mie stesse mani furono un toccasana per il mio malumore.

«Sì, scusa per la scenata.»

«No, scusami tu. Solo che... che cazzo, dico io! Ogni volta che propongo qualcosa di scemo penso di essere io quello non all’altezza della situazione. Credi che sia facile preparare gli esercizi giusti per la fisioterapia? Bè, te lo dico io: no, non lo è. Non lo è per niente. Perché devo inventarmi mille cose per rendere il tutto più semplice, più divertente e soprattutto per non fartelo pesare. Solo che quando vedo che tutti i miei sforzi sono stati vani... non lo so, mi sento ancora più fallito di quanto già non sia.»

«Tu non sei affatto un fallito, Dylan.»

Fece un sorriso amaro. «Già.»

Si vedeva lontano un chilometro che quella parola era uscita dalla sua bocca in maniera quasi meccanica, come se fosse una maniera per difendersi da qualsiasi intrusione nella sua misteriosa vita.

«Dobbiamo smetterla di fare sempre così. Tu proponi una cosa, io rifiuto perché ho paura, tu mi fai un discorso e io cambio idea. Siamo diventati davvero così monotoni?!»

Il mio tentativo di smorzare la tensione andò a buon fine. «Macché! La noia non invaderà mai le nostre menti geniali, mister.»

«Lo spero, Hamilton!»

«Quindi... ci vuoi provare?»

«Sì. Tanto cos’ho da perdere?»

«È questo lo spirito giusto!», e così dicendo mi sollevò di peso dalla carrozzella – come ormai aveva fatto tante altre volte – e mi depositò sul tappeto bordeaux che troneggiava al centro del salone.

«Bè, sai che fare!»

«Okay. Ma fa’ piano! Le tue gambe sono piuttosto lunghe e allenate, se non sbaglio.»

«Ahimè, mister. Se fossi stato ciccione ti sarebbe piaciuto di più?»

«Può darsi...»

«Allora vedrò di ingozzarmi a dovere durante queste vacanze.»

Mi guardò col suo solito ghigno divertito, unendo poi i suoi piedi scalzi ai miei, che invece erano coperti da un paio di calzini a strisce.

«Tu porti i calzini con questo caldo? Mister, qui dentro ci saranno trenta gradi sicuri!»

«Sai com’è... ho la circolazione di una vecchia!»

A quella battuta staccò i piedi dai miei e si buttò su un fianco, tenendosi la pancia. «Mister, sei terribile.»

«Che c’è? Ho detto la verità. Quando le gambe sono sempre ferme la circolazione rallenta. Tu, grande sportivo, dovresti saperlo!»

«Già, non posso darti torto. Ma dentro questa casa il riscaldamento è comunque troppo elevato.»

«Non sono un’amante del freddo.»

«Lo vedo. Dai, togli questi affari», asserì, per poi sfilarli lui stesso. Il contatto con le sue mani calde fu a dir poco sorprendente. Era una stufa ambulante!

«Così va meglio.»

Dopodiché, prendemmo a ‘pedalare’ come solo due bambini farebbero, prendendoci in giro se ad uno dei due scappava la presa sui piedi dell’altro.

Avevo immaginato di sentire la nostalgia di quando al posto di Dylan c’erano stati i miei adorati genitori, ma ciò non avvenne. O per lo meno avvenne, ma non nella maniera tragica in cui me l’ero immaginato. La spensieratezza di Dylan, le nostre risate come al solito avevano spazzato via ogni brutto pensiero.

Le gambe facevamo male, tanto male; non le avevo sottoposte mai ad uno sforzo così cospicuo dopo l’operazione. Un dolore molto più acuto si fece poi strada nella mia coscia, costringendomi a dare un grido di pura sofferenza.

«Honey, Honey! Che succede?», Dylan mi chiamò, ma la fitta diventava così intensa che facevo fatica anche a parlare.

«La... la gamba...», mormorai ad occhi chiusi, mentre mi stringevo la coscia destra.

«Okay, niente paura. È solo un crampo.»

«Come fai ad esserne sicuro?», domandai con voce isterica.

«Ne ho avuti a palate prima di diventare un atleta professionista. E li ho tuttora, ogni tanto.»

«E se mi fossi bruciata la possibilità di camminare con questo crampo?!» Pessimismo del cavolo, sempre nei momenti migliori!

«Ma no! Fa’ ciò che ti dico e vedrai che passerà subito.»

«Okay.»

Dylan mi sollevò per la seconda volta in quel pomeriggio, spostando il mio corpo dal ruvido tappeto alla morbidezza del divano. Mi poggiò con dolcezza, quasi fossi una bambolina di porcellana. Quel gesto, seppur stupido e del tutto disinteressato, mi fece sorridere.

Probabilmente se n’accorse, poiché non mancò di commentare con una delle sue. «Mister, guarda che ancora non ho fatto nulla. Perché sorridi?»

Di tutta risposta lo guardai in tralice.

«Ah già, dimenticavo: io rendo migliore la vita della gente con la mia sola presenza», si adulò, ghignando.

Scossi la testa, divertita. Ormai non c’era via di ritorno per lui.

Si sedette di fianco al mio corpo steso e immobile, scrutando le mie gambe come se da esse potesse comparire magicamente la risposta al problema. Poi sospirò, guardandomi quasi colpevole.

Con movimenti incerti, a tratti bruschi, prese tra le mani la coscia ancora dolorante, facendola dondolare in avanti e all’indietro sotto il tocco delle sue mani – ovviamente bollenti.

Poi la posò nuovamente diritta sul divano. «Sappi che tutto ciò che faccio, lo faccio per il tuo bene.»

Non seppi rispondere alla sua affermazione, che pareva piuttosto una giustificazione che altro.

Lo guardai interrogativa, al che si sporse verso la gamba stesa e iniziò a passavi sopra le mani, in quello che comunemente si definirebbe ‘massaggio’.

Avvampai all’istante, avvertendo la sensazione di calore pervadere tutto il mio corpo e non solo la gamba. Non era il massaggio in sé a provocarmi certi sbalzi di temperatura – poiché Matilda me ne aveva fatti tanti in precedenza – quanto piuttosto il fautore di tali movimenti.

Era bravo, non c’era che dire. Le sue mani erano esperte, avevano quella grandezza protettiva che mi rendeva le gambe molto simili a della gelatina. I polpastrelli stringevano la pelle in maniera delicata, come a darle tanti piccoli pizzicotti. Nonostante vi fosse il tessuto della tuta a fare da barriera fra la mia pelle e la sua, potevo sentire distintamente il suo tocco. E mi piaceva, diamine, mi piaceva tanto.

Chiusi di riflesso gli occhi, rilassando le membra e abbandonando il capo sul bracciolo del divano. Era così dannatamente rilassante!

Ti piace farti palpare dal corridore, eh? E brava la nostra Honey!

Non mi stava palpando! Lo aveva anche detto che era un modo per farmi stare meglio.

E stai meglio, si vede.

Colpita da quella breve conversazione con la mia coscienza bigotta, spalancai gli occhi. Trovai quelli di Dylan che mi fissavano come... come si ammira un bambino che dorme nella sua culla. I suoi lineamenti decisi si erano ammorbiditi, lasciando spazio ad uno dei suoi sorrisi sinceri e a quelle piccole rughe d’espressione ai lati degli occhi che stavo imparando ad adorare.

Come adori il resto di lui, d’altronde!

«Non vorrei interrompere il tuo momento d’estasi, ma ho come l’impressione che i crampi ti siano passati, mister.»

Rimasi allibita. Come faceva un minuto prima a guardarmi con quello sguardo da diabete e un minuto dopo a spararne una delle sue?

«S-sì. Sì, grazie. È passato.» Feci per sollevarmi, ma un leggero capogiro mi costrinse ad indietreggiare.

«Sta’ buona, mister. Ci penso io», disse divertito.

Una volta che mi ebbe riposta nella mia cara sedia a rotelle, si avvicinò impercettibilmente al mio corpo e mi sorrise. Ricambiai con una linguaccia, subito smorzata dalla sua mano che subito si chiuse sulle mie guance, spupazzandomi a dovere. Era un gesto che faceva raramente e solo quando mi comportavo da bambina durante una seduta, o magari quando cercavo di fare la sapientona su un argomento che lui ancora non conosceva. Era il suo modo di zittirmi quando sentiva che stava per esser messo nel sacco.

Solo che in quel momento io non avevo aperto bocca – se non per fargli una breve boccaccia.

«Dylan?»

«Sì, mister?»

«Quand’è il tuo compleanno?»

«Il sei di maggio. Perché?»

«Credo che ti regalerò un bidone pieno zeppo di peluche, bambolotti e cuscini vari per poterteli spupazzare quanto ti pare. Sai com’è, le mie guance non sono nate per essere strette da bambini poco cresciuti... tipo te.»

«Oh, ma sentitela! A forza di stare con me stai diventando brava!», e riecco che mi stringeva le guance in quel gesto fraterno che iniziavo ad odiare.

Gli afferrai di scatto il polso, mordendogli poi un dito.

«Ahi! Ma sei impazzita?»

«So fare di peggio, sappilo», sibilai con finta aria da strega, stringendo gli occhi.

«Ah si?»

«Certo. E ora vado a cambiarmi, sennò addio shopping sfrenato!», e così dicendo mi diressi in camera attraversando lo scivolo come una furia.

Nonostante fossi al piano di sopra, sentii perfettamente la sua voce cristallina che mi urlava. «Comunque grazie per il regalo mister, ma sappi che preferirò sempre te.»

Addio tranquillità post massaggio, benvenute maledette farfalle nello stomaco.

 

***

 

Il Webster Mall era il centro commerciale della città, l’unico presente nel raggio di venti chilometri. Ecco perché, soprattutto sotto le feste, trovarlo affollato era praticamente una banalità. Mi sarei sorpresa di trovarlo spopolato, anzi. In particolare, quella sera di dicembre pullulava di gente e circolare non era impresa facile. Figurarsi con una sedia a rotelle a carico!

Ma i due eroi non si diedero per vinti e, chiedendo permesso a destra e a manca, spingendo se necessario, giunsero affannati al primo negozio d’abbigliamento.

«Vestito ideale per il pranzo di Natale, sappi che se sei qui dentro, noi ti troveremo», asserii convinta, provocando una risata sommessa di Dylan.

«Diamoci dentro, allora!»

Entrammo nel grande locale addobbato con luci bianche e rosse; ovunque erano appesi enormi fiocchi argentei e un imponente albero di Natale torreggiava in fondo alla sala. Era un negozio in cui abitualmente non sarei mai entrata, uno di quelli per persone altolocate e decorose; preferivo quelli per giovani, con stili più casual e con prezzi decisamente più bassi.

Mi voltai, scorgendo Dylan che spingeva la sedia mentre si guardava intorno con espressione spaesata.

«Lo so, è un luogo surreale. Ma voglio che Cedric non debba sfigurare con me al suo fianco, quindi troviamo questo benedetto vestito e scappiamo.»

«Sono d’accordo. Spero solo di non dover aspettare seduto su una poltroncina mentre una cordiale commessa mi serve del the e tu ti provi migliaia di vestiti, come nei migliori film americani.»

«Lo spero anch’io.»

Mezz’ora più tardi eravamo ancora imbottigliati in quello stesso negozio, senza nemmeno l’ombra del vestito perfetto.

Gli occhi iniziavano a bruciarmi per via degli innumerevoli oggetti ricoperti di brillantini che erano presenti in quell’enorme spazio.

Dylan, che ormai si era calato più di me nei panni del cacciatore di vestiti, stava dando un’occhiata ad un vestito lungo, interamente rosso. Non era male.

«Ehi, mister. Guarda questo!», mi mostrò il vestito che già avevo notato. Gli feci un cenno d’assenso e lui venne subito verso di me.

«Lo vuoi provare?»

«Ma sì, dai. È impegnativo, ma è molto bello.»

«Ne sei all’altezza.»

Ci destreggiammo fra la calca per raggiungere i camerini. Ovviamente con un negozio così enorme, chiunque fosse stato il progettista aveva deciso di mettere a disposizione solo otto camerini per un totale di duecento persone presenti. Ci mettemmo in fila, ormai esausti.

Una voce che chiamava il mio compare ci distrasse.

«Dylan!»

Entrambi ci voltammo. Il ragazzo al mio fianco impallidì ed io non tardai ad imitarlo.

Un visino che solo una volta avevo visto, ma che subito riconobbi, mostrò un sorriso degno della migliore pubblicità di dentifricio. Tra tutte quelle decorazioni rosse, ci mancava solo quel caschetto a fare pendant.







Unknown Voice:
Heilà, gente! In edizione straordinaria e come avevo promesso in risposta ad alcune vostre recensioni, ho aggiornato non a fine mese, bensì anche prima! Due aggiornamenti in un mese sono praticamente un record *-*
Ma, a parte questo, sono contenta di aver trovato il tempo per scrivere questo capitolo, perchè è stato davvero uno spasso scrivere dei loro battibecchi. Li adoro anche per questo!
Come vedete il mistero s'infittisce - o si schiarisce, dipende - dato che la ragazza dai capelli rossi è tornata. Ebbene si, se Dylan è sbiancato vuol dire che c'è qualcosa sotto. A voi i commenti, le supposizioni, le anticipazioni e ovviamente le opinioni sul capitolo. Spero siate in tante come negli scorsi capitoli! :)
Un grande abbraccio a tutte!
Martina.



PS: per chi volesse leggere anche l'altra mia operetta:
→  Freckles   




 

  
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