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Autore: Erinys    28/07/2014    2 recensioni
L'ultima avventura di Sherlock Holmes e John Watson.
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"Gli ho detto che morirà, come morirà e che non ci manca tanto, e so che, anche se non lo ha ancora detto, ha paura, come me del resto. L’unica differenza è che lui ha paura di morire; io ho paura di sopravvivergli."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Premsessa: questa one-shot tratta argomenti forti, per cui se siete particolarmente sensibili o la vicenda vi tocca da vicino (come nel mio caso), pensateci prima di andare avanti a leggere. La one-shot è ispirata alla magnifica "Alone on the water", che mi ha aiutata a scrivere questa storia, che avevo in mente da tempo. In fondo troverete tutte le note e le informazioni necessarie.
Buona lettura! 






Fieri sentio et excrucior




«Questo è quanto. »
Il medico si zittisce.
 Guardo verso Sherlock: è seduto accanto a me, le gambe incrociate; sembra estremamente calmo.
«A quando gli esami? » domanda.
«Il prima possibile. Domani mattina? »
«Perfetto. La ringrazio, dottore. Andiamo, John. »
Sherlock si alza in piedi e si dirige verso la porta. In un attimo la apre ed è già fuori.
Avrei voluto fare altre domande, ma lui non me ne dà l’occasione. Porgo la mano destra al medico, il dottor Patterson, che ricambia subito la mia stretta.
«Mi dispiace, signor Watson- mi guarda come se fossi io quello malato- Ovviamente faremo tutto ciò che è in nostro potere per migliorare le condizioni di Sherlock. Sa, oggi non è più come una volta: la scienza ha fatto molti progressi in questo campo! Dopo le analisi-»
«Lo so, sono anch’io un medico. Non mi serve una lezione di medicina » lo interrompo, più aspro di quanto volessi.
«Nella peggiore delle ipotesi, faremo comunque di tutto per farlo sentire a suo agio. »
Rido a voce alta, troppo alta.
«Seriamente, non è mai stato a suo agio in tutta la sua vita. Non c’è bisogno di cominciare proprio
adesso! »1
 
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In casa non ci rivolgiamo parola. Sherlock sta facendo un nuovo esperimento, mentre io guardo il telegiornale. Mi riscuoto quando Sherlock fa cadere improvvisamente una provetta per terra, frantumandola in mille pezzi. Mi alzo di scatto e gli vado incontro, in cucina, rendendomi conto soltanto in quel momento di non aver ascoltato neanche una parola del notiziario. Trovo Sherlock che fissa i vetri sul pavimento, immobile, ma non appena sente il rumore dei miei passi alle sue spalle, si volta nuovamente verso il tavolo, facendo finta di niente.
«Sherlock, tutto bene? » domando timoroso.
«Ovviamente. Perché mai dovrebbe andare male? »
Non mi degna di uno sguardo, continuando a lavorare.
«Ho sentito cadere qualcosa- indico il pavimento- Ci sono vetri dappertutto. »
«Sì… Lasciali lì. Non è importante adesso. »
Ancora non mi guarda, non si volta.
«Dobbiamo parlare. »
Lo dico duro, senza rimorsi. E’ questo l’unico modo per farsi ascoltare da Sherlock: entrare deciso, forte, con un tono che non ammetta repliche.
«Di che cosa? L’omicidio del signor Smith, del mio “orribile” esperimento su questa mano, oppure del fatto che sono le otto di sera e Mrs Hudson non ha ancora portato la cena? »
«Della malattia. »
Si ferma, smette di fare quello che stava facendo. Si gira verso di me: la sua espressione è dura; vuole affrontarmi.
«Ho la sclerosi multipla- le sue parole mi colpiscono dritte in pieno stomaco- Non vedo che cosa ci sia da dire riguardo l’argomento. »
Non ci credo. L’ha detto davvero? Pensa seriamente che non ci sia niente da dire sulla questione? Sento la bile carica di rabbia salirmi su per l’esofago, pronta a uscirmi fuori dalla bocca. Non posso urlargli contro, non adesso, non in queste condizioni. Inspiro ed espiro piano: uno, due, tre respiri, finché non sento l’ira scemare lentamente dentro di me.
«E’ in forma a decorso progressivo con ricadute, Sherlock. Avrai frequenti attacchi e… può darsi che tu non riuscirai più a recuperare. Questo è stato abbastanza violento e ne seguiranno altri, anche peggiori. »
«Mi pare di aver recuperato perfettamente, John. Non ritengo necessario discutere ulteriormente sull’argomento. »
Quel tono così distaccato, così maledettamente formale mi sta facendo infuriare un’altra volta; dall’altra parte mi ferisce la sua indifferenza.
«Io non credo invece- mormoro- La provetta è caduta prima…»
Mi osserva confuso per qualche istante.
«Sì, ci ho inciampato. »
Un ghigno mi si disegna sul volto.
«Non è vero. Ti è scivolata dalla mano destra. Guarda, sta ancora tremando. »
Il suo sguardo passa dal mio volto alla sua mano. Lo vedo chiuderla in un pugno: avevo ragione.
«Ti sei messo a indagare sui dettagli adesso, John? La mia mano sta benissimo, come il resto di me. Non ho bisogno né di parlare di questa stupida malattia né del tuo aiuto. »
Un altro colpo, stavolta vicino al cuore. Avverto la fitta provocata da quelle parole attraversarmi fino alla testa, e per un momento mi sembra di star vivendo un incubo, dal quale non riesco a ridestarmi.
«No, la tua mano non sta affatto bene!- grido, ormai non riesco più a trattenermi- Cristo Santo, Sherlock! Fino a un mese e mezzo fa eri piantato dentro a un letto, ché non riuscivi a muoverti; ti hanno imbottito di cortisone mattino e sera… Come fai a non renderti conto di quale cazzo di situazione stiamo vivendo?!”
Quando finisco di urlare, mi sento completamente vuoto, quasi sfinito. Sherlock mi guarda con un’espressione indecifrabile sul volto e resta in silenzio.
«Non voglio fare la cura, John- mi dice dopo qualche istante- So in quale stadio si trova la malattia e so anche che sarebbe piuttosto inutile prendere quei medicinali: provocherebbero più effetti collaterali di quanto non potrebbero giovarmi. »
Abbasso il capo. Non sono un neurologo, ma conosco la malattia e… Dannazione, Sherlock ha ragione! Mentre cerco dentro la mia testa qualcosa da dirgli, realizzo improvvisamente che mai prima d’ora avevo odiato così tanto il fatto che Sherlock si trovasse dalla parte della ragione, eppure ce ne sono state di volte in cui avrei dovuto odiarlo, volte in cui mi aveva offeso o mi aveva mancato di rispetto. Ma no, questa le supera tutte.
«E’ vero. »
«Lo so. »
Mi volto, perché non riesco a rialzare il capo per guardarlo di nuovo. Mi volto, perché so che i miei occhi sono già lucidi. Mi volto, perché penso che se la maschera di freddezza e indifferenza di Sherlock dovesse cadere proprio adesso, io so che non riuscirei ad andare avanti e a stargli vicino.
«Non sappiamo dove colpirà la prossima ricaduta. Potrebbe colpire la vista, le gambe, potrebbe provocarti afasia oppure problemi di equilibrio; quasi sicuramente la tua capacità cognitiva non sarà più quella di ora e…- deglutisco a vuoto perché non voglio dire ciò che sto per dire, ma devo farlo comunque- lentamente i tuoi organi smetteranno di funzionare. Basterà un semplice virus e inizierà tutto questo. Non possiamo sapere con precisione dopo quante ricadute avverrà ma… avverrà prima o poi, Sherlock. »
Sherlock non dice una parola e io continuo a non volermi girare. Sono troppo codardo e troppo spaventato, e l’unica cosa che riesco a pensare è fuggire.
«Io vado a letto se non hai bisogno di niente. »
Non mi risponde e io mi incammino verso le scale. A ogni gradino, mi sento sempre più vigliacco per averlo mollato da solo in cucina con il peso del mio discorso. Gli ho detto che morirà, come morirà e che non ci manca tanto, e so che, anche se non lo ha ancora detto, ha paura, come me del resto. L’unica differenza è che lui ha paura di morire; io ho paura di sopravvivergli.
 
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Nei due giorni successivi, io e Sherlock non abbiamo praticamente parlato, anzi: ci siamo evitati il più possibile. Quando lui era in casa, uscivo, e quando c’ero io in casa, usciva lui. Non ho voluto affrontare di nuovo l’argomento della malattia, visto com’era andata a finire il giorno della diagnosi.
Ma oggi è diverso. Sherlock siede davanti a me con un fascicolo tra le mani, mentre io stringo con troppa forza una tazza di tè tra le mie.
«Ho riflettuto sulla faccenda dalla malattia, John, e ho ritenuto necessario farsi trovare preparati per ogni evenienza. »
Il suo tono ancora freddo e distaccato mi colpisce ancora una volta.
«Che cos’è quello? » domando, indicando i fogli che ha in mano.
«Il mio testamento. »
Lo guardo e non so cosa dire; cerco di dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma sembra che io non sia più in grado di formulare alcuna frase. L’unica cosa che riesco a pensare è che Sherlock morirà e quello sarà il sigillo della sua fine.
«Perché? »
«Morirò, John. Ricordi? »
«Non ora, non subito. »
«Magari non ora. Forse non subito. »
«Non accadrà. »
«Non possiamo saperlo. »
Distolgo lo sguardo e deglutisco; comincio a sudare freddo.
«Qui ci sono i destinatari di tutti i miei averi. Mi sono preso la libertà di fare qualche piccola modifica stamattina, destinandoti una parte del mio denaro e tutte le mie effetti » mi dice in un tono estremamente calmo, come se mi stesse informando del ritardo della metropolitana.
Anch’io devo cercare di restare tranquillo: non posso farmi vedere agitato da lui.
«Ti ringrazio. »
Sherlock fa un piccolo cenno di assenso con il capo e posa il fascicolo sul tavolo accanto alla sua poltrona.
«Tu sei un medico, John- non è una domanda; è un’affermazione- Come funziona solitamente questa cosa? Voglio dire, quanto mi resta approssimativamente? »
Resto in silenzio e lo scruto per qualche istante, come per studiarlo. La mano destra continua a tremare e sono quasi sicuro che le gambe non stiano tanto meglio di quando è uscito dalla clinica. Il mio sguardo continua a vagare su di lui, finché non mi imbatto nei suoi occhi: è in questo momento che riesco a catturare un fremito di paura, oltre l’azzurro cangiante delle sue iridi.
«Avendo visto il risultato della risonanza magnetica, è probabile che restino pochi mesi, Sherlock- lo dico veloce, pensando che in questo modo soffriremo entrambi meno- La sclerosi multipla non è di per sé mortale, ma, quando si presenta in questa forma, basta un’infezione o un po’ di febbre per provocare altri attacchi, finché l’organismo non collassa. Perché non te l’hanno mai diagnosticata prima? »
Sherlock punta gli occhi su un punto imprecisato del pavimento.
«Una volta mi era capitata una cosa simile quando ero bambino, ma nessuno ci aveva dato peso, e un’altra volta mi è capitato da ragazzo. Non mi è mai più successo da allora, perché avrei dovuto avere dei
sospetti? »
«Perché non ce li hanno avuti i dottori che ti hanno avuto in cura? »
«Perché l’essere umano tende a scegliere per sé ciò che gli fa meno male, John, e la scelta di quei medici fu quella di dare la colpa a una banale influenza, dato che non esistevano farmaci per questa malattia e che sarei stato spacciato. Non che il risultato sia cambiato, alla fine, ma almeno loro se ne sono lavati le mani, visto che non hanno dovuto dirmi che presto sarò sepolto in un cimitero sotto cumoli e cumoli di terreno e quintali di fiori » stavolta avverto una punta di amarezza nella sua voce.
Resto nuovamente in silenzio. Quando mi accorgo di non riuscire più a sopportare il flusso dei miei pensieri, che corrono inevitabilmente alla futura morte di Sherlock, comincio a fare domande a caso, anche se conosco già le risposte.
«Sei tornato dal dottor Patterson, alla fine? »
«No. »
Sherlock alza il volto e mi osserva, poi si alza e va in cucina per finire il suo esperimento. Io resto immobile, trafitto dalla consapevolezza che Sherlock ha appena guardato dentro di me e che può averci visto soltanto una cosa: la paura.
 
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Salgo dentro al taxi, senza preoccuparmi di averlo appena soffiato a un tizio che lo aveva già fermato prima del mio arrivo in strada. Chiedo al conducente di dirigersi al Barts il più veloce possibile e quello preme sull’acceleratore.
Non sono passati neanche cinque minuti da quando mi è arrivato il messaggio di Lestrade:
Sherlock non sta bene. Un’ambulanza lo sta portando al Barts.
Sono subito scattato come una molla, lasciando il paziente che stavo visitando incredulo, mentre fuggivo nella stanza dove Sarah stava visitando anche lei. Le ho farfugliato di visitare il resto dei miei pazienti perché dovevo correre da Sherlock; non le ho neanche dato il tempo di replicare, perché sono corso immediatamente in strada, il camice bianco ancora indosso.
Penso a un miliardo di cose mentre l’auto sfreccia per le strade affollate di Londra- come sta Sherlock? Che cos’ha? Sarà cosciente? Che cosa gli faranno?- e contemporaneamente non riesco a focalizzarmi su nessuna di queste.
Dopo circa un quarto d’ora, il taxi si ferma. Lascio una banconota da cinquanta sterline sul sedile posteriore, senza badare al resto, e corro verso l’entrata dell’ospedale, poi tra i corridoi, finché non giungo nel reparto di neurologia. Da lontano vedo Mycroft parlare con un medico e cammino verso di lui. Quando lo raggiungo, lo sento ringraziare il dottore, che si incammina nella direzione opposta alla mia.
«Mycroft, come sta Sherlock? »
Lui in risposta mi indica la porta della stanza, alla quale ci troviamo di fronte: intravedo Sherlock sdraiato sul letto, ha un respiratore tra le narici e altri macchinari sul petto; una flebo è inserita sull’avambraccio sinistro, e non mi serve che qualcuno mi suggerisca che è cortisone ciò che gli stanno iniettando. Avverto una fitta di dolore nel vedere Sherlock così indifeso, circondato da tutte quelle macchine.
«Per il momento è incosciente- mi informa Mycroft- Il medico mi ha detto che è stato un attacco molto violento, più di quello precedente. I risultati della risonanza magnetica non sono per niente buoni: ha colpito le gambe e probabilmente la sua sfera cognitiva risulterà danneggiata. Non possiamo dirlo con certezza per il momento. »
«Si riprenderà? »
Mycroft abbassa il capo e stringe le labbra; ho già capito quale sarà la sua risposta.
«Temo di no. »
Stringo gli occhi e prego silenziosamente Dio di strapparmi da quella stramaledetta realtà e di ridarmi la vita di prima. E lo Sherlock di prima.
 
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Seduto sulla mia poltrona, fingo di leggere gli articoli del Times; in realtà sto guardando Sherlock da sopra le pagine del quotidiano: è intento a osservare il fascicolo di un omicidio, che Lestrade gli ha portato un paio di ora prima. Personalmente non ero molto d’accordo sul fatto che aiutasse Greg in questo caso, tuttavia ho dovuto cedere e lasciarlo fare quando mi ha assicurato che stesse bene e che, in caso di affaticamento, si sarebbe riposato. Probabilmente non lo farà, ma non posso oppormi all’infinito, altrimenti mi allontanerà da lui. Lo vedo infilarsi la mano sinistra tra i capelli, mentre la destra resta inerme sul tavolo, le spalle leggermente ricurve sotto la vestaglia di seta blu; il mio sguardo scende ancora sul suo corpo, finché non si imbatte sulla sedia a rotelle, e per un attimo sento il cuore smettere di battermi. Non ci sono ancora abituato a vederlo lì sopra: insomma, due settimane sono troppe poche per fare l’abitudine a una cosa del genere, soprattutto se si parla di Sherlock, un uomo forte, indipendente ed energico; vederlo là sopra, così sottomesso, mi fa male.
«John,- mi chiama a un tratto- ho bisogno di scrivermi un appunto. Potresti venire qui? »
Oh, già. C’è anche la mano destra che ha smesso di funzionare.
Mi alzo e gli vado vicino; prendo una penna e aspetto che cominci a dettare.
«Scrivi: “chiedere a Lestrade di scattare fotografie della scena del crimine”. »
Lo faccio e, mentre sto scrivendo, realizzo che Sherlock non ha mai avuto bisogno di un solo appunto prima d’ora.
«Finito? » domando.
«Sì, grazie. »
Torno seduto al mio posto con l’intento di riprendere a leggere il giornale –o di provarci, almeno- , quando sento vibrare il cellulare nella tasca. Lo afferro e vedo sullo schermo l’icona di un nuovo messaggio; lo apro e leggo: è Mycroft e dice che passerà in serata per discutere sia con Sherlock che con me. C’era da aspettarselo che volesse parlare anche con me, anzi: mi aspettavo che si facesse vivo molto tempo prima, a dir la verità! In ogni caso, penso di sapere già quello avrà da dirmi e, se dovesse essere così, sarebbe un gran giorno per la nazione inglese: per la prima volta io e Mycroft Holmes ci troveremmo d’accordo su qualcosa.
 
Apro il portone e trovo Mrs Hudson in fondo alla rampa di scale che porta all’appartamento mio e di Sherlock. Non appena sente la porta aprirsi, la donna si scuote e, quando vede che sono soltanto io, si posa una mano sul petto.
«Ah, è lei, John! » esclama, evidentemente sollevata.
«Mycroft è ancora di sopra che parla con Sherlock? »
«Sì, caro. Ormai sono quasi due ore che discutono… Lei dov’era? »
«Sono andato a prendere una birra. Sa, volevo che se la vedessero da soli…»
Mrs Hudson annuisce preoccupata: Sherlock e io abbiamo deciso di non dirle niente per il momento, ma lei non è affatto stupida! Prima o poi capirà, e io spero che lo faccia il più tardi possibile.
«Torno in casa, John. Mi faccia sapere se avete bisogno di qualcosa, soprattutto per Sherlock. »
Non appena la donna rientra nel suo appartamento, avverto Mycroft scendere le scale e lo vedo venirmi incontro.
«Buonasera, John. »
«Buonasera. »
«Ho appena finito di parlare con Sherlock. »
«E ovviamente non mi è dato sapere di che cosa, giusto? »
«Di che cosa mai potrebbero discutere un uomo che sa di star morendo e suo fratello, dottor Watson? »
Rimango in silenzio, colpito dal tono duro e aspro di quella domanda retorica.
«A ogni modo,- riprende Mycroft- ho riflettuto sulla questione e ritengo necessario che lei rimanga accanto a Sherlock, giorno e notte. Per quanto riguarda il suo lavoro, provvederò io stesso a trovare un suo sostituto per l’ambulatorio e verserò ogni settimana dei soldi sul suo conto. »
«Non voglio essere pagato per prendermi cura di Sherlock. »
Sul volto di Mycroft compare un ghigno, mentre i suoi occhi sono puntati dritti nei miei.
«Dovremmo smetterla di darci contro, John- sussurra- E’ per il bene di Sherlock. »
Detto questo apre il portone ed esce, scomparendo in Baker Street.
Per una volta io e Mycroft siamo d’accordo: devo prendermi cura di Sherlock a tempo pieno.
 
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Sono passati soltanto quattro mesi dall’ultima ricaduta e siamo di nuovo in ospedale, stavolta ancora peggio. Cinque giorni fa io e Sherlock avevamo deciso di andare al parco, tanto per passare qualche ora, dato che ormai lui non è più in grado di andare sulle scene dei crimini. Eravamo fermi a una panchina, quando Sherlock ha cominciato a vedere tutto sfuocato. Gli ho subito controllato gli occhi, ma avevo già capito che non era lì il problema, che la causa si trovava molto più in profondità. Ho subito chiamato un’ambulanza, che è arrivata tempestivamente, caricandoci entrambi sopra; in ospedale hanno portato Sherlock ha fare la solita risonanza, che ha confermato i miei timori: la sclerosi stavolta ha colpito ha colpito i nervi ottici, causandone l’infiammazione. Quando il medico di turno ci ha informato dei risultati dell’esame, Sherlock è rimasto in silenzio, come per i due giorni successivi. Soltanto ieri mi ha rivolto la parola, ma non per parlarmi della malattia.
Adesso sta cercando di leggere un libro, anche se dura molta fatica, lo vedo: stringe gli occhi, avvicina il libro al viso, ma non mi chiede aiuto. E io non mi faccio avanti, perché so quanto deve essere frustrato per via di tutto questo.
«John,- eccolo- potresti aiutarmi a leggere? »
Me lo dice con un tono così flebile, che in un altro momento non avrei pensato che fosse stato lui a rivolgermi quella richiesta.
«Certo. »
Sposto la poltrona vicino al letto e lui mi porge il libro: Carmina di Catullo.
«Ti piace la poesia latina? Non lo sapevo…»
«Una volta mi sono imbattuto in un caso di omicidio, dove l’assassino era un professore di lettere che aveva firmato il suo operato con un frase in latino. Così ho dovuto adoperarmi a imparare qualche cosa di quella lingua e mi sono appassionato. A volte mi stupisco della fantasia di certi delinquenti! »
Ridiamo insieme e mi si scalda il cuore: erano mesi che non lo sentivo più ridere così di gusto.
Apro poi il libro alla pagina dove Sherlock ha fatto una piccola piega: carme LXXXV.
«Sherlock, io non so leggere il latino. »
Me ne accorgo soltanto adesso. Sherlock piega la testa e sospira.
«Non importa, hai ragione. Io… non ci avevo pensato. »
Appoggio il libro sul comodino, accanto al letto, ed esco dalla stanza, ché mi sembra di soffocare. Mentre cammino verso la macchinetta del caffè, penso alla lista di cose che dovrò fare quando l’indomani tornerò a casa, prima di ritornare nuovamente qui, e tra le cose metto anche “imparare a leggere in latino”.
 
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Gli ultimi mesi sono stati sfiancanti. Ormai ho perso il conto delle volte in cui siamo corsi al reparto di neurologia del Barts; ogni volta era peggiore della precedente. L’ultima volta il dottor Patterson, il medico della diagnosi, ci ha proposto di rimanere in ospedale, dato che la situazione cominciava a essere decisamente critica, ma Sherlock ha rifiutato, e io non ho potuto essere più d’accordo con lui: se davvero morirà, non voglio che passi gli ultimi mesi, le ultime settimane della sua vita in una stanza bianca di reparto, con l’odore di disinfettante nelle narici ventiquattro ore su ventiquattro.
Così oggi siamo tornati a casa e con noi anche un sacco di macchinari, che monitorano le condizioni di Sherlock. Ovviamente non è più possibile tenere nascosta a Mrs Hudson la malattia, e tocca a me metterla al corrente di tutto quanto.
Non appena finisco di parlare, mi si getta contro, stringendomi in un abbraccio vigoroso, mentre piange sulla mia spalla. Ci vuole più di mezz’ora e una tazza di tè per riuscire a calmarla.
«Non si faccia vedere così da Sherlock, per favore» le dico, intanto che sorseggia la sua bevanda.
«E tu che cosa farai quando… quando Sherlock non ci sarà più? »
Rimango atterrito da quella domanda, non tanto per il brusco passaggio dal “lei” al “tu”, ma perché mi ha messo di fronte l’interrogativo che da mesi ormai cerco di ignorare; lei me lo ha messo proprio davanti agli occhi, e io mi rendo conto di non avere una risposta, o meglio l’unica che riesco a formulare è “muoio con lui”, ma so di non potere. Mi limito allora a rispondere con un “non lo so” e me ne vado.
Mentre salgo la rampa di scale che mi porta all’appartamento, sento il peso di quel quesito aumentare a ogni gradino. So di dover richiudere quella domanda in un angolo della mia testa, prima di tornare da Sherlock, perché lui non deve vedermi abbattuto, non deve vedermi soffrire; in questo momento io sono la sua roccia, proprio come lui lo è stato per me dopo il mio ritorno dall’Afghanistan.
Apro la porta e corro subito nella camera di Sherlock. Lo trovo immobile che fissa il vuoto; non appena mi sente arrivare, però, volta il capo.
«Com’è andata con Mrs Hudson? »
Scuoto la testa; Sherlock non si scompone: se lo aspettava, per questo non ha voluto dirglielo prima.
«Leggiamo un carme? »
Ormai è diventata una routine per noi, così afferro il libro dei carmina e mi siedo accanto al letto.
«Quale scegliamo oggi? »
Lo vedo riflettere per qualche istante.
«Decidi tu. »
Apro il libro e lo sfoglio, finché non mi fermo su una pagina a caso: carme VIII.
Comincio a leggere:
 
 
Miser Catulle, desinas ineptire,                                            Triste Catullo, smetti ormai di illuderti:
et quod vides perisse perditum ducas.                                  quello che è perso è perso, riconoscilo.
fulsere quondam candidi tibi soles,                                      Rifulsero per te giorni di gioia
cum ventitabas quo puella ducebat                                      un tempo, quando andavi con lei
amata nobis quantum amabitur nulla.                                  ti conduceva, amata quanto un’altra
ibi illa multa cum iocosa fiebant,                                         mai sarà.; e lì si facevano i giochi
quae tu volebas nec puella nolebat,                                    che tu volevi né lei non voleva.
fulsere vere candidi tibi soles.                                             Rifulsero, ah, per te giorni di gioia.
nunc iam illa non vult: tu quoque impotens noli,                    Più non vuole? E tu, matto, non volere.
nec quae fugit sectare, nec miser vive,                                Non inseguirla, non vivere triste;
sed obstinata mente perfer, obdura.                                    invece, fermo, sopporta, resisti.
vale puella, iam Catullus obdurat,                                       Addio, ragazza; Catullo resiste.
nec te requiret nec rogabit invitam.                                     Chiederti? Averti con la forza? No.
at tu dolebis, cum rogaberis nulla.                                      Ma piangerai, se non ti avrà nessuno.
scelesta, vae te, quae tibi manet vita?                                Ah, sciagurata, che vita ti resta?
quis nunc te adibit? cui videberis bella?                             Chi ti cercherà? A chi apparirai bella?
quem nunc amabis? cuius esse diceris?                            Ora chi amerai? Di chi ti dirai?
quem basiabis? cui labella mordebis?                               Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
at tu, Catulle, destinatus obdura.                                       Ma tu, Catullo, impegnati, resisti!  2
 
 
Finisco di leggere e alzo gli occhi verso Sherlock: mi sta guardando anche lui, ma molto più intensamente di quanto non faccia io. Sento il suo sguardo trafiggermi l’anima e scalfirne i cardini; so che cosa sta pensando: quel carme sembrava parlare di noi, io Catullo e lui Lesbia, con la differenza che nessuno dei due vorrebbe allontanarsi dall’altro. Improvvisamente vedo gli occhi di Sherlock inumidirsi, e allora lui distoglie lo sguardo.
«Non ci manca molto.”
«No. »
«Dobbiamo avvertire anche gli altri. »
«C’è ancora un po’ di tempo, Sherlock. »
«No, non ce n’è più. »
«Continui a dirlo con quel tono indifferente, come se non te ne fregasse niente. »
Glielo dico, perché ormai non ha più senso tenermelo per me.
«Sto morendo, John. E’ un dato di fatto. Vuoi che cominci a piangere e a urlare disperato?! »
Dio, mi sta facendo arrabbiare seriamente!
«No, Cristo Santo! Vorrei soltanto che almeno stavolta la smettessi di fare quello al di sopra del naturale scorrere delle cose e che ti mostrassi come un comune essere umano, che alla fine è quello che sei! » grido con tutto il fiato che in corpo.
Lui mi guarda senza rispondere, facendomi sentire colpevole per ciò che ho appena detto, così esco dalla stanza e vado a rifugiarmi in bagno, dove, dopo essermi spogliato, mi infilo sotto l’acqua bollente, nella speranza che la mia pelle si sciolga e vada a finire nel tubo di scarico, per fuggire finalmente da tutto questo
schifo. E poi comincio a piangere in silenzio, disperato, dandomi dell’idiota: davvero non so che Sherlock sta soffrendo come un cane dentro di sé? Sul serio non so che continua a far finta di niente, nonostante sia praticamente diventato un invalido e stia per morire, soltanto per non essere compatito e per non darmi altro dispiacere?
«Perdonami, Sherlock. »
E so che probabilmente quelle parole non gli arriveranno mai.
 
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Ci siamo.
Stamattina, mentre stava facendo la dialisi, come da un mese a questa parte, Sherlock si è sentito male. E’ svenuto e, mentre cercavo di svegliarlo, il suo cuore ha smesso di battere. Fortunatamente ero seduto accanto a lui e con un massaggio cardiaco sono riuscito a salvarlo, questa volta. Il dottor Patterson è corso subito a casa non appena ha ricevuto la mia chiamata e, senza tanti giri di parole, me lo ha detto: “Gli resta qualche ora, forse potrebbe arrivare a stasera. Mi dispiace.” Mi ha dato un colpetto sulla spalla e se n’è andato.
Sono rimasto inerme a fissare il pavimento, fuori dalla camera di Sherlock, non so per quanto.
So soltanto che quando Sherlock si sveglia, mi fanno male le gambe. Gli vado incontro e lui mi guarda con una consapevolezza così struggente negli occhi, che sento di non riuscire a respirare, schiacciato dal suo peso.
«E’ arrivato il momento, John. »
Sento un groppo salirmi in gola e le lacrime voler uscire prepotenti dai miei occhi, ma le fermo: non è ancora tempo per questo.
«Sì, Sherlock. »
«Ti mancherò dopo? »
Deglutisco. Non ho mai fatto tanta fatica per farlo.
«Per sempre, Sherlock. »
 
All’ora di pranzo passano Greg e Molly. Sherlock non vuole che lo vedano, così scendo per strada. Molly piange stretta a Greg, che le carezza la schiena, nel vano tentativo di consolarla; lui mi guarda da sopra la spalla di lei: cerca di mantenere un contegno, ma nei suoi leggo un profondo dispiacere- se sia più per Sherlock o per me, questo non so dirlo-.
«C-come sta? » mi domanda Molly.
Una richiesta piuttosto bizzarra, dato che Sherlock sta morendo, ma le rispondo comunque.
«Per il momento le sue condizioni sono stabili, però non durerà a lungo: il medico ha detto che, se siamo fortunati, potrebbe restargli ancora qualche ora, ma non penso che riuscirà a superare la notte. »
Molly riprende a singhiozzare. Greg abbassa il capo e sospira.
«Io non so cosa dire, John. “Mi dispiace” mi sembra troppo banale e-» si interrompe bruscamente.
Capisco che non è facile neanche per loro: lo conoscono entrambi da molti anni; Greg è suo amico e Molly lo ama. Siamo tutti sulla stessa barca, che purtroppo sta affondando.
«No, “mi dispiace” va bene, Greg » gli dico.
«Puoi salutare Sherlock da parte nostra? » chiede Molly, asciugandosi i rivoli di lacrime sul volto.
«Certo. »
Molly fa una smorfia, che probabilmente voleva essere un sorriso. Greg la prende sottobraccio, poi si volta verso di me.
«Se avrai bisogno di qualcosa, John, sai dove trovarci. »
Si allontanano, senza che io abbia neanche il tempo di rispondere.
 
 Passo il pomeriggio accanto a Sherlock, a parlare del tempo trascorso insieme, dal giorno in cui Mike Stamford ci ha fatto conoscere all’ultimo caso risolto insieme.
Mentre racconto, mi accorgo di non sapere se debba ringraziare o meno Mike e il tizio che mi ha sparato in Afghanistan: dopotutto, è anche colpa loro se adesso mi trovo al capezzale del mio migliore amico. Provo così tanta rabbia mentre parlo, che vorrei piangere, proprio lì, stretto a Sherlock.
A un tratto noto che non mi sta più ascoltando, così smetto di parlare.
«Sherlock, va tutto bene? »
«Puoi abbracciarmi, John? »
Lo guardo incredulo, non credo di aver sentito quello che ha detto.
«Che cosa? » mormoro.
«Mi abbracci? »
Annuisco. Mi tolgo le scarpe e, facendo attenzione a scostare i fili dei macchinari, sposto le coperte, entrando nel letto, proprio accanto a lui. Subito mi viene vicino come può, e io lo stringo a me più forte che posso, attento però a non fargli male. Comincio a carezzargli i riccioli neri e lo sento rilassarsi tra le mie braccia.
Il suo petto si alza e si abbassa lentamente, molto lentamente: nonostante sia attaccato alla bombola dell’ossigeno, fa fatica a respirare. Mentre lo osservo, penso che non mi aveva mai permesso prima di toccarlo per più di mezzo secondo, figuriamoci se mi avrebbe mai permesso di abbracciarlo! E sono sicuro che non lo avrebbe mai fatto se non fossimo arrivati a questo punto.
Una lacrima cade sui suoi capelli mentre cerco di fermare tutte le altre. E’ il mio Sherlock, non può star morendo davvero, non può.
 
E’ quasi ora di cena, quando qualcuno bussa alla porta. Con delicatezza, scosto Sherlock, adagiandolo sul cuscino; lui non protesta. Vado ad aprire e mi ritrovo davanti Mycroft con due signori anziani, che devono essere i genitori suoi e di Sherlock. La donna entra subito in casa, seguita dal marito, senza neanche chiedermi dove si trovi loro figlio. Mycroft si ferma di fronte a me.
«Ammetto che quando l’ho conosciuta avevo dei dubbi su di lei, John: temevo che potesse essere la rovina di mio fratello. Ma mi sbagliavo. Senza di lei Sherlock non sarebbe quello che è oggi, cioè una persona migliore rispetto a prima, a mio parere. Credo che alla fine lei sia stato la miglior cosa capitata nella vita di mio fratello, e né ora né mai io e la mia famiglia avremo mai modo di ringraziarla a sufficienza. »
Le parole di Mycroft mi stupiscono, perché leggo attraverso il suo tono che non sta mentendo né altro; lui mi sta davvero ringraziando, lui pensa davvero ciò che ha detto, e la cosa mi fa piacere. Tuttavia non riesco a dire niente, perché lui raggiunge i genitori al capezzale di Sherlock, mentre io rimango in soggiorno.
Dopo circa una mezz’ora, li vedo tornare tutti e tre e avviarsi verso la porta. La madre e il padre di Sherlock stanno singhiozzando, appoggiandosi l’uno all’altra per farsi forza; anche Mycroft mi sembra stravolto, e, prima di uscire, mi fa un cenno col capo.
Siamo di nuovo da soli, io e Sherlock, per l’ultima volta.
 
Torno in camera e vedo Sherlock piangere in silenzio. Subito, mi infilo nel letto accanto a lui, proprio come prima e lo stringo nuovamente a me.
«Fa paura, John » sussurra.
Io non so cosa fare, non so cosa dirgli, ma so di non poter rimanere in silenzio.
«Ci sono qua io, Sherlock. »
«Che cosa farai quando io non ci sarò più? »
Mi sembra di aver appena ricevuto un pugno nello stomaco. Non riesco a trattenere le lacrime.
«Non lo so, Sherlock. Non ci ho mai pensato. Perché avrei dovuto pensare a cosa fare senza te? Perché? »
Sherlock allunga lentamente la mano destra fino al suo viso e con un gesto scoordinato si toglie i tubicini dell’ossigeno.
«Sherlock, non-»
«Ormai non servono più a niente. »
Resto in silenzio. Ha ragione, anche stavolta ha ragione, sta morendo ma continua ad avere ragione! Vorrei urlare, soltanto urlare.
«John, c’è una cosa che dobbiamo fare prima che muoia. »
Mi sono dovuto avvicinare alla sua bocca per sentire le sue parole, tant’è flebile il suo tono.
«Che cosa? »
«Manca l’ottavo carme. Non lo abbiamo mai letto, alla fine. »
Con gli occhi indica il comodino; allungo il braccio e afferro il libro lì sopra. Sposto Sherlock accanto a me, facendo in modo di poterlo vedere con la coda dell’occhio anche da sopra le pagine dei Carmina. Poi apro il libro al carme LXXXV e leggo, il cuore in gola e il tono basso:
 
Odi et amo. quare id faciam, fortasse requiris?        Odio e amo. Come sia non so dire.
nescio, sed fieri sentio et excrucior.                          Ma tu mi vedi qui crocifisso al mio odio ed amore.3
                                                                                                  
Quando finisco di leggere, non riesco più a controllarmi e scoppio a piangere apertamente, e Sherlock con me. Lascio cadere il libro e lo stringo, più forte che posso, mentre sento che anche lui cerca di ricambiare, anche se è consapevole di non poterlo fare.
«Tu mi ami, John? » mi chiede tra i singhiozzi.
Io non riesco più a provare vergogna, non riesco più a mentire né a me stesso né a lui, né sento la necessità di continuare a farlo.
«Sì, Sherlock. Sì, ti amo. »
«Non voglio andarmene. »
«E io non voglio che tu mi lasci. »
Gli prendo il capo tra le mani e avvicinino il più possibile il mio volto al suo: voglio memorizzare ogni singolo particolare di lui, ogni vena, ogni screpolatura sulle labbra, ogni minima sfumatura degli occhi… tutto. Ho troppa paura di dimenticarlo e non voglio.
Sento i respiri sul mio viso farsi sempre più flebili, mentre avverto il suo corpo diventare più pesante.
«Resta qui, John. Non andartene, non andare via senza di me. »
Le sue palpebre si socchiudono e capisco che sta succedendo davvero.
«Non ti lascio da solo, Sherlock. Non ti lascio da solo. »
Lo bacio piano e sento che ricambia, compiendo uno sforzo immane.
Poi improvvisamente smette di muovere le labbra, allontana di pochissimo il volto e mi guarda.
Ricambio lo sguardo, finché le sue palpebre non scendono e i suoi si chiudono. Porto l’orecchio vicino alla sua bocca e non sento più niente, non lo sento più respirare.
Lo scuoto, lo chiamo, gli grido, ma lui non si sveglia.
Non so per quanto tempo continuo a chiamarlo e non mi rendo conto dell’arrivo di Mrs Hudson, che chiama subito un’ ambulanza.
So soltanto di non aver provato più niente dopo l’ultimo respiro di Sherlock, e mi sembra di essere morto con lui.
 
 
 


Cinque anni dopo


«Mary, esco! »
«Va bene! »
Mi immergo nel freddo londinese e salgo in macchina. Giusto il tempo di far scaldare un poco il motore e premo sull’acceleratore. Dopo una ventina di minuti, mi fermo e parcheggio. Scendo dall’auto e mi dirigo verso il cancello del cimitero. Entro dentro e le mie gambe vanno in automatico verso la tomba di Sherlock; mi inginocchio davanti a essa. Tolgo i fiori secchi e metto quelli nuovi: un mazzo di crisantemi bianchi. Non credo che in realtà a Sherlock importerebbe molto di avere dei fiori sulla sua tomba, ma Mary insiste affinché li metta perché pensa che rendano la cosa meno lugubre; io non ho ancora un’opinione a riguardo.
«Ciao, Sherlock » gli dico.
Come al solito non mi risponde. Non importa.
«Ti ho portato i fiori nuovi, visto? So che probabilmente non te ne frega niente, ma, come sai, Mary ci tiene e allora la faccio contenta. Avrei dovuto portarteli ieri, però mi ero dimentico di passarli a comprare e così… beh… insomma eccoli qui. »
Mi sistemo meglio con le ginocchia a terra.
«Senti, Sherlock, c’è una cosa di cui devo parlarti e non so onestamente da che parte cominciare- sposto lo sguardo in un'altra direzione, come se Sherlock potesse davvero vedermi- Anche questa avrei dovuto dirtela ieri, ma non me la sono sentita. »
Respiro profondamente, finché non mi decido a parlare.
«Io e Mary ci sposiamo. So che ritieni il matrimonio una cosa stupida, ma Mary è una brava ragazza e io… io… le voglio bene- stringo gli occhi e mi sembra di vedere Sherlock davanti a me che mi osserva- Provo un grande affetto per lei…»
«Non basta, John. »
«Lo so, ma non riesco ad amarla. »
«Perché? »
«Lo sai benissimo il perché. »
Riapro gli occhi e getto lo sguardo sulla lapide. Vengo qui tutti i giorni, ma ogni volta è come se fosse la prima; non penso che mi abituerò mai a tutto questo.
«Ma tanto alla fine lo farò comunque- sospiro- perché non ho altra scelta. Non più. »
Mi alzo, metto la mano in tasca e ne tiro fuori un piccolo biglietto. Come sempre, lo metto nascosto nel vaso dei fiori, al posto di quello vecchio, sporco e bagnato dall’acqua, ma prima di farlo lo bacio.
Dopodiché accarezzo la lapide in segno di saluto e mi allontano.
Mentre guido, ripenso al biglietto e a ciò che c’è scritto sopra:
 
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris?        Odio e amo. Come sia non so dire
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.                          Ma tu mi vedi qui crocifisso al mio odio ed amore.
 
 
Sempre quella poesia, soltanto quella, ché mi ricorda qual è il mio posto in questo mondo: legato a Sherlock Holmes, l’uomo che più ho odiato e amato in tutta la mia vita, la mia croce.
 
 
 
 
 




Note:

Per chiunque non conoscesse la sclerosi multipla, può trovare informazioni qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Sclerosi_multipla
 
1 citazione dalla bellissima “Alone on the water”.
2 questa traduzione appartiene a Nicola Gardini, insegnante di letteratura italiana e comparata all’Universita di Oxford.
3questa traduzione è forse la più famosa e la più bella, a mio parere, di questo carme; appartiene a Guido Ceronetti, poeta, filosofo, scrittore, giornalista e drammaturgo.
   
 
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