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Autore: Fiamma Erin Gaunt    30/07/2014    2 recensioni
La Divina Artemide è stata rapita, le sue Cacciatrici la cercano da settimane, ma senza alcun risultato. Una nuova impresa richiede l’intervento di tre eroi:
Rico, figlio di Ares, è perseguitato da un incubo ricorrente;
Evan, figlio di Apollo, cerca in tutti i modi di interpretare una delle sue strane visioni;
Nieve, figlia di Afrodite, non riesce a togliersi di dosso la sensazione che accadrà qualcosa di tremendo.
*
Dal testo:
“Le tre A solcheranno i cieli
superando i sette veli
andranno alla ricerca della Divina Artemide,
con l’aiuto di un incredibile arciere,
dritti nelle terre algide
dove regna la signora delle bufere.
Guardati dall’amore, figlio di Ares,
che segnerà la tua sorte
portandoti alla morte.
Un piccolo monito giunge infine:
se vi separate per voi è la fine.”
[NB: Evan è un OC di proprietà di Rhaenys Morgenstern e Nieve di Osiris!]
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Artemide, Chione, Gli Dèi, Le Cacciatrici, Nuova generazione di Semidei
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Faceva freddo attorno a lui. La neve sotto il suo corpo si arrossava sempre più velocemente. Guardò in basso, osservando lo squarcio nella sua armatura, all’altezza del cuore, da cui sgorgavano fiotti di sangue.

Un attacco di tosse particolarmente violento lo scosse, facendogli sputare un po’ del sangue che gli si stava rapidamente addensando in gola.

Qualcosa di umido gli cadde sulle guance. Lacrime. Qualcuno gli teneva la testa sul suo grembo e piangeva.

Provò a voltarsi indietro, ma la vista si faceva via via sempre più appannata e gli era impossibile distinguere qualcosa più dei semplici contorni sfocati.

Una nuova boccata di sangue e la stanchezza prese il sopravvento, costringendolo a chiudere gli occhi per sempre.

 

 

 

Rico si alzò a sedere di scatto, la fronte madida di sudore freddo e le ciocche corvine che gli si erano appiccicate sopra. Timo̱ría, “Castigo” la sua spada di bronzo celeste, era appoggiata alla spalliera del letto e l’elsa intarsiata riluceva sinistramente. Si rilassò. Era al Campo, lontano dalla neve e dal gelo del suo sogno.

- Adesso ti fai spaventare da uno stupido incubo? Cos’hai, cinque anni? – borbottò a se stesso, alzandosi in piedi e stiracchiandosi pigramente come un gatto.

Il vantaggio di essere il capogruppo della Casa cinque era la stanza privata che gli permetteva di non doversi preoccupare di nascondersi per avere un minimo di privacy. Se i suoi fratelli l’avessero visto saltare giù dal letto, terrorizzato come un poppante, per una bazzecola del genere avrebbero sicuramente cominciato a mettere in dubbio il suo coraggio e il suo valore. E quello non poteva succedere … né ora né mai.

Per un attimo valutò l’ipotesi di parlarne con Evan, ma la scacciò con decisione. Il suo migliore amico aveva di certo di meglio da fare che mettersi a interpretare cose senza importanza.

In quell’incubo morivi. Credi che questa sia una cosa senza importanza?

Scacciò quella fastidiosa vocetta che gli mormorava nella testa. Non era proprio il momento di mettersi a combattere con la sua coscienza, o la voce del buonsenso come la chiamava Evan.

Si affacciò dalla finestra, notando che le prime luci dell’alba stavano illuminando il Campo Mezzosangue.

Indossò un paio di jeans e la maglia del campo, deciso ad allontanare i pensieri con un po’ di allenamento. Assicurò dietro le spalle il fodero di Timo̱ría e uscì dall’abitazione, stando attento a non svegliare il resto dei suoi fratelli, e puntò dritto verso l’Arena.

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

 

Evan si svegliò ripensando al sogno di poco prima. Una cerva d’argento imprigionata. Di solito le sue visioni erano di gran lunga più chiare di così, ma c’era stata qualcosa, una specie d’interferenza, che non gli aveva permesso di capire ciò che l’animale gli diceva.

Insomma, tutto quello era ridicolo. I cervi d’argento erano animali sacri e incredibilmente rari, d’accordo, ma era assolutamente certo che non fossero in grado di parlare.

Doveva esserci un altro significato, qualcosa che gli sfuggiva.

Forse Chirone sarebbe stato in grado di aiutarlo a interpretarla. Il direttore del Campo sembrava sapere sempre ogni cosa e lo aveva aiutato più di una volta con le sue visioni sconclusionate e iper incasinate. Tutto merito del suo genitore divino che gli aveva fatto quel “dono”.

- Grazie tante, pà. Avresti anche potuto mettercelo un libretto delle istruzioni. – borbottò, all’indirizzo di una delle imponenti statue dorate di Apollo.

- Lo sai che quella statua non ti risponderà, vero? –

Si voltò verso la finestra aperta, trovando Rico appoggiato al davanzale che lo osservava con il suo solito sorriso sghembo.

Ci mise un paio di secondi a realizzare il fatto che dovevano essere le otto di mattina e lui era già sveglio e, come se non bastasse, perfettamente vestito.

Doveva esserci qualcosa che non andava, perché quello non poteva essere lo stesso ragazzo che ogni mattina doveva essere letteralmente tirato giù dal letto e buttato sotto il getto della doccia. Mancava poco che dovesse essere addirittura vestito da qualcun altro perché riuscisse a uscire dalla Casa cinque e degnarsi di andare in mensa a fare colazione.

Gli puntò contro un dito, minacciosamente, e assottigliò lo sguardo. – Chi sei tu e cosa ne hai fatto del mio migliore amico? –

Il figlio di Ares scrollò le spalle. – Oh, andiamo, mi sono solo svegliato presto, sai che roba. –

- È una cosa troppo strana … di solito non scenderesti giù dal letto neanche se ci fosse un plotone di mostri che marcia contro di te. –

- Senti chi parla di stranezze, quello che parla con le statue. –

- No, sul serio, deve essere per un buon motivo. –

- Che stavi parlando con la riproduzione in oro di tuo padre? Te lo do io il motivo: sei pazzo. –

Era inutile. Avrebbero potuto continuare a beccarsi in quel modo per tutto il giorno, ma Rico non gli avrebbe mai detto cosa gli era successo. Perché a questo punto ne era assolutamente certo: c’era davvero qualcosa che non andava.

- Lasciamo perdere. –, si arrese, - Devo andare a parlare con Chirone prima di fare colazione. –

Gli occhi scuri del figlio di Ares si fecero improvvisamente più cupi, conditi da una lieve traccia d’apprensione. – Hai visto qualcosa di grave? –

 Gli occhi smeraldini di Evan si incupirono. – È proprio questo che mi preoccupa: non lo so. –

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

Quel giorno sarebbe successo qualcosa, Nieve se lo sentiva, qualcosa che avrebbe dato inizio a un problema. Era brava con le sensazioni, malgrado non possedesse il dono come Evan, e ricollegava questa sua capacità al cosiddetto “sesto senso femminile”.

Osservò il suo riflesso nell’immenso specchio che troneggiava sull’anta scorrevole del suo armadio. Le onde corvine le incorniciavano il volto pallido e perfetto, creando un contrasto meraviglioso con gli occhi azzurri.

Soddisfatta da ciò che vedeva, spruzzò un’ultima dose di profumo nell’incavo del collo e rivolse l’attenzione al resto della Casa dieci. I pochi ragazzi presenti erano intenti a passarsi di mano in mano un barattolo di quella che doveva essere cera per capelli, mentre le ragazze si stavano lentamente affollando sull’atrio dell’abitazione.

Dalle risatine civettuole, capì all’istante di chi doveva trattarsi. Ogni mattina lei ed Evan si recavano alla Casa cinque per aspettare Rico e andare in mensa insieme, ma quella mattina sembrava che i ruoli fossero stati invertiti.

Uscì giusto in tempo per vedere Danielle, una delle sorelle che sopportava meno, far tintinnare le unghie lunghe sul petto muscolo di Rico e produrre l’ennesima risatina fastidiosa. Il figlio di Ares, come sempre a proprio agio con i flirt, aveva un sorriso sghembo stampato sul volto e doveva aver sussurrato qualcosa di incredibilmente divertente perché Danielle rise ancora più forte.

- Danielle, tesoro, devi proprio starnazzare in quel modo già di prima mattina? – domandò, pungente, mentre la schiera di semidei si apriva per lasciarla passare.

Non aveva mai avuto molti amici tra di loro, ma la cosa non la disturbava affatto perché la sua filosofia di vita era meglio temuti che amati.

E lei lo era di certo, capace com’era di distruggere chiunque con un paio di parole pungenti, per non parlare poi del fatto che fosse una delle poche in grado di maneggiare come si doveva un’arma.

Inarcò un sopracciglio perfettamente curato, fulminando Rico con un’occhiataccia. – Allora, vogliamo andare? –

Prese sottobraccio entrambi i ragazzi, trasalendo impercettibilmente quando sfiorò la pelle dorata di Rico. Riecco quella brutta sensazione, che fosse collegata a lui?

Scacciò quei pensieri dalla sua mente. Era solo una sua opinione, niente di certo, e avrebbe fatto meglio a togliersela dalla testa il prima possibile. Decise quindi di  rimanere in silenzio, lasciandosi scortare verso la mensa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spazio autrice:

Duuuunque, inizio puntualizzando una cosa: i personaggi di Nieve e di Evan non mi appartengono, ma sono OC creati rispettivamente da Osiris e da Rhaenys Morgenstern per una storia interattiva (“Semidei alla Catastrofe” di Gil) che mi hanno gentilmente accordato il permesso di prenderli in prestito per sviluppare questa long. In secondo luogo, il titolo della storia è preso dalla serie Teen Wolf ed è il motto di famiglia degli Argent e significa letteralmente: “Cacciamo chi ci caccia” (ce lo vedevo bene visto che sono cacciatori e Artemide è la dea della caccia u.u). Detto questo, spero che questo primo capitolo (benché scandalosamente corto) vi sia piaciuto, vi abbia incuriosito e che vogliate lasciarmi una recensioncina per farmi sapere che ne pensate. Alla prossima.

Baci baci,

               Fiamma Erin Gaunt

  
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