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Autore: sheishardtohold    30/07/2014    4 recensioni
“Everyone thinks / that I have it all / but it’s so empty / living behind this castle walls” Regina barcolla lungo il cornicione del terrazzino. Un piede dietro l’altro – la testa si muove seguendo il ritmo delle braccia che oscillano nel vento. Non si sporge mai a guardare di sotto – tiene gli occhi chiusi.
Spinge fino all'estremo il suo corpo, sfida la sua magia. Crede che, mettendosi in una situazione di pericolo, tornerà a salvarla.
“Sembra una canzone molto triste” la voce di Robin alle sue spalle.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Regina Mills, Robin Hood
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Sara e Dani.
 
Castle walls

Regina si muove piano, scivola indietro. Le spalle alla porta. Muove la testa confusa, lascia scivolare lo sguardo. Prima su Emma. Poi su Robin – le sue braccia strette attorno al corpo di Marian e del piccolo Roland. Posa la mano sulla maniglia e un attimo dopo si ritrova sulle scale di Granny’s. L’aria fredda le accarezza il viso, mentre si incammina per la strada. Rigida, i movimenti composti. Cammina piano. Si muove meccanicamente.
“Regina” le urla dietro. Il suo cuore perde un battito. Chiude gli occhi e lascia che il groppo in gola svanisca.
“Regina” mai le chiede di fermarsi. Chiama solo il suo nome.
Regina aumenta il passo appena sente Robin dietro di lei. Si scioglie – le gambe, le braccia, il corpo. Corre, corre a perdifiato – i capelli sul viso, le lacrime che le annebbiano la vista, le gambe che cedono. Vorrebbe dirgli di stare alla larga, di smetterla di avvicinarsi – stargli attorno ora è troppo doloroso. Vorrebbe urlargli contro di andarsene, piangergli in faccia, chiedergli perché – perché, anziché essere stata la sua seconda opportunità, è stata solo la sua seconda scelta. Una ruota di scorta, ecco quello che era stata per lui. Un “meglio che niente”.
“No” esce leggero come un sospiro dalle labbra di Regina.
Robin le sta dietro, mentre rallenta il passo, stremata – stanca di correre, di scappare da tutti i suoi problemi. E ormai sono vicini. Regina lo sente – sente il suo respiro sul collo. Robin allunga la mano, tenta di afferrarle il braccio. Lei chiude gli occhi, si lascia sfuggire un respiro leggero prima di svanire dentro la sua nuvola viola. Robin resta immobile  – il pugno serrato a mezz’aria a stringere la sua assenza.
 
Regina emette un suono soffocato prima di cadere rovinosamente a terra. Resta immobile qualche secondo aspettando che la fitta alla testa passi. Tossisce, porta il peso del suo corpo sui gomiti e lentamente si alza tenendosi la testa tra le mani.
“Fantastico!” esclama sarcastica, mentre allontana il dito dal taglio sul sopracciglio. I capelli, la sabbia, l’acqua salata bruciano a contatto con la ferita. Regina strizza gli occhi irritata, poi si siede composta – le gambe incrociate, la schiena dritta. Tenendo gli occhi chiusi, apre il palmo della mano lasciandolo scivolare lungo la ferita. Niente.
Regina spalanca gli occhi – in faccia un’aria confusa. Riprova. Richiude gli occhi, cerca la concentrazione. Niente. Nemmeno un misero sbuffo viola.
“Davvero” esclama sarcastica ad alta voce. Si alza in piedi e cammina avanti indietro per la spiaggia imprecando apparentemente verso il nulla. Si passa freneticamente le mani tra i capelli, emette un paio di versi rabbiosi e si avvicina al castello di Henry – il piccolo parco giochi dove suo figlio amava rifugiarsi da bambino. Prende a calci la sabbia, lascia sassi nel mare, tira pugni alle travi di legno, finché non sente il polso cedere. Emette un gemito di dolore, aprendo istintivamente il palmo della mano per dar vita ad una palla di fuoco. Niente – nessuna fiamma, nessuna magia. Regina appoggia la testa su una trave e lascia uscire tutta la sua frustrazione, la sua rassegnazione in un soffio a fior di labbra. Chiude gli occhi e si lascia andare lungo lo scivolo. Volta la testa sul lato sinistro – le mani in grembo. Fissa il mare immenso e pensa che vorrebbe essere come lui – calmo, in pace con se stesso, piatto.
“Trova la pace , Regina. Trova la pace” si dice piano, mentre nella sua testa sta lì, ferma, immobile, l’immagine di Robin che stringe Marian tra le sue braccia – che le bacia la fronte, mentre le sue mani la cercano freneticamente.
Una lacrima si fa strada prepotente lungo la guancia di Regina che mente anche a se stessa, dando la colpa al vento per gli occhi lucidi. Come se qualcuno fosse lì a guardare, come se dovesse nascondere la sua debolezza, come se non fosse sicura neanche in sua compagnia. Si ritrova a piangere in silenzio senza nemmeno rendersene conto – come se i suoi occhi avessero una vita propria, come se quel mare e quelle onde alimentassero il suo pianto. Si accarezza le braccia, si stringe tra sé e sé. Trema. Sussulta.
Tenta di capire com’è successo, quand’è successo che ha perso la magia nera. Quella bianca non la prende neanche in considerazione - ha appena perso l’amore, come potrebbe usarla? Ma la magia nera era un’altra questione. Lei si fidava della sua magia – la sua magia era la sua rabbia, il suo coraggio, la sua forza. Era tutto quello che aveva. Era lei, la rappresentazione di Regina – la Regina Cattiva che, ormai, di cattivo non aveva più nulla. Neanche più la sua magia nera.
Regina si massaggia piano le tempie, lascia scivolare le mani sul viso. Stanca, si trascina fino al mare e si lascia trasportare dal flusso d’acqua caldo. Regina si sente pesante – fuori, per i vestiti bagnati, dentro, per quell’anima così nera, così piena di dolore da non riuscire più a trovare spazio per un’ombra di vendetta. Solo dolore – solo dolore.
I raggi del sole che sta sorgendo, le illuminano gli occhi. Anche lei, pensa, vorrebbe rinascere come il sole. Solo luce – bianca, pura, senza macchia.
Le sue mani fluttuano leggere dentro e fuori dall’acqua. Cerca di lasciare andare, Regina – qualsiasi sentimento lei non riesca a gestire, qualsiasi emozione lei non riesca a classificare, la perdita di un amore, la perdita della sua magia. Regina tenta solo di lasciare andare tutto.
Respira piano – conta uno ad uno i suoi respiri, mentre la camicia azzurra aderisce completamente al suo corpo, rallentandola nei movimenti. Sussurra a denti stretti una vecchia ninna nanna che cantava sempre ad Henry per farlo riaddormentare dopo un brutto sogno. Distratta, non si accorge della mano che lentamente si avvicina. Ed ora è lì, minacciosa, sulla sua gola, sulle sue braccia e la tiene stretta. E la spinge verso gli abissi. Regina lotta, scalcia per allontanarla. Tira pugni al nulla e, quando apre gli occhi, ormai è già sott’acqua a dimenarsi contro un volto che non vede, contro mani sconosciute – contro un’ombra.
“Marian?” sussulta, ingoiando abbastanza acqua da farla trasalire e svegliare da quell’incubo.
Regina tossisce, mentre, guidata dalle onde, esce dall’acqua. Stremata, cade a terra. Le gambe le cedono, schiacciate dal peso del suo corpo inzuppato. Si guarda attorno – lo sguardo ancora perso e la faccia sconvolta. Non c’è nessuno. Era solo un dannato incubo.
“Ne ho abbastanza” bisbiglia senza fiato, mentre racimola le ultime forze per alzarsi.
 
Chiude la porta di casa alle spalle. Allunga la mano verso il mobile, appoggia le chiavi e si lascia scivolare lungo la parete. Il telefono squilla. Regina non accenna il minimo movimento. Scatta la segreteria. È Henry.
“Mamma, è tipo la trentacinquesima chiamata da quando sei sparita, dov-” Regina cerca la cornetta accanto alle chiavi, sospira e poi risponde.
“Henry” dice piano, esausta.
“Mamma! Dov’eri sparita? È tutta la notte che chiamo, da quando.. quando..” da quando sei scappata – da quando ti sei letteralmente dileguata.
“Lo so” taglia corto Regina, per togliere dall’imbarazzo suo figlio e se stessa.
“Non hai risposto alla mia domanda, comunque” esclama Henry dopo un attimo di silenzio. Finalmente ha ricominciato a respirare e a fare pause tra una parola e l’altra.
“Henr-”
“Non importa, me lo racconti tra poco. Alle 9 colazione da Granny’s?” le chiede, ma ha già preso la decisione per entrambi. Regina lo sa che quando suo figlio le parla con quel tono le è impossibile dire di no.
“Va bene” e, ancora prima che possa salutarlo, lui le ha già mandato un bacio e ha messo giù.
Regina guarda l’orologio - le otto e venti. Considera per un attimo l’idea di strisciare fino al letto e abbandonarsi tra le lenzuola nere in raso. Poi si guarda, scruta il suo corpo - i vestiti ancora bagnati, i capelli appiccicati sulla fronte e il sale sulla pelle. Si alza in piedi e meccanicamente raggiunge il bagno. Trascina le gambe, si muove a passo lento. Apre l’acqua e si immerge sotto al getto caldo. Si accascia in un angolo della doccia e rimane lì una ventina di minuti, immobile. La mente completamente vuota. Chiude gli occhi, cede per un attimo al sonno. Quando finalmente trova il coraggio di abbandonare la sua posizione fetale, riflette la sua immagine allo specchio.
“Fantastico, faccio schifo!” esclama, muovendo la mano in un cenno di disgusto. Si avvicina alla grande cabina armadio che sta davanti al letto e muove le dita lungo gli appendini alla ricerca del vestito giusto. Li fa scorrere come le pagine di un libro tra le sue mani, poi pesca una camicia bianca senza maniche e una gonna nera a vita alta. Studia il suo profilo allo specchio, sistemando la gonna appena sopra al ginocchio, facendola aderire bene sui fianchi e poi si asciuga i capelli finendo col raccoglierli in una specie di chignon.
Seguendo i gesti quotidiani, si passa l’ombretto sugli occhi e il rossetto rosso, per mettere in risalto le labbra. Si guarda allo specchio nuovamente. Le sembra manchi qualcosa. Fruga in un cassetto tirandone fuori una collana col ciondolo nero. L’allaccia, lasciandola cadere sulla scollatura a sottolineare le sue forme. Sono già in ritardo, pensa, mentre esce di casa correndo. Ancora.
 
Non ci pensa neanche a quello che è successo la sera prima, finché non oltrepassa la porta di Granny’s e lo vede lì, seduto al tavolo accanto alla vetrina, insieme alla sua famiglia.
“Regina” urla Roland, scivolando lungo la panchina. Si lancia letteralmente addosso a lei, che si china per accoglierlo tra le sue braccia. Roland immerge il viso nell’incavo del collo di Regina aspirandone il profumo, mentre tiene le manine strette in pugni attorno al colletto della camicia.
“Ciao tesoro” gli bisbiglia all’orecchio, per poi allontanarlo leggermente per guardarlo negli occhi. Roland appoggia le manine sulle guance di Regina, schiacciandogliele. La sua bocca si apre in un candido sorriso, mentre scompiglia i capelli al bambino.
“Roland” una voce spaventata lo ammonisce, interrompendo il dolce momento. Marian lo afferra per la manica della t-shirt, tirandolo verso di sé, fino ad accoglierlo tra le sue braccia.  Marian guarda Regina, la guarda male. La Regina Cattiva. La sfascia famiglie. Non concepisce che, una persona come lei, possa tenere così tanto a qualcuno – a suo figlio, al suo uomo.
“Roland” Robin interviene cercando di placare la tensione tra le due donne. “Te l’ho detto mille volte che non si assalgono le persone, tesoro”. Robin allunga le mani verso Roland. Il bambino si tende verso di lui passando così dalle braccia di Marian a quelle del padre, che lo fa accomodare sulle sue gambe, porgendogli l’ultimo pezzo di brioche.
Quando Robin si volta verso Regina, lei esordisce con un “Robin, lady Marian” rivolgendo rispettivamente un sorriso a lui e uno a sua moglie. Si guarda attorno, in cerca di Henry e, prima di allontanarsi, muove delicatamente la mano aprendola e chiudendola per salutare il piccolo Roland.
“Regina” Robin tenta di richiamarla indietro invano. La voce di Henry sovrasta la sua, mentre Regina, ormai, gli dà le spalle.
“Mamma” Henry la tiene stretta, come per imitare Roland. Regina ricambia, lo stringe a sé, mentre in realtà si concentra sul mascherare il suo dolore. Deglutisce più volte a fatica, cerca di tenere sotto controllo il tremolio. Ora svengo a terra, pensa, mentre le sue mani premono sempre più forte contro la schiena di Henry.
“Mamma, così mi strozzi”
“Scusa, scusa, scusa” gli dà un bacio sulla testa, prendendo posto al tavolo.
“Stai bene?” le chiede Henry, facendo un cenno con la testa verso Robin.
Regina resta per un attimo in silenzio. Trattiene il fiato. Non adesso Regina, pensa, stampandosi in faccia un luminoso sorriso. “Certo, amore” alla fine gli risponde.
“Sei sicura? Insomma, mamma, non è normale stare.. bene, dopo.. quello che è successo..”
Anche Regina lo sapeva che non era normale stare bene col cuore spezzato – che non era normale stare bene dopo aver perso l’ultima possibilità di amare, dopo aver perso Robin senza neanche esserselo mai detti. Neanche un addio. Un “è finita” – qualcosa che non ti faccia sperare. Niente. La loro storia era stata come un buco nero – un attimo prima era un’intera galassia e, l’attimo dopo, niente. La scia di una cometa che si disperde nell’aria. Come se non fosse mai passata, come se non fosse mai accaduta. Ma il desiderio di quella stella cadente dov’era finito? Il desiderio di Regina dov’era ora? Perché non poteva mai avverarsi il suo desiderio? Perché non poteva essere felice? In fondo voleva solo quello – essere felice.
Regina non voleva piangersi addosso, non poteva in quel momento. Non davanti a suo figlio – non davanti a Robin.
“Ho detto che sto bene” Regina prende le mani di Henry tra le sue e gliele stringe, sorridendo.
“Okay, fingerò di crederti” le schiocca un bacio sulla guancia e si avvicina al bancone ad ordinare. “Pancakes?” le urla da lontano. Regina sorride e annuisce.
“Pancakes” ripete, voltandosi distrattamente verso Robin. Stringe tra le mani il divanetto rosso, conficcandone la pelle con le unghie. Robin la guarda, la fissa – i suoi occhi fissano quelli di Regina. È sicura che lui vorrebbe dirle qualcosa, lo vede. Vede come muove le labbra. Vede morirgli le parole in gola.
Regina smette di respirare, letteralmente. Rimane in apnea per qualche secondo, in attesa di neanche lei sa cosa.
“Mamma?” la voce di Henry richiama la sua attenzione. Regina si gira verso suo figlio, che le porge una tazza di caffè e un piatto con pancakes ricoperti di cioccolato. “Il caffè ha due zollette di zucchero, come piace a te” aggiunge Henry, mentre lei gli afferra la mano stringendola, posandogli un bacio sul dorso.
Tra un boccone e l’altro Henry comincia a parlarle della sua vita a New York, della scuola, dei suoi amici. Cerca di distrarre Regina, le chiede più volte se sta bene, le chiede se vuole uscire, andare in un altro posto. Regina per la maggior parte del tempo, non presta neanche attenzione. Risponde distratta alle domande di Henry, cerca di essere il più rassicurante possibile. Odia mostrarsi fragile, specialmente davanti a lui. Proprio ora che stava riuscendo a diventare buona – proprio ora che era riuscita finalmente a redimersi, che era sulla giusta strada. Non voleva che Henry vedesse quanto scuro era ancora il suo cuore, quando nero c’era ancora nella sua anima. Quanto odio, quanta rabbia – e dolore.
“Posso?” Henry chiede puntando la forchetta verso il piatto pasticciato dei pancakes di Regina. Lei, per tutta risposta, glielo allunga, abbozzando un sorriso. Praticamente non li ha neanche toccati. Ha passato il tempo a spezzettarli meticolosamente – a sentire la sua ansia, a sentirsi soffocare. Era la sua presenza – quella di Robin. Ne era sicura. La prendeva alla gola come se avesse davvero delle mani. Come se avesse una vita propria, e braccia possenti per strangolarla.
I pancakes erano stati solo una valvola di sfogo. Non aveva fame. Non aveva niente. Voleva dormire, quello sì. Perché era davvero esausta.
“Mamma” Henry le scrolla il braccio sul quale appoggia la testa. “Mamma?”
“Ci sono, scusa”
“Ho detto che son già le dieci passate. Emma mi aveva chiesto di tornare a casa presto. È un problema?” Henry studia l’espressione di Regina. Ha lo sguardo vagamente perso, la faccia di una che è appena stata ferita. Ha paura di aver detto la cosa sbagliata, di averle fatto male. Ha paura di averla screditata, di averle fatto capire che preferisce passare il suo tempo con Emma, rispetto a lei. E Regina lo capisce da come Henry la guarda e le stringe la mano.
“Oh, no, amore. Va bene” gli regala un altro dei suoi splendidi sorrisi per calmarlo. “Ti va se ti accompagno?”. Henry fa un cenno di assenso, per poi far scivolare la spalla sotto al braccio di Regina ed uscire fuori dal locale. Stringe al petto suo figlio, guardando avanti.
Non ti voltare, si ripete Regina. Non ti voltare. Cammina piano. È lenta – è cauta, come se stesse attenta a non posare il piede su una mina, a non fare il passo falso. Oltrepassa la soglia, lanciando andare un sospiro di sollievo. Alle sue spalle, ancora quegli occhi a bruciarle la pelle. Gli occhi di Robin, che la seguono ovunque – sulle scale di Granny’s, lungo le strade di Storybooke, tra le pareti di casa sua.
“Mamma” esclama Henry, richiamando nuovamente la sua attenzione. Regina abbassa gli occhi per incrociare quelli del figlio, che in realtà non fissano i suoi, ma quelli della donna bionda che sta di fronte a loro.
“Hey, ragazzino” esclama Emma da lontano. Regina apre la mano, lasciando scivolare quella di Henry fuori dalla sua. Suo figlio porta le braccia attorno alla vita di Emma, mentre la bionda gli posa un bacio sulla testa.
“Regina” alla fine Emma si rivolge a lei, accennano con la testa un saluto. Regina ricambia, col suo solito sorriso di circostanza, mentre Emma abbassa nuovamente lo sguardo su Henry.
“Andiamo?” gli domanda e lui annuisce con forza.
Regina posa la sua mano sulla spalla di Henry, per richiamare la sua attenzione. Lui si volta, la guarda, le regala un sorriso.
“Ti voglio bene” le sussurra all’orecchio, mentre lei si avvicina per baciargli la guancia. Regina gli stringe la mano con forza, per poi allentare la morsa man mano che Henry si allontana. Resta un po’ lì ad osservarli, mentre si voltano definitivamente, dandole le spalle. Poi si incammina anche lei verso casa. Sgattaiola furtiva per le strade della sua città – la città che un tempo aveva creato, la città dove avrebbe dovuto finalmente essere felice. Perché doveva nascondersi nella sua città? L’aveva creata lei. Era frutto di tutto ciò che aveva, di ogni sua speranza – di ogni suo desiderio. Quella città era sua, le apparteneva più di qualsiasi altra cosa. Invece Regina è lì, e corre. Con quel briciolo di forza che le resta in corpo, corre come una forsennata, come fosse perseguitata dal suo incubo peggiore. Corre con le gambe che tremano, coi capelli che si sciolgono dallo chignon e scomposti le cadono sulle spalle, col respiro affannato.
Entra in casa, sbatte rumorosamente la porta alle spalle e corre lungo la scalinata a chiocciola. Lascia il suo corpo cadere a peso morto sulle ginocchia – le mani a terra, salde, per sorreggerla. Rimette l’anima, tra le pareti fredde di quel bagno. Si pulisce l’angolo della bocca con il palmo di una mano. Si sdraia a terra – le mani in grembo, le gambe portate al petto, la guancia sinistra che poggia su una piastrella. Gli occhi chiusi.
Ricomincia a respirare regolarmente. 
  
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