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Autore: Whity    28/07/2014    0 recensioni
Bill Kaulitz e Anis Ferchichi: due cantanti, due personaggi pubblici, due amanti che hanno smesso di nascondere la loro relazione anche ai rotocalchi.
Una coppia fortissima, bellissima, innamoratissima, issima.
Una sera, però, qualcosa non funziona.-
- Dai, Anis, sono appena tornato distrutto da Hamburg… non mi va… -.
A volte, in effetti, è solo questione di voglia.
Voglia di amare, essere amati, sorridere, gioire, godere. Ma anche vivere e lottare.
[Postata sul mio archivio dal 01.04.2010 al 08.06.2010]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Intermezzo Quarto – Parte Prima
Weg

You know you're my saving grace
You're everything I need and more
It's written all over you face
[…]
You're the only one that I want
Think I'm addicted to your light
I swore I'd never fall again
But this don't even feel like fallin'
Gravity can't forget
To pull me back to the ground again

[Halo – Beyoncé]



Tre fogli.
Erano solo tre dannatissimi fogli eppure pesavano quanto un macigno di cento tonnellate. Pesavano come tutte le verità scomode, in fondo.
Bill Kaulitz stava percorrendo il corridoio dell’ospedale a falcate nervose, incerto sul da farsi, senza sapere come comportarsi.
Tom, che lo aveva accompagnato, ne intercettò i passi e gli si affiancò, prima di prenderlo per un polso e strattonarlo sino a condurlo in un angolo appartato.
- Bill – cercò qualcosa da dire, non trovando però parole che fossero degne di essere spese in quel frangente.
Non ce n’erano.
Il moro cercò di divincolarsi, incapace di rimanere fermo.
Aveva bisogno di muoversi, di manifestare almeno in quel modo un’agitazione che lo stava uccidendo dall’interno.
Aveva bisogno di Anis, eppure era l’unica cosa che non avrebbe più potuto ottenere.
Tom sospirò, prima di prendergli il viso tra le mani.
- Bill – ne scandì il nome lentamente, cercando in quel modo di ottenere un’attenzione che il fratello continuava a rivolgere altrove.
Il moro si morse un labbro, prima di sospirare a sua volta.
- Mi lasci andare, Tomi? – la voce gli uscì flebile, esausta, un pigolio.
L’altro scosse il capo appena un poco.
- Prima mi ascolti un secondo? – il tono di voce del gemello portò Bill a sentirsi oltremodo in colpa – Perché lo so che dopo mi sfuggirai di nuovo come un pesce molto molto scivoloso – concluse con un sorriso amaro.
Il moro portò le proprie mani su quelle di Tom, sfiorandole e stringendole un poco.
Annuì.
- Qualsiasi cosa ci sia scritta su quei fogli, Bill – iniziò il biondo cercando l’ennesimo contatto con il gemello – Non è una condanna – la voce si alzò di un’ottava sulla prima parola.
Bill sospirò, cercando di staccarsi dalla presa del gemello.
- Bill! – Tom lo richiamò per l’ennesima volta – Non sei un condannato a morte, non devi pensarlo. Hai passato anni per lottare e farla ad un sacco di stronzi, non puoi smettere proprio ora, cazzo! – la voce del biondo si incrinò sino a diventare eccessivamente acuta.
Il moro annuì con un sospiro, prima di appoggiare la testa sulla spalla di Tom e passare le braccia attorno ai fianchi del gemello.
Cercando un contatto che sino a pochissimo prima aveva rifiutato.
- Andrà tutto bene -.
Le parole di Tom, però, non riuscirono a convincerlo come avevano sempre fatto.
Alles wird gut.
Ormai quella era solo una chimera. La stupida illusione di un sognatore.
Quando le mani del gemello presero ad accarezzargli la schiena, Bill riprese finalmente la parole.
- Anche se Anis mi lascia tu non mi abbandoni, vero? -.
Il gemello sorrise, prima di baciargli una tempia e strofinargli affettuosamente una mano sulla schiena.
- Non ti lascerà proprio nessuno, Bill, fertig -.
Ancora una volta, le parole di Tom non sortirono effetto alcuno.


Uscirono dall’ospedale dopo una decina di minuti, tempo che Bill aveva impiegato in bagno a rimettersi in sesto, anche se gli occhi leggermente gonfi – subito nascosti dai consueti occhialoni da sole – lasciavano poco spazio ad eventuali sforzi immaginativi.
Tom si mise alla guida senza parole superflue.
- Andiamo a far colazione, ok? – propose, prima di ingranare la prima e partire.
L’altro si abbandonò sul sedile.
- Non ne ho voglia – pigolò prima di voltarsi verso il finestrino e rivolgere la propria attenzione ad un palo della luce dipinto di fresco.
Il biondo strinse il volante sospirando.
Non era un buon modo di iniziare, non lo era per nulla.
Non lo era perché – di fondo – chi si trovava implicato non riusciva a vivere quella faccenda come nulla di diverso da una fine imminente.
Arrivarono in centro dopo una ventina di minuti, a causa anche di un traffico decisamente deleterio quando si rimaneva a corto di eventuali argomenti di conversazione.
Non c’era proprio nulla da dire relativamente a quella faccenda.
Tom riuscì a parcheggiare in una traversa di Karl-Liebknechtstraße, quindi scese dall’auto ed attese un paio di secondi il gemello facesse lo stesso.
- Bill – sospirò – hai intenzione di scendere entro il prossimo secolo? – chiese esasperato.
Non era passata nemmeno un’ora dal momento in cui avevano ritirato quel referto disgraziato e già non ne poteva sinceramente più.
Il moro si voltò nella sua direzione, prima di sbuffare.
- Ti avevo detto che non ne avevo voglia – pigolò, prima di tornare ad arricciarsi a dovere sul sedile.
- Ma io sì – intervenne Tom, pronto evidentemente a trascinarlo di peso nel primo Café disponibile – E in ogni caso devi fare colazione, klar? -.
Senza indugiare oltre Tom si allungò sul sedile del gemello, slacciò la cintura di sicurezza e lo afferrò per un polso strattonandolo sino a farlo scendere dalla vettura.
- Smettila! – sibilò, prima di spingerlo verso il marciapiede.
Bill non oppose altra resistenza.
Non disse proprio più nulla.


Alla fine Tom lo aveva trascinato da Starbucks, sperando forse che un po’ di sane schifezze americane lo riscuotessero in qualche modo. 
Niente da fare.
Si sentiva svuotato, non riusciva nemmeno a realizzare a pieno tutto quello che stava succedendo. Non ce la faceva, punkt.
Il gemello gli mise davanti una brodaglia marroncina che tentavano di spacciare per caffè ed una ciambella che avrebbe fatto la gioia di Omer Simpson. E indubbiamente anche quella del diabetologo di turno.
- Forza, mangia -.
Allungò la mano verso il bicchiere, quando il telefono prese a squillare.
- Non rispondi? – lo incalzò Tom.
Tirò l’apparecchio fuori dalla borsa, squittendo di stupore di fronte all’ID chiamante.
- Habibi – mormorò, prima di mordersi un labbro.
Non poteva lasciarlo suonare all’infinito e non poteva buttare giù la chiamata.
Anis si sarebbe accorto che c’era qualcosa che non andava. In entrambi i casi.
- Hallo? – pigolò, cercando di riacquistare un briciolo di verve – Certo, Anis. No… no.. va tutto bene… -.
Aveva captato qualcosa. Senza ombra di dubbio.
Tom gli rivolse un’occhiata, prima di decidere fosse meglio suo fratello ed Anis se la sbrigassero tra di loro. Lui, tutt’al più, poteva sostenere il gemello nel caso ce ne fosse stato bisogno, senza intromettersi.
- Sei in studio? – Bill incastrò il telefono tra l’orecchio e la spalla, prendendo a gesticolare in maniera buffa.
Sembrava sentisse la necessità di scaricare la tensione. Più plausibilmente, cercava semplicemente un modo per tenersi occupato.
- Ci vediamo stasera a casa, allora? – concluse, prima di mordersi il labbro – Perché dovrei parlarti di una cosa importante -.
Il moro concluse la telefonata qualche secondo dopo, prima di sospirare e prendersi la testa tra le mani.
- Che casino – sospirò – Che dannatissimo casino -.
Ancora una volta, Tom ritenne più saggio non dir nulla.


Il ritorno a casa fu più breve di quanto Bill non si aspettasse. Nonostante si fosse offerto di prendere la metropolitana in Alexanderplatz, infatti, il gemello aveva insistito per accompagnarlo sin sotto casa e si era persino trattenuto una mezz’ora durante la quale aveva giocato con il cagnolino e osservato mestamente il gemello deambulare per la casa come un essere vuoto.
Non sapeva cosa dire, cosa fare, come comportarsi.
Per la prima volta Bill si ritrovava a dover gestire una situazione spinosa completamente da solo. In ogni caso il suo cucciolo era cresciuto. Avrebbe saputo mostrare i denti all’occasione.
O almeno così credeva.
Aveva lasciato Bill dopo avergli fatto promettere che gli avrebbe telefonato in caso di bisogno.
Si era allontanato dall’appartamento del gemello con la paura che sembrava premere alla gola e – al contempo – la consapevolezza esistessero esperienze che andavano vissute senza l’appoggio di nessun altro che non fosse se stessi.
Il moro si sedette sul divano, sorridendo quando il cagnolino fulmineo gli saltò in grembo e prese a leccargli la faccia.
Gli carezzò l’ispida peluria sulla schiena.
- Tu sei troppo buono, Schatz – mormorò poi all’indirizzo della bestiola – Mi stai dedicando attenzioni che non merito proprio per nulla… - concluse con un sospiro, chiudendo gli occhi e strizzando leggermente le palpebre per impedire ad una lacrima furtiva di rigargli la guancia.
Deglutì rumorosamente, prima di alzarsi di scatto – facendo guaire la bestiola che si ritrovò a terra senza preavviso – e dirigersi verso il bagno.
Si arricciò sul bordo della vasca da bagno prima di stringersi le braccia al petto.
E ora?
Rimase così per un tempo indefinito, con la mente vuota da ogni pensiero.
- Schatz? – la voce di Anis lo fece destare di soprassalto.
L’uomo lo squadrò per qualche secondo, prima di avvicinarsi alla vasca e sfiorare le guance del compagno.
- Tutto bene? – chiese poi.
Il moro annuì, prima di alzarsi in piedi e sfiorare la guancia del tunisino con le labbra.
- Cosa ci facevi qua seduto? – indagò quindi questo ultimo.
L’altro non rispose, si limitò a prenderlo per mano e condurlo in salotto senza dire una parola.
- Ti devo parlare – esordì poi, mordendosi un labbro e sedendosi sul bracciolo del divano.
Anis gli si inginocchiò davanti, cercando di scrutarne il viso.
- Cosa è successo, Schatz? – lo interrogò con voce tesa.
Era preoccupato e non riusciva ad afferrare il contenuto di quanto stava succedendo.
Bill gli indicò la poltrona, prima di iniziare con voce sottile:
- Ti ricordi quell’incontro di lavoro? – esordì, prima di affrettarsi a specificare – Quello durante il quale sono capitato alla serata di Beatzarre… -.
Bushido annuì, senza realmente comprendere dove il compagno volesse andare a parare.
- Ti ricordi di Karl Buchner? L’amico di Cassandra… - aggiunse il moro, iniziando a torcersi penosamente le mani.
Il tunisino annuì nuovamente, mentre millemila ipotesi differenti – una più terrorizzante dell’altra – gli si materializzavano davanti agli occhi.
- Ero arrabbiato perché avevamo litigato, ho bevuto troppo e… -.
La prima cosa che avvertì fu un rumore di vetri infranti.
Aprì gli occhi solo per vedere i cocci di un vaso a terra.
- Cosa cazzo… - la voce di Anis era ridotta ad un sibilo.
Era la stessa rabbia che avrebbe provato una qualsiasi fiera impaurita.
Bill sospirò, cercando di mantenere la calma.
Tentando almeno di rimanere vagamente lucido.
- Non è questo il punto – mormorò, abbassando lo sguardo – Il problema è un altro, e ti capirei decidessi di non volermi più vedere. Avresti tutte le ragioni del mondo… -.
Il tunisino si alzò prima di strattonarlo per un polso.
- Cosa diamine è successo, eh? Cosa potrebbe ancora essere… -.
Non riuscì a continuare perché il compagno gli aveva messo una mano davanti alla bocca, in un’implicita preghiera di far silenzio.
- Karl è sieropositivo – sussurrò, prima di abbassare di nuovo lo sguardo – Ho fatto le analisi e anch… -.
Non riuscì a proseguire.
Il pugno che Anis gli aveva rifilato lo aveva letteralmente fatto crollare sul tappeto. Come un patetico sacco di patate.
- Mi fai schifo -.
Quelle tre parole furono le uniche che il tunisino pronunciò prima di voltarsi senza degnarlo di un altro sguardo e dirigersi verso il bagno.
Bill non si mosse da quella posizione. Rimase steso sul tappeto, tra i cocci, dove lacrime e sangue si mescolavano copiosi.
Rimase sospeso in una sorta di limbo, non si rese conto del tempo che passava, sino a che non sentì due braccia che lo sollevarono di peso.
Finché non sentì di nuovo il suo odore.
Senza una sola parola Anis lo depose sul letto, sul loro letto, prima di voltarsi e chiudere la porta della stanza.
Pochi secondi dopo sentì la porta dell’appartamento sbattere.
Era solo.
Lo era sul serio, da quel momento.


 
Intermezzo Quarto – Parte Seconda
Schaua dich um

Wenn du nach mir greifst,
Dann halt ich dich

[An deiner seite (Ich bin da) – Tokio Hotel]



L’ultima volta in cui si era ritrovato a fumare il Narghilé in quella bettola di Kreuzberg era stato quando la sua storia con Selina era finita. Curioso parallelo, in effetti…
Questa volta, in ogni caso, al suo fianco era spuntato Patrick, evidentemente avvertito da qualcuno che conosceva entrambi. Certe realtà erano esattamente identiche ai paesini di provincia, niente da fare.
- Che è successo, Atze? – la voce dell’amico lo riscosse lievemente dal torpore catatonico in cui era piombato.
Non trovò nulla di sufficientemente esaustivo con il quale rispondergli.
- Bill è un imbecille – si limitò a constatare.
Fler scrollò le spalle, prima di sedersi ed ordinare una birra.
Sarebbe stato un confronto lungo. Con ogni probabilità sarebbe stato pure parecchio penoso.
- Cosa è successo? – ripeté quindi Patrick, passandosi una mano sulla peluria ispida della nuca.
Anis sospirò, prima di allontanare il beccuccio del Narghilé dalle labbra e posarlo a lato del tavolo.
- Si è messo in un gran casino – constatò – E non mi ha detto niente. Un cazzo! – iniziò a berciare, la lingua evidentemente sciolta dal fumo – Come se stessimo insieme solo… -.
- Atze! – l’altro lo bloccò prima che potesse continuare, ingollando un sorso di birra subito dopo.
- Atze un cazzo! – sibilò l’altro – Io non ho passato anni con lui solo per scopare, diamine! -.
Gli occhi di Bushido – se possibile – si erano fatti più scuri.
Neri come il carbone, come un pozzo del quale non si scorgeva il fondo.
A conti fatti, Anis percepiva tutta quella faccenda alla stregua di un fallimento personale. Sentiva sulle proprie spalle il peso di anni passati accanto a qualcuno che alla fine gli aveva nascosto proprio quello. Che si era messo in pericolo, che si stava facendo del male, che stava gestendo una situazione di merda da solo, come se gli anni passati insieme contassero solo in maniera intermittente. Solo quando le cose andavano bene.
Prese la birra dell’amico con un gesto rapido e ne tracannò un sorso.
- Ok, la situazione è grave – mormorò tra sé Fler, prima di riprendersi il boccale e deciderne di svuotarne il resto del contenuto in un unico sorso. 
Ed erano solo le tre del pomeriggio…


Bill era rimasto su quel letto, senza muovere un solo muscolo.
Non riusciva a pensare, tantomeno a muoversi.
Tutto quello su cui riusciva a concentrarsi erano gli occhi scuri di Anis, le iridi di brace del compagno che lo fissavano sprezzanti, arrabbiate, deluse.
Avrebbe fatto le valigie.
Poco importava se l’appartamento era di entrambi: sua la colpa, sua la pena.
Avrebbe chiesto ospitalità a Tom. Si sarebbe rifugiato dal gemello e avrebbe aspettato quella cosa come un verdetto inappellabile.
In quel momento si sentiva alla stregua di un personaggio Kafkiano. Condannato ad una sorte già scritta, incapace di stravolgere le fila del proprio destino.
Il cucciolo era saltato sul letto e gli stava leccando una mano.
Sussultò, accarezzandogli la testolina senza nemmeno voltarsi.
Chi lo avrebbe tenuto? Lui o Anis?
Manco fossero stati una coppia in procinto di separarsi. O forse sì?
Non riuscì a frenare un singhiozzo.
Si rannicchiò maggiormente tra le lenzuola, chiudendo gli occhi.
Non voleva più sentire nulla.
Non gli importava proprio più.
Il telefono di casa aveva preso a squillare. Non si diede nemmeno la pena di rispondere, si limitò a sospirare prima di afferrare un lembo del cuscino e portarselo sul viso.
- Basta – mugolò, mentre l’apparecchio continuava a suonare ed il cagnolino, evidentemente infastidito dal rumore, aveva preso ad abbaiare.
Strizzò le palpebre, cercando di prendere sonno, di chiudere gli occhi almeno per un po’.
Di non sentire più nulla solo per un attimo.


La porta si chiuse. Bill sobbalzò nella stanza ormai in penombra.
Che ore erano? Si mosse a tentoni verso il comodino, quindi afferrò il proprio cellulare e scorse l’ora. Erano le otto di sera. Aveva dormito per quattro ore abbondanti, insomma.
- Dormivi? – la voce di Anis lo fece squittire comicamente.
Si voltò di scatto, senza sapere cosa dire.
Il tunisino si avvicinò, prima di sedersi al suo fianco.
Si stava torcendo le mani. Non glielo aveva quasi mai visto fare.
Era un buon segno?
- Possiamo parlare? – gli chiese quindi, passandogli una mano tra i capelli neri.
Bill annuì senza dire nulla. Non avrebbe saputo come esprimersi, in ogni caso.
Anis sospirò, prima di mordersi un labbro.
Era a disagio, probabilmente si sentiva preso in contropiede.
- Prima ho… ho esagerato – mormorò quindi, prendendo a scrutarlo e passando il dorso di una mano sullo zigomo leggermente escoriato dell’altro.
- Non perché non sia arrabbiato o cosa – si affrettò a proseguire - ma perché non è stato il modo giusto di affrontare questa cosa -.
Il moro sospirò per l’ennesima volta, prima di abbassare lo sguardo.
- Faccio le valigie, tranquillo – mormorò – Solo… posso tenere il cucciolo? -.
Il tunisino scosse il capo.
Non lo aveva ascoltato, o forse non si era nemmeno reso conto di quanto avesse detto.
- Bill – gli passò una mano sotto il mento, alzandolo – Guardami e ascoltami bene, mh? -.
L’interpellato annuì, gli occhi lucidi brillavano sotto la luce soffusa della lampada.
- Quello che è successo non si può cambiare – iniziò Anis – Ma possiamo andare avanti insieme, in ogni caso -.
L’altro si morse un labbro, gli occhi carichi di stupore.
- Non voglio che tu te ne vada, come non me ne andrò io – continuò il rapper – Affronteremo quello che succederà insieme, perché è questo ciò che fanno le coppie, klar? -.
Gli si avvicinò ulteriormente, arrivando a cingerne i fianchi.
- Domani andiamo a sentire un medico come si deve, va bene Schatz? – gli sussurrò poi contro l’orecchio, abbracciandolo non appena si rese conto del fatto avesse iniziato a piangere.
- Alles wird gut – mormorò, sorridendo leggermente non appena si rese conto che il compagno si era di nuovo assopito.
Il suo bambino.
Lo depose tra le lenzuola - esattamente come aveva fatto prima - e si diresse in salotto.
La spesa che aveva fatto prima di rientrare a casa era ancora quasi tutta lì, cibarie a parte che stazionavano in frigo. C’erano i Köfte, qualche caramella, del gelato, dei preservativi.
Un piccolo pezzo di quotidianità con la quale avrebbero dovuto imparare a convivere.
Si sedette sulla poltrona, sospirando.
Aveva passato buona parte del pomeriggio in un Café a Kreuzberg, fumando il narghilè e parlando con Fler.
L’amico lo aveva ascoltato berciare per un’ora piena prima di prendere la parola e metterlo davanti ad un paio di fatti che aveva finto di dimenticare – o molto più probabilmente si era rifiutato di prendere in considerazione -.
State insieme da anni, Atze.
Se è vero che non state insieme solo per scopare devi parlargli.
Dovete venire a capo di ‘sto casino insieme. 
Prendendo e andandotene hai fatto esattamente come lui, sei scappato dalla situazione.
Non sei un cacasotto, Atze. Non far finta di essere quello che non sei.
Vai da lui e parlagli. Digli quello che pensi, trovate una soluzione.
E smettila di tracannarti la mia birra!!!

Era uscito dal Café con tutta l’intenzione di tornare a casa e affrontare Bill. 
Sulla via del ritorno, però, aveva optato per una piccola deviazione e si era diretto al Ka.De.We, e poi in rosticceria.
Aveva tentato maldestramente di recuperare una quotidianità che voleva salvare a tutti i costi.


- Posso sedermi? – la voce di Bill lo riscosse dai suoi pensieri.
Si limitò a prenderlo per un polso e a farlo sedere direttamente sulle proprie gambe.
Vicino. Voleva sentirlo vicino.
Il moro gli sfiorò una guancia con le labbra, prima di rannicchiarglisi contro.
- Ho un po’ fame – constatò poi con un pigolio.
Il tunisino sorrise, carezzandogli la schiena.
- Ho preso i Kö:fte. E le caramelle sono nella borsa – constatò.
L’altro annuì senza volersi realmente staccare. Avrebbe potuto aspettare ancora un poco, dopotutto.
Il telefono di casa prese a suonare, il cagnolino iniziò ad abbaiare.
- Di nuovo –gemette il moro, prima di alzarsi per andare a rispondere.
- Hallo? – istintivamente si mosse verso il compagno – Ah… capito, Patrick. Comunque sì, sono vivo – un sorriso ironico gli si dipinse sulle labbra – No, Anis non mi ha trucidato. Niente delitto d’onore – si scansò quando il tunisino si avvicinò per rubargli il telefono da in mano – Certo, glielo dirò. Sicuramente… -.
Anis riuscì a strappargli il telefono di mano.
- Tu sei uno stronzo – constatò all’indirizzo dell’amico, mentre Bill se la rideva della grossa.
Un velo di serenità si era andato a posare su quella situazione assolutamente ingestibile, appannandone i contorni e addolcendone il retrogusto.
Mentre il tunisino continuava a borbottare in direzione dell’amico, Bill notò la sporta della spesa. Vi si avvicinò per prendere qualcosa da spiluccare mentre il compagno finiva di parlare con Patrick ma si bloccò alla vista di quello.
Quella scatolina grigia – quel dannatissimo affare! – ebbe il potere di annodargli lo stomaco e fargli venire le lacrime agli occhi.
Come si erano ridotti?! E tutto per colpa sua…
Deglutì a vuoto uscendo velocemente dalla stanza. Non ce l’avrebbero fatta. Sarebbero crollati prima. Sarebbe andato tutto a rotoli.
Le mani di Anis attorno ai suoi fianchi lo fecero sussultare.
- Con calma, ok? – sussurrò al suo orecchio – Affronteremo anche quella, un passo per volta – concluse prima di prenderlo per un polso e condurlo in cucina.
- Ora mangiamo, forza… -.
Il moro annuì, con un sospiro.
Un passo per volta, cercando di non inciampare, e forse ce l’avrebbero fatta.
Lui – in ogni caso – sentiva la testa ronzante di dubbi.


Note: qua una precisazione mi sembra d’obbligo.
Nonostante il capitolo (peraltro cortissimo), la vicenda non prenderà una bella piega. Sarà un continuum di alti e bassi, un Sali-scendi di giornate sì e giornate no, perché oltre alla terapia ci sono le controindicazioni del caso, gli esami, il supporto psicologico ed un’altra marea di sfumature che intuirete da sole, presumo.

 
Intermezzo Quarto - Parte Terza
Schweigen

Quando tutte le parole
sai che non ti servon più
quando sudi il tuo coraggio
per non startene laggiù
quando tiri in mezzo Dio,
o il destino o chissachè
che nessuno te lo spiega
perchè sia successo a te 

[Il giorno di dolore che uno ha - Luciano Ligabue]



Esistono abitudini che si costruiscono con un rapporto, che crescono con te e per te.
Vedere Anis cucinare era esattamente una di queste.
Era raro il tunisino si mettesse ai fornelli, ma le poche volte in cui lo faceva si trasformavano in cene memorabili, in vere e proprie feste che continuavano ben oltre la tavola.
Quella mattina, in ogni caso, Bill non si sarebbe mai aspettato di trovare il compagno a destreggiarsi tra piastre e caffettiere.
- Schatz! – lo accolse l’uomo con un sorriso – Ben svegliato! –gli indicò la tavola – Siediti! -.
Il moro si sedette incerto, e subito il compagno gli sporse una tazza di caffè nero bollente ed un piatto di cialde.
Ne prese una e ne mordicchiò un angolo, sospirando al gusto dolce della pasta. Erano proprio buone.
- Forza! – il tunisino prese una tazza di caffè, spense la piastra e si sedette a sua volta – Dopo così ti accompagno dal medico - concluse l’uomo.
Bingo.
Bill spinse indietro la tazza, voltandosi a squadrareiil compagno.
- Che medico, Anis? – chiese seccato.
All’improvviso, i conti sembravano tornare.
Quella non era una colazione fatta per amore, Scheiße! Era una specie di contentino, o un ricatto, o il Cielo solo sapeva cosa!
Il tunisino parve notare il cambiamento d’umore dell’altro ma finse di non darvi peso.
- Ho chiamato il dottore. Abbiamo un appuntamento alle dieci – rispose, prima di prendere un sorso di caffè.
In quel momento, tutto ciò che Bill riuscì a pensare fu “Che nervoso”.
Anis aveva già pensato a tutto, klar! Aveva pensato di poter prendere in mano la situazione come se si trattasse della propria vita, non di quella di qualcuno d’altro. Aveva deciso di interpellare un medico senza nemmeno prendere in considerazione il fatto lui non volesse saperne! Gli aveva appena dimostrato quanto poco contasse la sua opinione all’interno del loro rapporto.
Sospirò, cercando di contenere una reazione che altrimenti sarebbe parsa ridicolmente isterica.
- Che medico, Anis? – cercò di misurare le parole, di calibrare il tono di voce per non sembrare esasperato, incazzato, frustrato.
Per non dargli la soddisfazione di mostrarsi debole, vacillante.
Il tunisino poggiò la tazza, prima di alzare lo sguardo sul compagno e prendergli una mano.
Prenderla e stringerla.
- Il Dottor Bergmann è uno dei migliori medici di Berlino, Schatz – avvicinò la mano dell’altro alle labbra e la sfiorò con un bacio – Per tenon voglio nulla di diverso -.
In quel pronome personale era davvero racchiuso tutto. Amore, fedeltà, devozione, persino orgoglio.
La rabbia – in ogni caso – il più delle volte acceca anche se davanti si hanno le migliori intenzioni, i sentimenti più veri.
- E chi ti dice, Anis, che io abbia intenzione di farmi visitare da Chicchessia? – sputò fuori polemico Bill.
Il tunisino non mollò la presa sulla mano dell’altro, si limitò a stringerla con più forza.
Ed era calore e dolore insieme.
- Hai intenzione di continuare a piangerti addosso o vogliamo darci una mossa? -.
Era scorretto.
Aveva risposto ad una domanda con un’altra domanda.
Lo aveva messo con le spalle al muro con un pugno di parole.
Con uno scatto nervoso il moro fece per alzarsi ma non ci riuscì, la mano ancora stretta a quella del compagno.
- Lasciami – sibilò – lasciami la mano, Anis -.
Questi si alzò a propria volta per fronteggiare il compagno.
- No – mormorò lapidario, prima di passare la mano libera tra i capelli di Bill – No, Schatz -.
Un sussurrò, quasi un mormorio che però conteneva tutte le sfumature del mondo.
Possesso, Rabbia, Dolore, Amore.
Il tunisino si avvicinò ancora di un passo, prima di sfiorargli la radice del naso con le labbra e far scivolare la mano dal polso al fianco del compagno.
- Ascolta Bill – niente più Schatz, Prinzesschen, Habibi, Liebe. Le cose si facevano serie – Lo so che non ne puoi più di ospedali, visite, analisi. Questa volta però è diverso. Sentiamo cosa ci dice il dottore, cosa possiamo fare, poi se non ti piace cambiamo medico, anche città se vuoi. Però questo tentativo va fatto, klar? -.
L’altro si morse un labbro, prima di carezzargli la schiena ed allontanarsi verso la camera da letto.
- No, Anis. Tu non lo sai – concluse, prima di andarsi a cambiare.


Lo studio del Dottor Bergmann era poco distante dal centro, e benché questi ricevesse anche in ospedale la saletta era già stipata di pazienti alle nove e mezza del mattino.
Tutto quello che Bill avrebbe voluto fare, in ogni caso, era girare i tacchi ed andarsene.
Tornare a casa e mettersi a dormire.
La mano di Anis stretta alla propria, però, era un monito ed insieme una preghiera. Era un qualcosa che lo teneva inchiodato ad una situazione dalla quale voleva solo fuggire.
Una segretaria vestita di bianco – fastidiosa nel suo essere impeccabile e compita – uscì dallo studio con una cartellina in mano.
- Herr Ferchichi – chiamò.
Bill si voltò di scatto verso il compagno, che si limitò a scrollare le spalle.
- Per la reputazione che ho… - borbottò, prima di muoversi verso lo studio con la mano ancora stretta alla sua.
Non poté far altro che seguirlo.
Lo studio di Herr Bergmann era molto più grande di quanto non ci si sarebbe aspettato vedendo la palazzina dall’esterno. Era spazioso ed incredibilmente luminoso, nonostante le finestre fossero ben poco ampie e affacciassero su un cortile interno.
Il medico, un uomo dall’aria gioviale ed incredibilmente serena, si alzò per stringere loro la mano.
- Bene – mormorò poi, rivolgendo lo sguardo verso Anis – Vedo che è riuscito a venire con il signor Kaulitz – sorrise affabile, prima di indicar loro le poltrone – Prego, accomodatevi -.
Si sedettero e subito l’uomo tirò fuori una cartellina dove iniziò a compilare un foglio.
- Ha con lei le analisi, Herr Kaulitz? -.
Bill sussultò, prima di prendere una busta che Anis gli aveva cacciato in borsa poco prima partissero.
Prima di quel viaggio incredibilmente lungo e silenzioso.
Porse il referto al medico, che iniziò a trascrivere alcuni valori, prima di rivolgere l’attenzione al moro.
- Il contagio è abbastanza recente, giusto? -.
L’altro si morse un labbro.
- Circa due mesi – mormorò, torcendosi penosamente le mani.
Che situazione del cazzo.
Era al centro dell’attenzione quando avrebbe solo voluto rifugiarsi in un cono d’ombra.
Il medico alzò il viso stupito.
- Non ricorda la data precisa? -.
Bill sospirò.
- N-no… cioè sì, aspetti – fece per controllare sul blackberry, evidentemente a disagio, quando Anis lo precedette snocciolando la data precisa.
Sembrava se la fosse marchiata a fuoco nella mente. Forse era proprio così. 
Il medico annuì, annotandola e mormorando un 
- Capisco – 
che per qualche strano motivo gli sembrava insultante oltre ogni limite concepibile.
- Allora – iniziò l’uomo – passiamo ai dati concreti -.
Bill si morse un labbro e chiuse gli occhi.
Il calore di casa sua non gli era mai mancato così tanto…


Circa mezz’ora dopo Herr Bergmann si congedò dai due uomini, consegnando direttamente ad Anis – ad Anis! Bill Kaulitz non valeva nemmeno il disturbo di un paio di foglietti - un plico di ricette, il piano terapeutico, un paio di opuscoli ed un volumetto.
- Direttamente dalla conferenza di Vienna [1] – aveva sorriso, come se snocciolare conferenze potesse essere di una qualche utilità.
Non si poteva tornare indietro, non si poteva fare nulla di nulla.
I rimedi miracolosi non esistevano, fertig.
Uscirono dal palazzo in religioso silenzio, prima che la stretta di Anis sul suo polso lo facesse fermare.
- Bill? – il sospiro stanco del tunisino ebbe l’unico effetto di innervosire ulteriormente l’altro – Dici qualcosa, per favore? -.
Il moro si morse un labbro, limitandosi a deglutire a vuoto prima di voltarsi verso il tunisino.
- Ci fermiamo a mangiare qualcosa? Ho fame – mormorò, prima di riprendere a camminare.
Anis lo seguì, stringendogli la mano un altro poco.
- Forza – lo sentì mormorare – Ce la faremo -.
Vaffanculo.
Vaffanculo, Anis.
Non sei tu quello che sta male, tu non devi farcela a fare proprio un bel niente. 
Non sei tu quello che si è trovato catapultato nella fantasia di un pazzo.
Non sei tu quello che l’ha presa in culo due volte.
Non sei tu quello che Dio solo sa quanto ancora avrà da vivere.
Tu, tutt’al più, sei quello che dovrà fingere di sopportare questa merda sino al giorno…

Gli sfuggì un singhiozzo senza che nemmeno se ne rendesse pienamente conto.
Il compagno, in ogni caso, si era già voltato allarmato.
- Schatz – la mano di Anis sulla spalla sembrava bruciare.
Toglila toglila toglila.
Il moro deglutì, prima di sospirare e riprendere il controllo.
- Andiamo? – fu tutto quello che mormorò.
Di nuovo, Anis lo seguì con un sospiro.
Si fermarono in un piccolo bar dall’aria discretamente tranquilla, ordinarono e rimasero in attesa delle rispettive ordinazioni.
Il tutto nel più assoluto silenzio, quasi la tensione avesse tolto loro la voglia di parlare.
In pochi minuti il cameriere depose davanti a loro brioches e caffè, prima di congedarsi.
Bill iniziò a piluccare il proprio dolce, impiastricciandosi le mani di marmellata senza quasi rendersene conto. 
- Non hai più fame? – gli chiese Anis, prima di sfiorargli le labbra con un dito e togliere così qualche briciola di sfoglia.
L’altro si limito ad un 
- Mh –
prima di posare il dolce e iniziare a sorbire il caffè.
Era bollente, ma parve non curarsene.
Era come se non sentisse proprio più nulla.
Anis, dal canto suo, si limitò a bere un sorso di caffè, prima di posarlo e mettere le mani sulla cartellina che il medico gli aveva consegnato.
- Vediamo un po’… - aveva iniziato, nel tentativo di coinvolgere il compagno – qua ci sono i dosaggi e qua la terapia. – arricciò il naso, concentrandosi su un paragrafo scritto fitto – C’è anche scritto di fare sport, per irrobustire il fisico. Magari possiamo provare ad andare a correre… - buttò lì, aspettandosi una reazione oltraggiata da parte di chi odiava sudare.
- Come vuoi – fu la risposta che ottenne, mentre il moro finiva di mangiare il dolce e tornava al proprio caffè.
Calma, Anis. Calmati.
Sta male, è sconvolto, ha bisogno di te.
È un po’ come quando la Mama è stata male, sai che bisogna avere pazienza. 
O come quando Sercan aveva la febbre e piantava un sacco di grane.
Non perdere le staffe, non urlare, non prenderlo a schiaffi.
Non farlo, Anis. Non farlo.

Il tunisino si spostò di fianco al compagno, prima di alzargli repentinamente il volto e prendere a baciarlo con un trasporto persino rabbioso.
Dopo nemmeno mezzo minuto, Bill lo spinse via.
- Che fai? – sibilò – Sei pazzo?! -.
L’altro non si fece impressionare.
- Volevo vedere fino a che punto ti fossi incantato –.
In quel momento erano come due cavalli che – attaccati allo stesso carro – spingevano in direzioni opposte.
Non esisteva certezza alcuna relativamente a quando la corda si sarebbe spezzata, e alla parte che si sarebbe sfilacciata per prima. Una cosa però era sicura: il carro non si sarebbe mosso.

[1]: dal 19 al 23 luglio 2010, proprio a Vienna, si è svolto un ciclo di Conferenze a tema. [FONTE: Rfi.fr – http://bit.ly/9QKmkc ]


 
Intermezzo Quarto – Parte Terza 
Geschlossene Türen 


 
Alcuni hanno trovato alla fine il nemico, 
e non dovevano mica cercare lontano! 
Alcuni si chiedono di che cosa vivranno, 
alcuni si chiedono come, 
alcuni lo sanno. 
Alcuni sputano tutte le proprie sentenze, 
senza nemmeno averle masticate. 

[Taca Banda – Ligabue]



Erano appena le sei quando la stretta di Anis sulla propria spalla lo riscosse da un sonno che altrimenti avrebbe prolungato ancora almeno per un paio d’ore.
- Schatz – la voce dell’uomo gli giunse attutita a causa del leggero stordimento che precedeva il risveglio – Forza, alzati! -.
Bill si mosse leggermente, prima di affondare il viso nel cuscino e mugolare qualcosa di incomprensibile.
Il tunisino non demorse.
- Dai, è ora di scendere dal letto pigrone! -.
Dopo altri cinque minuti di tentativi – finalmente – il moro si volse con gli occhi ancora gonfi, per squadrarlo inviperito.
- Ma cosa diamine… - le parole gli morirono in gola non appena si rese conto che quello che Anis aveva indosso non era un pigiama, ma una tuta in acetato che era evidentemente sfuggita all’ultimo cambio d’armadio.
Anis si mise le mani sui fianchi, sorridendo leggermente prima di sollevarlo di peso e – dopo un bacio troppo leggere per essere veramente definito tale – metterlo in piedi.
- Forza, mettiti una tuta che usciamo! -.
Evidentemente quel Qualcuno lassù aveva deciso di punirlo per qualcosa del quale nemmeno ricordava l’esistenza.
- Ma cosa… -.
Il tunisino gli mise un dito davanti alla bocca, prima di indicargli nuovamente il capo d’abbigliamento.
- Forza! -.
Glielo avrebbe azzannato, quel diamine di dito!
Si vestì, continuando a squadrarlo torvo.
Che aveva in mente? Dove voleva trascinarlo conciato come uno spaventapasseri? Forse era meglio non chiederselo.

Che la giornata si stesse rivelando un incubo degno del miglior film horror dell’ultimo secolo, Bill lo comprese a pieno quando si ritrovò nel parco del quartiere.
- Visto che il medico ha detto che è il caso di aumentare l’esercizio fisico – esordì Anis, compito come un ridicolo cerimoniere – Ho deciso che possiamo provare con la corsa. Possiamo farlo insieme, poi avendo il parchetto a due passi è proprio comodo – iniziò a saltellare sul posto, prima di prenderlo per mano – Pronti? Si va! -.
Inizialmente Bill lo seguì per pura inerzia, ancora pieno di comico stupore.
Al terzo giro di corsa cercò di divincolarsi dalla presa del compagno, che però finse di non notarlo e decelerò semplicemente il passo.
Dieci minuti dopo, le proteste del moro iniziarono a farsi sentire.
- E lasciami! Cazzo, Anis! Ma che ti sei messo in testa!? -.
Il tunisino, un po’ per sfregio un po’ per nervoso, accelerò il passo continuando a tenerlo stretto per il polso.
Non erano nemmeno le sette e voleva già lasciarlo lì a lamentarsi.
All’ennesima protesta Anis lo strattonò prima di lasciargli la mano e voltarsi.
Quegli occhi di brace non gli erano mai sembrati tanto scuri.
- La smetti? – sibilò – Smettila di lamentarti e corri, Scheiße – concluse prima di riprendere a correre.
Lasciandolo indietro.
Il moro osservò torvo la sagoma del compagno muoversi, prima di guardarsi intorno alla ricerca di una panchina.
Si sedette, passandosi una mano sulla fronte e massaggiandosi le tempie.
Pretendere si mettesse a correre come uno dei tanti cretini appassionati di jogging era ridicolo. Lo era pensare di prepararlo alla maratona da un giorno all’altro. Era stupido e anche poco rispettoso ritenere fosse facile risolvere le cose con due saltelli tra gli alberi.
Sospirò.
Per certe cose non c’era soluzione alcuna, invece.
Tanto valeva tornare a casa, farsi una doccia e fare colazione.
In ufficio c’era qualcosa come una montagna di mail da smistare, millemila demo da catalogare e una decina di contratti da visionare. 
Si alzò in piedi con un sospiro, prima di voltarsi e dirigersi nuovamente verso l’appartamento.
Nemmeno uno sguardo al tunisino che – dal canto proprio – lo stava fissando da un paio di minuti, le labbra contratte e l’espressione tesa.


L’acqua della doccia era tiepida sulla sua pelle umida di sudore.
Prese il bagnoschiuma, maledicendo silenziosamente il fatto Bill lo mettesse sempre sul ripiano più alto costringendolo a saltelli in punta di piedi che un giorno o l’altro gli avrebbero fatto rischiare l’osso del collo.
Il compagno era uscito da poco quando lui era rientrato, lo testimoniava il caffè ancora caldo e l’odore forte del dopobarba che non aveva ancora abbandonato il bagno. 
Il suo tentativo di dare una svolta all’apatia di Bill era fallito. Il moro non sembrava intenzionato a mettersi sotto per cercare – quantomeno – di arginare i danni, probabilmente non gliene fregava proprio niente di rischiare di…
Scosse il capo, prima di insaponarsi le spalle indolenzite e sbuffare.
Meglio non pensarci. Pensare al peggio non era utile; non lo era quanto impegnarsi in maniera propositiva, almeno.
Magari avrebbe potuto tentare con la palestra, l’alimentazione, qualche passeggiata in più con il cane…
Perso com’era nei propri pensieri ci mise un paio di minuti a rendersi conto il proprio telefonino stesse squillando. Sbuffando chiuse i rubinetti.
- Hallo? – mormorò laconico, senza prendersi il disturbo di guardare chi avesse deciso di interrompere il suo bagno.
Dall’altro capo del telefono – manco a dire quanto il Destino si divertisse a prenderlo in giro – c’era Tom Kaulitz.
- Bill te l’ha detto, immagino – esordì l’ex chitarrista dei Tokio Hotel.
Le parole furono seguite dal suono inconfondibile della ghiera dell’accendino.
Non si prese nemmeno la briga di rispondergli.
- Lui è lì? – chiese, prima di incastrare il cellulare tra la spalla e l’orecchio e muoversi alla ricerca di un asciugamano con il quale asciugarsi.
Seguì una pausa lunga il tempo di una boccata.
- E’ appena arrivato – rispose poi – Ed era anche abbastanza incazzato. -.
Anis sbuffò, gettando l’asciugamano umido nella cesta dei panni da lavare.
- Tuo fratello si comporta come un poppante stupido, a volte, fertig – rispose con voce incolore poco dopo.
- Ricordati con chi parli -.
Il tunisino si diresse verso la camera da letto, sempre con il telefono incollato all’orecchio, e prese a vestirsi, optando infine per il vivavoce onde evitare contorsioni che – di certo – non avrebbero giovato alla sua schiena.
- Come… sì, insomma… come ci comportiamo? -.
Anis sorrise, quasi intenerito di fronte al repentino cambiamento di tono nella voce di Tom. 
Da mastino napoletano a mamma chioccia solo per amore di un poppante viziato. Del poppante che entrambi amavano più d’ogni altra cosa.
E per il quale avrebbero lottato, punkt.


Quella era almeno la ventesima mail di spam che eliminava, diamine!
Con uno sbadiglio stanco quanto stufo, Bill la eliminò e prese a leggere quella successiva.
Era di David.
Si prese il tempo di stupirsene – lavoravano per la stessa casa discografica e si vedevano praticamente ogni due per tre. Perché scrivergli quando poteva parlargli a quattr’occhi?! – prima di aprirla.
Lo stupore che gli aveva sfigurato il viso divenne ben presto un sorriso di fronte alla foto di una bimba bionda che stringeva un cagnolino di pezza. Ireine Jost – la piccola di casa Jost, la seconda figlia del produttore – invitava Bill Kaulitz ed il suo fidanzato al proprio compleanno.
Stava ancora osservando la foto della piccola quando un pensiero lo colse.
Lui non avrebbe mai avuto una famiglia. Anche non considerando la sua relazione con Anis – anche cancellandola con un colpo di spugna egoista e insensato – ora era davvero condannato a rimanere da solo. Tutto per una stronzata insensata, dettata dal nervoso, dalla rabbia e dal rancore. Tutto perché si era giocato la possibilità di essere felice anche in quel senso. 
Chiuse il laptop con un gesto nervoso – senza nemmeno spegnerlo – prima di alzarsi e dirigersi alla finestra. Si accese una Malboro e aspirò la prima boccata, cercando nella nicotina un effetto calmante che ormai percepiva a stento.
- Tutto bene, Billi? – la voce di Tom lo fece voltare di scatto.
Annuì stancamente, prima di prendere l’ennesima boccata.
- Ho un sacco di posta da smistare – borbottò annoiato – e i demo da sistemare. Vaffanculo a me che mi sono preso qualche giorno di vacanza di troppo – concluse spegnendo la cicca e ridirigendosi verso il portatile, ormai in stand-by.
Il gemello lo seguì con lo sguardo, prima di avvicinarsi con circospezione e sfiorargli una guancia con le labbra.
- Non era quello che volevo sapere, ma è stata una risposta esauriente lo stesso – mormorò, prima di sedersi davanti alla scrivania e squadrarlo con aria circospetta.
- Ho sentito Anis – buttò lì con fare casuale.
Bill rispose con un – Mh – fintamente indifferente, prima di tornare a dedicare la propria attenzione al computer.
Archiviò velocemente la mail di David e cestinò un altro poco di spam. Con un po’ di fortuna avrebbe finito per l’ora di pranzo.
- Billi? – la voce di Tom era un richiamo fastidioso, l’eco di una realtà che voleva disperatamente accantonare – Mi ascolti un attimo? -.
Il moro alzò il viso, prima di sospirare stancamente.
- Ho un sacco di lavoro arretrato, mail che fioccano come manco le stelle a San Lorenzo e altri tre demo in arrivo – mormorò prima di passarsi una mano dietro la nuca – Non possiamo parlarne a pranzo? -.
L’altro allungò un braccio e gli strinse la mano.
- Ho parlato con Anis – ripetè – E mi ha detto di stamattina -.
Bingo.
Ora erano in due a tentare di mettere il becco dove non avrebbero dovuto. Erano in due a pretendere cambiasse le proprie abitudini da un giorno all’altro, a pretendere di imporsi in quel modo ridicolo.
Strinse il pugno, inspirando rumorosamente.
- Stamattina – iniziò, cercando di non apparire troppo alterato – Anis ha tentato di mettersi in mezzo a questioni che non gli competono. Sono io che sto male, io! Non provate a mettervi nei miei panni! – con un ultimo sguardo torvo il moro prese il cappotto e la borsa, lasciando la stanza.
Tom non lo seguì. Non quella volta.
Bill era sconvolto, impaurito, aveva bisogno di calmarsi. Ecco.
La verità era che Bill era incazzato come una belva. Inferocito al punto da scambiare le intenzioni migliori del mondo in imposizioni coatte. Quella sequenza infinita di incomprensioni non avrebbe portato a nulla di buono, di sicuro.


Quando ormai era davanti all’uscita Bill si fermò un secondo, prima di tirare fuori il cellulare dalla tracolla e comporre un numero che conosceva a memoria da tempo immemore.
- Tu sei uno stronzo imbecille cretino apocalittico! – sibilò con astio – Dove cazzo sei?! -.
Dall’altro capo del telefono Anis si prese il tempo di digerire quell’accozzaglia di prosopopea da scaricatore di porto, prima di rispondere.
- In studio, Bill. È successo qualcosa? -.
La risposta che seguì non lo stupì poi così tanto.
- Aspettami, dobbiamo parlare? -.
In nemmeno venti minuti il moro lo aveva raggiunto.
Anis lo accolse alla porta con lo sguardo di chi – davvero – non sa più che dire o che fare.
- Si può sapere cosa… -.
Bill lo mise a tacere con un ceffone terribile. Uno di quelli che gli era scappato pochissime volte da che stavano insieme. Uno di quelli che gli tirava quando davvero non ne poteva più.
- Tu sei un uomo di merda – sibilò il moro, prima di voltarsi e scendere nuovamente le scale – Con me hai chiuso -.
Anis non ebbe nemmeno il tempo di metabolizzare quel pugno di parole che l’altro era già sparito.


 
Intermezzo Quarto - Parte Quinta
Lust vom Leben und Streben
 
Cause I'm not giving up
I'm not running away
There's nowhere left to hide
Cause I'm not going to chance
Change to suit your ways
I'd rather stand and fight

You feel your life gets turned around
You feel your world come crashing down

This is not my faith
This is not my faith
This is not the reason why I live my life

[Faith – Reamonn]



Quando era tornato a casa, Bill stava ancora armeggiando con valigie e borsoni.
Era talmente preso dalle proprie attività che non aveva sentito la porta chiudersi, né lo aveva visto avvicinarglisi.
Dopo la fuga di Bill - posto fosse ragionevole porre la questione in quei termini, visto e considerato il compagno non fosse ancora veramente scappato - era rimasto fermo un paio di minuti, come un coglione, per poi cedere al nervoso e correre verso casa, pestando sull'acceleratore della macchina come poche volte aveva fatto.
Bill era un cretino, un poppante viziato, un ragazzino stupido e egoista. 
Non capiva cosa si nascondeva davvero dietro un gesto d'amore, non percepiva l'essenza dell'affetto più grande del mondo nemmeno quando glielo sbattevi davanti agli occhi. 
Era cieco, anzi era accecato dalla rabbia e dal dolore.
Probabilmente, anche dalla paura.

Stava armeggiando con una cerniera che non si chiudeva, in quel momento, stava smanettando con un borsone troppo pieno per chiudersi. 
Sorrise, pensando succedesse ogni qual volta decidessero all'ultimo minuto di prendersi un week-end solo per loro, di partire con un cambio per macinare chilometri e dimenticare il grigiore della città, di ricordarsi come fosse bello perdersi dietro millemila stelle e amare quella più luminosa.
Si avvicinò ancora un poco, prima di schiarirsi la voce facendolo sobbalzare.
- Hai intenzione di romperla, quella cerniera? -.
Lo disse così, senza la minima acrimonia, con la voce stanca - esausta! - di chi sente di combattere una battaglia persa, eppure l'altro alzò lo sguardo giusto il tempo necessario a lanciargli un' occhiataccia.
- Non vedo come la cosa possa riguardarti - sibilò - Ora lasciami finire 'ste dannate valigie - concluse dando uno strappo secco alla chiusura che, come da copione, gli rimase in mano.
- Vaffanculo! - sibilò, prima di prendere il borsone e gettarlo a terra.
I vestiti si sparsero in terra, formando un disegno astratto sulle tinte dell'antracite.
Il moro iniziò a prenderli direttamente a calci, quasi manifestare il proprio nervoso contro dei pezzi di stoffa servisse effettivamente a qualcosa.
Era delirante.
Fu Anis a fermarlo, a bloccare quello sfogo inconsulto di rabbia.
Lo artigliò per un polso, cercando di fermarlo prima che facesse effettivamente qualche danno irreparabile.
- Datti una calmata – sibilò, ma l’altro parve non sentirlo.
Bill fece per divincolarsi, ma la stretta del compagno era salda. 
Era troppo forte perché potesse anche solo pensare di opporvisi.
- Calmati, cazzo! -.
Tutto inutile. Il moro era completamente fuori controllo, come una fiera impazzita che non sente, né tantomeno arriva a capire quanto gli viene detto. Era la rabbia e mandarlo del tutto fuori rotta, ma non solo. Era un marasma di emozioni, spesso anche contrastanti. Era rabbia, certo, ma anche nervoso, senso d’impotenza, rancore, disgusto nei confronti di se stesso, paura.
Paura di non farcela, di deluderlo, di non sopravvivere innanzitutto a se stesso.
Era quel terrore a spingerlo in avanti e – al contempo – a bloccarlo senza rimedio.
Cercò di spingere via Anis, di divincolarsi, arrivò persino a caricare una testata che però si scontrò con la granitica resistenza di un uomo che aveva sempre fatto a pugni con la vita stessa.
Lo schiaffo di Anis arrivò quando stava per caricare l’ennesimo pugno, la mano del tunisino contro la sua guancia come unica risposta ad una serie di gesti che – davvero – non aveva mai nemmeno ponderato.
Bill parve riscuotersi, l’espressione feroce di poco prima lasciò il posto allo stupore.
- Ti sei calmato, o dobbiamo affittare un ring per poter anche solo pensare di discutere civilmente? -.
La voce del tunisino gli giunse come attutita. Stava sentendo, ma non ascoltava con l’attenzione che avrebbe dovuto prestare alle parole del compagno.
Si limitò a strizzare un poco gli occhi, prima di caricare di nuovo.
Era un lottatore, Bill. Lo era sempre stato, e forse era anche per questo se ne fosse innamorato senza rimedio anni prima. Lottava, si imponeva con i denti e con le unghie, picchiava duro per il solo bisogno d’imporsi.
Peccato se lo ricordasse nel modo sbagliato.
Se da un lato, insomma, Anis era evidentemente ammirato per quella dimostrazione di forza insperata, dall’altro non sapeva più cosa fare affinché la situazione non degenerasse oltre il consentito.
Con un sospiro tentò l’ultima cosa gli fosse venuta in mente di tentare.
Giocare scorretto, insomma.
Afferrò il compagno per la vita, ignorando i calci i pugni i morsi. Lo prese e lo spinse sul letto, prima di arrivargli sopra e tentare di bloccargli i polsi sopra la testa.
Come quando facevano l’amore. Come quando si perdevano in quella danza fatta di potere di violenza e di voglia.
Bill sembrò fermarsi un istante per prender fiato, calmarsi, pensare al contrattacco.
Non si era nemmeno reso conto a pieno di quando – effettivamente – l’amore fosse diventato rancore, rabbia, cattiveria, violenza.
Anis ne captò lo sguardo. Posò la propria fronte su quella dell’altro – sperando comicamente di non ricevere una testata da manuale – per essere sicuro di incrociarne gli occhi. Sospirò.
- Ti calmi un pochettino, Bill? -.
Il tunisino era esausto. Lo dimostravano i suoi gesti, le sue parole, persino quegli occhi tanto scuri.
Eppure continuava a fronteggiarlo, a confrontarsi e scontrarsi con lui per un amore troppo grande al quale non sapeva rinunciare. Al quale non voleva rinunciare. Probabilmente era un egoista, ma non gliene importava neppure troppo.
- Lasciami – la voce di Bill era un sussurrò affannato, un pigolio stanco – Mi stai facendo male alle braccia. Per favore – calcò la voce sulle ultime due parole, come a voler confermare la bontà delle proprie intenzioni.
Le mani di Anis scivolarono sulla sua vita, il capo si spostò nell’incavo del collo dell’altro.
In quel momento sembravano una bellissima scultura moderna, una di quelle che si prendevano sempre il lusso di prendere in giro, quando erano invitati nel salotto di quella o quell’altra starletta sposata con l’ennesimo riccone. Sembravano legati, incastrati, una cosa sola. 
Forse era proprio vero l’amore costruisse nodi che nessuno avrebbe mai sciolto. Mai, proprio mai. 
- Ti sei calmato? – la voce di Anis riscosse Bill dall’ennesimo turbinio di pensieri nefasti, la mano del tunisino andò a cercare quella del compagno per stringerla.
Il moro si limitò ad annuire, cercando di soffocare un singhiozzo che l’altro percepì direttamente nel timpano. Alzò di un poco il viso e raccolse la lacrima che rigava la sua guancia direttamente con le labbra, suggendo un dispiacere che era anche il suo, cercando di confortarlo e trarne conforto a sua volta.
- Schatz – mormorò, prima di rotolare supino e trarlo a sé con una presa decisa – Ich bin da, Schatz. Immer – concluse prima di carezzarne la schiena.
L’altro si limitò a rannicchiarsi contro il suo petto e, dopo una decina di minuti, si addormentò ancora stretto in quella morsa fatta d’affetto.


Mentre il compagno dormiva, Anis si prese il disturbo di sistemare un po’ quel caos e di sfamare il cagnolino – testimone di una furia che poche volte li aveva colti con quell’intensità violenta -.
Si sedette sulla poltroncina della camera da letto, intenzionato a non abbandonare Bill nemmeno per un momento. Nemmeno nel sonno.
Con un sospiro si prese la testa tra le mani.
Che fare?
Cosa cazzo poteva fare a fronte di una furia del genere, di una crisi nervosa del genere!?
Forse aveva ragione Herr Bergmann. Forse dovevano rivolgersi all’Aidshilfe, forse dovevano sentire uno psicologo, forse…

Tutta quella spirale di dubbi e possibilità lo lasciava del tutto attonito, lo bloccava nell’incapacità di fare qualcosa di concreto. 
Si alzò di scatto, afferrando il telefono per digitare un mucchio di cifre che conosceva a memoria.
- Sercan? Hai da fare? -.
Dall’altra parte della linea giunse un mormorio stupito, prima che suo fratello riuscisse ad articolare una risposta concreta.
- No. Cioè… il solito qui in ufficio. Ma nulla di importante, ecco. – si prese un paio di secondi prima di porre quella domanda inevitabile – Che è successo, Anis? -.
Avrebbe potuto dirgli “Tutto” come rispondere “Niente”. La verità è che c’erano troppe sfumature in ballo perché potesse coglierle compiutamente. Lui per primo.
- No – si limitò a rispondere, per poi rettificare – Cioè sì… un casino, davvero un casino – concluse con un sospiro scontento.
Il fatto suo fratello si rapportasse a lui con quella franchezza in pochissime occasioni contribuì a far preoccupare Sercan ben oltre il consentito.
- Ma sei sicuro di stare bene? – chiese infatti, allarmato – Vuoi che ti raggiunga? -.
Anis colse un leggero movimento dalle parti del letto, quindi si affrettò a rispondere.
- Facciamo che ci vediamo in questi giorni per due chiacchiere – mormorò – Scusami ma ora devo proprio scappare -.
Concluse in fretta la chiamata, prima di alzarsi e dirigersi verso il letto.
- Ehi, Mäuschen – mormorò in direzione di Bill, che si stava svegliando – Ben svegliato -.
Gli passò una mano tra i capelli scuri, prima di stenderglisi accanto e cercare la sua mano.
L’altro mugugnò qualcosa, prima di voltarsi con lo sguardo ancora appannato e cercare i suoi occhi.
- Anis – iniziò tentennante come forse solo durante i primi appuntamenti – Io… cioè… noi – si passò una mano tra i capelli, sospirando rumorosamente.
- Detesto incartarmi con le parole – bofonchiò infine.
Il tunisino sorrise indulgente, prima di sfiorargli le labbra con le proprie.
- Mediti ancora la fuga? – mormorò, con un tono di voce a metà tra l’ansioso e il giocoso.
Il moro arrossì, prima di allungargli una gomitata.
- Antipatico – borbottò, prima di sospirare – Comunque no. Non credo, almeno. – si alzò un poco per riuscire a squadrarlo – Però non mi è piaciuto quello che hai fatto. Ti sei… - si morse un labbro, alla ricerca del termine più adatto - intromesso, ecco. E non mi hai nemmeno interpellato – concluse, prima di sciogliere la stretta alla mano dell’altro e mettersi a sedere.
Anis si sedette al suo fianco, spalla contro spalla.
- Intromettermi? – il tunisino era interdetto. 
Non ci aveva mai veramente pensato, non in quei termini. Si era limitato ad agire, cercando di fare del proprio meglio, in una direzione vagamente plausibile. Ma messa in quei termini…
- Forse non ho usato un termine felice, ma ti giuro che l’impressione stamattina era proprio quella. Io non contavo nulla… - Bill appoggiò il capo contro la testiera del letto, chiudendo gli occhi per un istante.
- Bill – iniziò Anis, con voce secca. Sembrava persino offeso. - A te sembra non importare nulla di quanto è successo. – si passò una mano sulla base della nuca, prima di sospirare e imporsi un minimo di calma – Hai fatto un casino, ti sei messo in un casino senza rimedio, e non vuoi uscirne – concluse, squadrandolo serio.
Il moro si voltò di scatto.
- Non c’è una via d’uscita Anis – sibilò secco – E’ inutile star qui a prenderci per il culo e… -.
Gli grandinò addosso l’ennesimo schiaffo.
Anis stava perdendo il controllo, facendo riaffiorare il lupo nascosto sotto il quarantenne imborghesito.
- Tu non sei morto, cazzo! – lo urlò, come si urla una bestemmia una preghiera un insulto – Non devi permetterti di pensarlo! Si può fare qualcosa, e io non ti permetterò di lasciarmi così, capito!? A costo di prenderti a calci in culo ogni santo giorno, tu… -.
La voce gli morì in gola.
- Non posso guarire Anis – la voce di Bill era flebile – Questo proprio non posso farlo -.
Si alzò dal letto, ma la mano di Anis era ancora stretta alla sua.
Il tunisino se lo spinse contro, prima di divorargli letteralmente le labbra.
Bill si ritrovò con la schiena contro il materasso, mentre il compagno lo sovrastava e riprendeva a baciarlo.
C’era qualcosa di istintivo e animale in un gesto del genere. Era possesso voglia disperazione amore paura. Un caleidoscopio di sentimenti, una valanga di emozioni tutte insieme, ingestibili eppure necessarie.
- Giurami che lotterai – un ansito che gli uscì dalle labbra ben prima che se ne rendesse conto.
Gli occhi di Bill incrociarono i suoi. Erano appannati dalla voglia dalla paura dall’amore.
- Giurami che non mi lasci da solo – mormorò, prima di baciarlo.
L’unica risposta che ricevette fu un gemito gruttuale ed un altro bacio.
Non era certo la prima volta facessero l’amore, ma per certi versi l’emozione era la stessa.
La paura la voglia il dolore ed un orgasmo rumoroso ed esausto.
A quella nuova intrusione Bill fremette per un istante, prima di cercare la mano di Anis e spingerla verso la propria pancia. Prima di chiedere una rassicurazione, una carezza, la conferma di un amore che in quel momento era tutto ciò che aveva.
Quando vide Anis sfilarsi il preservativo – quell’orribile palloncino viscido! – sentì una morsa al petto, ma il tunisino parve accorgersene e gli si gettò subito contro, prendendo a succhiare una stella che sembrava essere tornata a brillare.
Le cose non sarebbero tornate indietro. Non si sarebbero risolte. Il tempo e l’amore – quella volta – non avrebbero proprio potuto spazzare via niente.
Ma c’era la voglia.
Voglia di vivere e lottare.
Per ora, andava bene così.

 
Intermezzo Quarto – Parte sesta
Wir schweben zusammen
 
Wir stehen zusammen 
Wir gehen zusammen 
Zusammen bis in den Tod
Wir leben zusammen
Wir schweben zusammen
Zusammen bis in den Tod 

[Zusammen – LaFee]



La Vita è un’altalena. 
Ci sono momenti buoni in cui sorridere, correre, mangiare, dormire, fare l’amore, vivere. Ci sono momenti cattivi, di quelli in cui puoi solo stare a guardare la vita che scorre, mentre rimani insabbiato in un pantano che ti mette sempre più in difficoltà. E c’erano le crisi, i litigi, i ripensamenti, la paura. 
Cionondimeno erano tutte battute d’arresto perfettamente concepibili e – vivaddio! – superabili.
Il primo vero scoglio fu evidentemente lo psicologo.
Bill in quel frangente si comportò esattamente come avrebbe fatto uno dei suoi bassottini: aveva puntato i piedi ed aveva iniziato a ringhiare.
Non era matto. Stava benissimo. Non voleva parlare con nessuno, tantomeno con un estraneo che vedeva gente schizzata tutto il santo giorno.
- Non serve a nulla – aveva bofonchiato all’indirizzo di Anis, prima di chiudersi in bagno ed accendere lo stereo.
Il tunisino, in quei mesi, aveva sviluppato una stoica resistenza ai capricci del compagno.
Spesso si era ritrovato a riflettere sull’ironia di quella cosa chiamata vita. Non avrebbe potuto avere figli – aveva scelto di non averne – e si ritrovava un poppante capriccioso tra le braccia. Ingestibile. Spesso anche indigeribile. Un poppante con gli occhi d’oro al quale però non avrebbe mai saputo rinunciare.
Eppure andavano avanti, più o meno tentennanti.
Stringevano i denti di fronte ai morsi della vita e proseguivano lungo un cammino a volte dissestato.
Quel giorno – il giorno in cui Bill avrebbe dovuto incontrare per la prima volta Herr Lochman – Berlino si era svegliata sotto uno strato di nebbia densa, di quelle che ti costringono ad asciugarti il volto non appena giunto a destinazione. Far uscire il moro di casa – nemmeno a dirlo – era stata un’impresa non da poco. 
Anis si era sforzato di essere gentile, per poi risolversi ad urlare – evidentemente stufo di rimostranze senza senso – ed essere subito dopo costretto a riabbassare i toni. L’umore di Bill era un’altalena e non sempre era facile starvi dietro.
Però ci provava. Avrebbe continuato a farlo sinché avesse potuto.
- Schatz – si era ritrovato a mugolare Anis attraverso la porta del bagno - Dai, esci! Mi dispiace, non volevo urlarti addosso. Ho perso il controllo e… -.
Meno di un minuto dopo Bill era tra le sue braccia, alla ricerca di un calore e di un conforto dei quali si era sentito espropriare. Eppure Anis era sempre lì, per lui e con lui.
- Non voglio andarci – aveva mormorato, un singiozzo a deformare l’ultima parola – Non mi va propriodi mettermi a raccontare i fatti miei ad un estraneo che è lì solo per… -.
- Per fare il suo lavoro, Schatz – mormorò quindi il tunisino, prima di sciogliere l’abbraccio e guardarlo in viso – Si tratta di un uomo che si limita a fare il proprio lavoro, esattamente come me e te – gli strofinò un po’ le spalle, prima di sorridere un poco – E poi per un logorroico come te trovare qualcuno disposto ad ascoltarlo senza interromperlo dovrebbe essere un sogno… -.
Il moro gli diede un pugno – nemmeno troppo leggero – contro la spalla, prima di mugolare un
- Arsch – 
risentito.
Herr Lochman riceveva nel suo studio a Charlottemburg [1], giusto a pochi passi da casa. Vi si accedeva tramite una porta laccata di giallo, decisamente appariscente in mezzo a tutte quelle costruzioni intonacate di bianco o – al massimo – di beige.
A Bill, nemmeno a dirlo, quel dato fece ben poco piacere.
- Ma così mi vedono entrare – mugolò, sperando di riuscire a convincere il compagno a fare dietrofront sino a casa.
Questi, però, rimase fermo sulle proprie posizioni.
- Schatz, non hai proprio nulla di cui vergognarti – mormorò stringendogli la mano, cercando di trasmettergli calore e conforto.
Cercando di mantenersi calmo nonostante il nervoso che sentiva montare.
Entrarono nell’edificio e Anis lo spinse verso l’accettazione dove fu loro indicato il corridoio esatto in cui poter attendere il loro turno.
Herr Lochman era un uomo sulla quarantina, con i capelli scuri e gli occhiali. Rispondeva, insomma, allo stereotipo dello psicologo da sit-com. Anche questo a Bill non parve piacere.
Lo studio era luminoso, anche se relativamente poco ampio. Invece del classico lettino, l’uomo aveva optato per una comoda poltrona in pelle, con un poggiapiedi davanti.
- Buongiorno, Bill – sorrise l’uomo stringendogli la mano.
Tutto quello che il moro avrebbe voluto fare, a ben vedere, era scappare a gambe levate.
Si volse incerto verso la porta chiusa, la stessa che lo separava da Anis. Si volse verso l’ostacolo che lo divideva dall’unica persona con cui non si sentiva fuoriposto, inadeguato, stupido, sporco.
Sospirò. Tanto valeva togliersi quel fastidio.
Uscì dallo studio una quarantina di minuti dopo, con un mezzo sorriso sulle labbra e gli occhi leggermente arrossati. Cercò il compagno tra la gente seduta ad aspettare, e ne intercettò lo sguardo con un sorriso timido.
- Tutto bene? – Anis gli strofinò la schiena, prima di prendergli la mano e dirigersi nuovamente verso l’uscita.
- Più o meno – rispose l’altro – Era da un sacco di tempo non mi soffermassi su qualche particolare di troppo – concluse con una scrollata di spalle.
Subito dopo tirò il braccio del compagno, costringendolo a voltarsi.
- Non mi merito nemmeno un bacio? – gli soffiò sulle labbra.
Il tunisino sogghignò, prima di dargli un bacio leggero e scompigliargli i capelli.
- Veramente pensavo ad altro – il moro si voltò di corsa – Il tuo prossimo impegno è tra una decina di giorni, giusto? Io qualche giorno posso pure prendermelo… - continuò, sorridendo alla vista dell’espressione meravigliata del compagno – Ce la facciamo a preparare una valigia decente entro domattina? -.
Bill lo guardò sbalordito, prima di sorridere.
Uno di quei sorrisi che illuminavano una stanza.
- Dove andiamo? – gli chiese, attaccandosi al suo braccio come avrebbe fatto un bimbo.
Anis scrollò le spalle.
- Sorpresa… -.


Parigi era bellissima, a maggio.
Il caldo che benediceva Berlino solo in pieno agosto li accolse come una carezza ed una promessa insieme. Con gli alberi carichi di fiori e il cielo sempre azzurro, passarono una settimana perdendosi tra i millemila Boulevard e le stradine che si affacciavano sulle piazze, colorate da bancarelle d’ogni tipo. Sorrisero alla vista di quella torre che faceva l’invidia di mezza Europa, riuscendo a salirvi una sera, confondendosi tra millemila turisti troppo impegnati ad ammassarsi nell’ascensore per badare a loro.
- La facciamo a piedi? – propose Bill, stupendo il compagno che si concesse il lusso di osservarlo stupito.
Il moro scrollò le spalle, elusivo.
- Visto che un po’ di moto mi fa bene e non fa caldo… - concluse, prima di prendere l’altro per mano ed iniziare a salire i primi gradini – Poi se sono stanco ci fermiamo un secondo, no? -.
Sulla cima della Tour si persero in mezzo alla folla di turisti, e sorrisero davanti ad un cielo incredibilmente limpido e alla distesa di luci sotto di loro.
- Sembra di avere il mondo ai propri piedi – considerò Bill, stringendo la mano di Anis tra le proprie – Si sta bene, qui -.
Il tunisino sorrise, prima di stringere il compagno alla vita.
- Già – considerò solo, prima di mormorargli all’orecchio quelle tre parole – Je t’aime -.
Bill si voltò di scatto, evidentemente stupito.
Osservò il compagno con fare critico, prima di passargli le braccia dietro il collo e sorridere.
- Il tuo francese fa schifo quasi quanto il mio – considerò sornione, prima di avvicinare le labbra a quelle dell’altro e baciarlo – Ma ti amo tanto lo stesso – concluse staccandosi, mentre Anis rafforzava la stretta attorno ai suoi fianchi.
- Ingrato… -.


Il ritorno da Parigi equivalse ad un ritorno alla realtà, alla quotidianità, alla durezza di un’esistenza senza sconti.
Due giorni dopo il loro ritorno, Bill avrebbe dovuto sottoporsi alla visita specialistica dal virologo. 
La prima cosa che fece una volta in piedi fu osservare le nuvole cariche di pioggia. Mai come in quel momento Parigi gli sembrò così lontana.
Con un gesto svogliato si tolse due ciocche da davanti agli occhi, prima di voltarsi verso il letto e sorridere.
Anis dormiva ancora, coperto sino alla vita dal lenzuolo. Era un’immagine talmente bella che avrebbe voluto fotografarla per portarla sempre con sé.
Qualche secondo dopo, il suo blackberry aveva guadagnato un nuovo magnifico sfondo.
Quella volta sarebbe dovuto andare da solo in clinica.
Anis era impegnato nell’ennesima registrazione e Tom era pieno di lavoro sino al collo.
Per la prima volta da tempo si sarebbe ritrovato da solo di fronte ad un muro di incertezze e paure da affrontare e combattere. Non era morto, aveva ragione Anis. Non doveva permettersi di cadere nonostante le difficoltà che lo facevano vacillare. 
Non era da solo: aveva qualcuno con cui correre per i sentieri della vita.
Tornò a casa nel primo pomeriggio, stanco e triste.
Nonostante la visita fosse andata bene, nonostante i risultati più che buoni che stava ottenendo, tutto quello che riusciva a percepire era un peso al petto. Una stretta che lo prendeva alla gola. Posò la borsa nell’ingresso e si sfilò la giacca, prima di insaccarsi in una tuta ed arricciarsi sul divano.
La voglia di piangere premeva da qualche parte senza che riuscisse veramente a capirne il perché.
Anis rientrò verso le cinque, stanco e probabilmente scazzato.
Non appena lo vide, in ogni caso, gli si sedette accanto e lo reclamò a sé.
- La visita? – chiese con un sospiro, prima di passargli una mano sotto le palpebre.
Il moro sospirò, prima di arricciarsi contro il compagno e reclamare un bacio.
- Il medico è contento, i valori sono buoni… - iniziò, ma subito l’altro lo interruppe.
- Ma? -.
Bill si strinse nelle spalle.
- Boh oggi va così. Sarà che l’idea di farmi mettere un dito in culo non mi alletta particolarmente, sarà che ho visto un bambino entrare prima di me con la madre… - concluse, abbassando impercettibilmente lo sguardo.
Sotto le ciglia scure, tante piccole lacrime intrappolate premevano per uscire.
Anis rafforzò la stretta, prima di baciargli la fronte.
Quando sentì il primo singhiozzo strofinò la schiena del compagno e rimase in attesa questi si calmasse.
- Era così piccolo – balbettò Bill tra le lacrime – Avrà avuto sei anni appena ed era lì – un singhiozzò lo fece sussultare – Ed io come uno stronzo che non riuscivo a smettere di guardarlo e pensare a quante cazzate ci inventiamo per fingere di star male. Per essere compatiti. A quanto poco vale… -.
Anis lo fermò, poggiandogli un dito sulle labbra.
- Basta, Schatz – mormorò, prima di baciargli le palpebre – Non farti del male imputandoti colpe che non sono tue – concluse, sollevandolo di peso e sorridendo mentre percepiva le labbra dell’altro sul proprio collo.
- Bagno? – propose.
L’altro annuì distratto, troppo preso a lasciargli un succhiotto da manuale.

La vita è un’altalena.
Vai avanti, poi indietro, poi di nuovo avanti.
E se non riesci a spingerti da solo c’è sempre qualcuno alle tue spalle, pronto ad aiutarti.




[1]: Si tratta di un centro regolarmente esistente e attivo: il Zentrum Charlottenburg-Wilmersdorf, Hohenzollerndamm 174. La porta di accesso, peraltro, è realmente gialla. =)


 
 

 
   
 
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