Prologo
Faceva
freddo attorno a lui. La neve sotto il suo corpo si arrossava sempre
più
velocemente. Guardò in basso, osservando lo squarcio nella
sua armatura, all’altezza
del cuore, da cui sgorgavano fiotti di sangue.
Un
attacco di tosse particolarmente violento lo scosse, facendogli sputare
un po’
del sangue che gli si stava rapidamente addensando in gola.
Qualcosa
di umido gli cadde sulle guance. Lacrime. Qualcuno gli teneva la testa
sul suo
grembo e piangeva.
Provò
a voltarsi indietro, ma la vista si faceva via via sempre
più appannata e gli
era impossibile distinguere qualcosa più dei semplici
contorni sfocati.
Una
nuova boccata di sangue e la stanchezza prese il sopravvento,
costringendolo a
chiudere gli occhi per sempre.
Rico
si alzò a sedere di scatto, la fronte madida di
sudore freddo e le ciocche corvine che gli si erano appiccicate sopra.
Timo̱ría,
“Castigo” la sua spada di bronzo celeste, era
appoggiata alla spalliera del
letto e l’elsa intarsiata riluceva sinistramente. Si
rilassò. Era al Campo,
lontano dalla neve e dal gelo del suo sogno.
-
Adesso ti fai spaventare da uno stupido incubo?
Cos’hai, cinque anni? – borbottò a se
stesso, alzandosi in piedi e stiracchiandosi
pigramente come un gatto.
Il
vantaggio di essere il capogruppo della Casa
cinque era la stanza privata che gli permetteva di non doversi
preoccupare di
nascondersi per avere un minimo di privacy. Se i suoi fratelli
l’avessero visto
saltare giù dal letto, terrorizzato come un poppante, per
una bazzecola del
genere avrebbero sicuramente cominciato a mettere in dubbio il suo
coraggio e
il suo valore. E quello non poteva succedere … né
ora né mai.
Per
un attimo valutò l’ipotesi di parlarne con Evan,
ma la scacciò con decisione. Il suo migliore amico aveva di
certo di meglio da
fare che mettersi a interpretare cose senza importanza.
In
quell’incubo morivi. Credi che questa sia una cosa senza
importanza?
Scacciò
quella fastidiosa vocetta che gli mormorava
nella testa. Non era proprio il momento di mettersi a combattere con la
sua
coscienza, o la voce del buonsenso come la chiamava Evan.
Si
affacciò dalla finestra, notando che le prime
luci dell’alba stavano illuminando il Campo Mezzosangue.
Indossò un paio di jeans e la maglia del campo, deciso ad allontanare i pensieri con un po’ di allenamento. Assicurò dietro le spalle il fodero di Timo̱ría e uscì dall’abitazione, stando attento a non svegliare il resto dei suoi fratelli, e puntò dritto verso l’Arena.
*
Evan
si svegliò ripensando al sogno di poco prima.
Una cerva d’argento imprigionata. Di solito le sue visioni
erano di gran lunga
più chiare di così, ma c’era stata
qualcosa, una specie d’interferenza, che non
gli aveva permesso di capire ciò che l’animale gli
diceva.
Insomma,
tutto quello era ridicolo. I cervi d’argento
erano animali sacri e incredibilmente rari, d’accordo, ma era
assolutamente
certo che non fossero in grado di parlare.
Doveva
esserci un altro significato, qualcosa che
gli sfuggiva.
Forse
Chirone sarebbe stato in grado di aiutarlo a
interpretarla. Il direttore del Campo sembrava sapere sempre ogni cosa
e lo
aveva aiutato più di una volta con le sue visioni
sconclusionate e iper incasinate.
Tutto merito del suo genitore divino che gli aveva fatto quel
“dono”.
-
Grazie tante, pà. Avresti anche potuto mettercelo
un libretto delle istruzioni. – borbottò,
all’indirizzo di una delle imponenti
statue dorate di Apollo.
-
Lo sai che quella statua non ti risponderà, vero? –
Si
voltò verso la finestra aperta, trovando Rico
appoggiato al davanzale che lo osservava con il suo solito sorriso
sghembo.
Ci
mise un paio di secondi a realizzare il fatto che
dovevano essere le otto di mattina e lui era già sveglio e,
come se non
bastasse, perfettamente vestito.
Doveva
esserci qualcosa che non andava, perché quello
non poteva essere lo stesso ragazzo che ogni mattina doveva essere
letteralmente tirato giù dal letto e buttato sotto il getto
della doccia.
Mancava poco che dovesse essere addirittura vestito da qualcun altro
perché riuscisse
a uscire dalla Casa cinque e degnarsi di andare in mensa a fare
colazione.
Gli
puntò contro un dito, minacciosamente, e
assottigliò lo sguardo. – Chi sei tu e cosa ne hai
fatto del mio migliore
amico? –
Il
figlio di Ares scrollò le spalle. – Oh, andiamo,
mi sono solo svegliato presto, sai che roba. –
-
È una cosa troppo strana … di solito non
scenderesti giù dal letto neanche se ci fosse un plotone di
mostri che marcia
contro di te. –
-
Senti chi parla di stranezze, quello che parla con
le statue. –
-
No, sul serio, deve essere per un buon motivo. –
-
Che stavi parlando con la riproduzione in oro di
tuo padre? Te lo do io il motivo: sei pazzo. –
Era
inutile. Avrebbero potuto continuare a beccarsi
in quel modo per tutto il giorno, ma Rico non gli avrebbe mai detto
cosa gli
era successo. Perché a questo punto ne era assolutamente
certo: c’era davvero
qualcosa che non andava.
-
Lasciamo perdere. –, si arrese, - Devo andare a
parlare con Chirone prima di fare colazione. –
Gli
occhi scuri del figlio di Ares si fecero
improvvisamente più cupi, conditi da una lieve traccia
d’apprensione. – Hai
visto qualcosa di grave? –
Gli occhi
smeraldini di Evan si incupirono. – È proprio
questo che mi preoccupa: non lo
so. –
*
Quel
giorno sarebbe successo qualcosa, Nieve se lo
sentiva, qualcosa che avrebbe dato inizio a un problema. Era brava con
le
sensazioni, malgrado non possedesse il dono come Evan, e ricollegava
questa sua
capacità al cosiddetto “sesto senso
femminile”.
Osservò
il suo riflesso nell’immenso specchio che
troneggiava sull’anta scorrevole del suo armadio. Le onde
corvine le
incorniciavano il volto pallido e perfetto, creando un contrasto
meraviglioso
con gli occhi azzurri.
Soddisfatta
da ciò che vedeva, spruzzò un’ultima
dose di profumo nell’incavo del collo e rivolse
l’attenzione al resto della
Casa dieci. I pochi ragazzi presenti erano intenti a passarsi di mano
in mano
un barattolo di quella che doveva essere cera per capelli, mentre le
ragazze si
stavano lentamente affollando sull’atrio
dell’abitazione.
Dalle
risatine civettuole, capì all’istante di chi
doveva trattarsi. Ogni mattina lei ed Evan si recavano alla Casa cinque
per
aspettare Rico e andare in mensa insieme, ma quella mattina sembrava
che i
ruoli fossero stati invertiti.
Uscì
giusto in tempo per vedere Danielle, una delle sorelle
che sopportava meno, far tintinnare le unghie lunghe sul petto muscolo
di Rico
e produrre l’ennesima risatina fastidiosa. Il figlio di Ares,
come sempre a
proprio agio con i flirt, aveva un sorriso sghembo stampato sul volto e
doveva
aver sussurrato qualcosa di incredibilmente divertente
perché Danielle rise
ancora più forte.
-
Danielle, tesoro, devi proprio starnazzare in quel
modo già di prima mattina? – domandò,
pungente, mentre la schiera di semidei si
apriva per lasciarla passare.
Non
aveva mai avuto molti amici tra di loro, ma la
cosa non la disturbava affatto perché la sua filosofia di
vita era meglio
temuti che amati.
E
lei lo era di certo, capace com’era di distruggere
chiunque con un paio di parole pungenti, per non parlare poi del fatto
che
fosse una delle poche in grado di maneggiare come si doveva
un’arma.
Inarcò
un sopracciglio perfettamente curato,
fulminando Rico con un’occhiataccia. – Allora,
vogliamo andare? –
Prese
sottobraccio entrambi i ragazzi, trasalendo
impercettibilmente quando sfiorò la pelle dorata di Rico.
Riecco quella brutta
sensazione, che fosse collegata a lui?
Scacciò
quei pensieri dalla sua mente. Era solo una
sua opinione, niente di certo, e avrebbe fatto meglio a togliersela
dalla testa
il prima possibile. Decise quindi di
rimanere in silenzio, lasciandosi scortare verso la mensa.
Spazio
autrice:
Duuuunque,
inizio puntualizzando una cosa: i
personaggi di Nieve e di Evan non mi appartengono, ma sono OC creati
rispettivamente da Osiris e da Rhaenys Morgenstern per una storia
interattiva (“Semidei
alla Catastrofe” di Gil) che mi hanno gentilmente accordato
il permesso di
prenderli in prestito per sviluppare questa long. In secondo luogo, il
titolo
della storia è preso dalla serie Teen Wolf ed è
il motto di famiglia degli
Argent e significa letteralmente: “Cacciamo chi ci
caccia” (ce lo vedevo bene
visto che sono cacciatori e Artemide è la dea della caccia
u.u). Detto questo,
spero che questo primo capitolo (benché scandalosamente
corto) vi sia piaciuto,
vi abbia incuriosito e che vogliate lasciarmi una recensioncina per
farmi
sapere che ne pensate. Alla prossima.
Baci
baci,
Fiamma Erin Gaunt