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Autore: Helena Kanbara    02/08/2014    2 recensioni
Dal Prologo:
‘‘Ero nata e cresciuta ad Austin, ma non volevo più starci. Il Texas ormai mi andava stretto. Avevo sedici anni e tanta voglia di indipendenza. Se fossi stata fortunata, quella che stava per arrivare sarebbe stata la mia ultima estate laggiù.
Quello stesso inverno mi ero segnata volontaria per un corso di intercultura in California. Se solo qualche famiglia avesse deciso di adottarmi, sarei andata a stare lì per ben nove mesi. E mi sarei liberata almeno per un po’ di tempo della mia terra natale. Avrei frequentato il mio penultimo anno di liceo a Beacon Hills, una cittadina piccola e tranquilla.
[...]
A quel punto non potei far altro che chinarmi a raccogliere la lettera, aprendola in fretta e furia e leggendola con la curiosità che mi divorava. Fantastico. Una famiglia californiana aveva acconsentito ad ‘‘adottarmi’’ per nove mesi.
Gli Stilinski.’’
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sceriffo Stilinsky, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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19.  Resa dei conti.
 
 
Fu come se il tempo si fermasse all’improvviso ed io e Stiles finissimo, quasi senza nemmeno volerlo, in un vortice di buio silenzio e momentaneo smarrimento. Non importava, infatti, che la stragrande quantità di ragazzi attorno a noi fosse intenta a ballare a ritmo di musica – il tempo dei lenti era già finito, ahimè – dimenandosi sull’improvvisata pista da ballo senza notare affatto né noi due né la nostra immensa preoccupazione: intorno a me e Stiles c’era solo silenzio. E paura.
Fu con immensa calma che mi feci lontana dal suo corpo e cercai i suoi occhi, nell’attesa di una risposta che potesse tirarci fuori da quel baratro. Quello era il punto di non ritorno, lo sapevamo benissimo entrambi. La resa dei conti, la grande battaglia, il posizionamento dei tasselli più importanti del mosaico che – inutilmente – da mesi provavamo a costruire. Stiles ricambiò il mio sguardo, immobilizzato, e solo quando notò la mia espressione indecifrabile decise di parlare. Fu come ritornare a vivere.
«Dobbiamo andare da Jackson», stabilì, ed io annuii subito, consapevole che non ci fosse nient’altro di meglio da fare.
Certo che dovevamo andare da Jackson: dovevamo aiutarlo. Per quanto non fosse un nostro grandissimo amico o una persona che mai aveva dimostrato di meritare aiuto e compassione, di certo non meritava di morire per mano di un alpha sanguinario né di essere morso e trasformato in un licantropo. Non importava quanto Jackson lo volesse: sbagliava. Io e Stiles lo sapevamo bene: ecco perché, mano nella mano, ci avviammo a passo spedito verso l’uscita della palestra. Pronti a combattere una guerra molto più grande di noi. 
«Aspetta!», esclamai però ad un certo punto, stringendo la mano di Stiles quanto bastava ad arrestare anche la sua camminata. «E Lydia?».
Era incredibile come riuscissi a rimanere lucida e concentrata di fronte a certe situazioni e mi complimentai subito con me stessa. Ci trovavamo ad un passo dal portellone d’emergenza della palestra e la musica già arrivava ovattata alle nostre orecchie, segno del pacifico silenzio nel quale ci saremmo immersi una volta attraversata la porta. Stiles si fermò e si voltò a guardarmi con un’espressione vagamente sorpresa. Possibile che lui non avesse pensato a Lydia?
«Sta cercando Jackson», stabilì infine, prima di riafferrarmi la mano e prendere a camminare in direzione dell’uscita.
Sperai che avesse ragione, che la conoscesse abbastanza da riuscire a prevedere dove fosse finita la Martin quando s’era defilata perché io e Stiles potessimo ballare insieme. Lo sperai con tutte le mie forze mentre mi sentivo stanca e dolorante ogni minuto che passava un po’ di più. Continuai a pregare avesse ragione anche mentre le luci laser rosse di un paio di fucili mi riempivano gli occhi, Jackson si accasciava a terra implorando di ottenere un potere che era stato concesso – per un tragico scherzo del destino – solo a Scott, e Chris Argent spuntava dal buio del bosco col solito sorriso malefico in volto. Rabbrividii, sperando Stiles non se ne accorgesse. Non gli dissi nulla di quelle visioni fulminee né di ciò che sentii e vidi dopo. Semplicemente continuai a seguirlo, fuori dal mondo.
«Prometta che non gli farà del male», pregò Jackson, donando a Chris Argent uno sguardo vagamente spaurito.
Lui di tutta risposta si limitò a sorridergli accomodante, stringendo un po’ di più il braccio attorno alle sue spalle.
«Ma certo, è solo un ragazzo», lo rassicurò, mentre io mi sentivo morire.
Chris sapeva di Scott. Jackson gliel’aveva detto. Non Kate. Jackson.
«Che cosa gli farà?».
A quella domanda, scoppiai a piangere. Stupido. Ingenuo. Infantile. Lo volevo morto. Come lo sarebbe stato Scott alla fine di quella serata. Sempre se non avessi fatto qualcosa di pazzesco per impedirlo.
«Mi occuperò della cosa. Ora torna al ballo, Jackson. Sta’ con i tuoi amici, sii normale».
Jackson si limitò ad annuire. Quando Chris lo liberò dalla stretta sulle sue spalle, ci mancò poco che non prendesse a correre – spaventato – verso scuola. L’ultima cosa che vidi prima di tornare alla dolorosa realtà fu il sorriso soddisfatto di Chris. Stava vincendo lui.
Stiles si voltò a guardarmi solo allora e il mio viso pieno di lacrime lo costrinse a fermare la sua camminata ancora una volta. Eravamo finalmente giunti all’esterno della palestra ma eravamo fermi nell’immenso corridoio portante alle varie aule dell’istituto. Ancora mancava un po’ per poter raggiungere l’esterno. Provò a chiedermi qualcosa, mi strinse le mani sulle guance bagnate e cercò i miei occhi nell’attesa di una risposta. Lo ignorai, scombussolata come al solito, incapace di parlare. Come gliel’avrei detto?
Tutto riprese solo nel momento in cui vidi Jackson avanzare nella nostra direzione. Lui non ci aveva visti ma io lo individuai subito, traballante giù per l’anonimo corridoio della Beacon Hills High School, con lo sguardo chino tipico di chi è colpevole. Mi liberai dalla presa di Stiles con uno strattone e presi a correre – per quanto le decolletè me lo permettessero – nella direzione di Jackson. Lo schianto fu violento e, per lui, inaspettato. Gli arrivai addosso con una potenza che mai mi sarei aspettata di possedere, spintonandolo all’indietro con entrambe le mani premute sul suo petto. Jackson alzò gli occhi terrorizzati verso di me, solo per trovarmi furiosa e in lacrime di fronte a sé.
«Che cosa hai fatto?», urlai, avanzando nuovamente nella sua direzione mentre Jackson di conseguenza indietreggiava.
Stiles ci raggiunse quando fui quasi sul punto di avventarmi nuovamente su Jackson, bloccando la mia ira semplicemente afferrandomi entrambe le braccia e trattenendomi ferma. Mi dimenai per un po’ tra la sua stretta, almeno finché Stiles non mi disse: «Calma! Si può sapere che ti prende?».
Solo allora mi tranquillizzai, smettendo di agitarmi come un pesce fuor d’acqua. Jackson se ne stava di fronte a noi, a fissarci con gli occhi sgranati tipici di chi non ha idea di cosa stia succedendo sul serio. E davvero non lo sapeva. Non sapeva i guai in cui si era appena cacciato.
«Gli ha detto tutto», mormorai, così piano che a malapena mi udii.
Indicai Jackson con un gesto stanco e Stiles mosse gli occhi da lui a me, ripetutamente e confuso.
«A Chris», spiegai allora, nella speranza di fargli capire tutto. Ma Stiles continuava a lanciare occhiate stralunate da Jackson a me e ritorno, nemmeno stesse seguendo un’incomprensibile partita di tennis. «Di Scott».
Di nuovo cadde il silenzio e il tempo sembrò fermarsi un’altra volta ancora. Gli occhi azzurri di Jackson si sgranarono ancor di più mentre li puntava su di me, sorpreso. Se solo fossi già stata in grado di leggere la sua mente sono certa che ci avrei visto una domanda posta ripetutamente a chissà chi. Come fa lei a saperlo?
«Morirà», fu l’unica cosa che Stiles riuscì a dire, con lo sguardo perso nel vuoto.
Non potei far altro che annuire, sofferente.
«Dobbiamo portarlo via da qui».
«Una cosa alla volta», osservò Stiles, dandomi ragione.
Poi velocemente si voltò a fronteggiare Jackson.
«Dov’è Lydia?», gli domandò, e Whittemore non poté far altro che scrollare le spalle.
Era inutile.
«Riesci a vederla?».
Quella domanda mi lasciò spaesata solo per un attimo. Poi, in modo maturo, decisi di non perdere ulteriore tempo e provai a concentrarmi sulla figura di Lydia. Me la immaginai sola e spaventata, persa chissà dove. Strizzai gli occhi ancor di più, cercando di allontanare dalla mia mente l’immagine delle iridi chiare di Jackson puntate sulla mia figura. Non riusciva a capire ma sapeva, ormai, del mio essere… qualcosa.
Fu solo un flash, un miracolo. All’improvviso tutto sparì e nella mia testa ci fu solo Lydia, perfetta nel vestito in raso bianco, sola al centro del buio campo da lacrosse all’esterno della Beacon Hills High School. La voce le tremava mentre chiamava Jackson e per poco mi trattenni dal ringhiare. Tutta colpa sua, per l’ennesima volta. Ma qualsiasi mia imprecazione mi si mozzò in gola nel momento in cui la sagoma di Peter prese ad avanzare verso Lydia. E aprii gli occhi di scatto, terrorizzata.
«È al campo da lacrosse. Peter è lì», mormorai, col fiato corto e gli occhi sgranati. Afferrai un braccio di Stiles. «Devi correre da lei. D’accordo? Salvala».
Fu solo allora che mi presi del tempo per osservare attentamente il suo viso e ci vidi la sorpresa e la paura crescere drasticamente. Mi sentii male per lui mentre ricambiava debolmente la mia stretta e, dopo aver boccheggiato un po’ alla ricerca di parole, esordiva con un: «Non voglio lasciarti sola!».
Scossi la testa ripetutamente, cercando di farlo ragionare.
«Lydia morirà!».
Bastò che pronunciassi quelle due parole. Stiles sembrò immediatamente capire la gravità della situazione e l’espressione terrorizzata sul suo viso si pietrificò. Ancora una volta sentii il cuore stretto in una morsa. Per quanto poco fossero adeguati pensieri del genere in quel momento, capii come i sentimenti di Stiles per Lydia fossero così puri che mai sarebbero cambiati del tutto. Avrebbe sempre tenuto a lei e sofferto in caso fosse morta. Era giusto così.
Mi ripresi dal mio momento di tristezza acuta solo alle parole di Stiles, di fronte ai suoi ordini sussurrati di trovare Scott e portarlo in salvo. Di mettermi al sicuro. Annuii distratta mentre gli riservavo un’ultima occhiata appannata dalle lacrime, poi Stiles lasciò che la mia presa sul suo braccio si allentasse fino a sparire e fece per correre da Lydia.
Fu solo allora che ripresi a vivere, e ritornai cosciente sul serio. Sbattei le palpebre ripetutamente, ancora confusa da ciò che sul serio stava accadendo, e prima che potessi veramente rendermene conto avevo afferrato nuovamente il braccio di Stiles e fermato la sua corsa. Lui si voltò a guardarmi con un’espressione interrogativa in volto e per un attimo, sotto i suoi grandissimi e sorpresi occhi nocciola, mi posi la domanda che sapevo avrebbe voluto farmi lui. Perché l’ho fermato?
Trovai la risposta sulle labbra di Stiles. Semplicemente lo baciai così, d’impeto, proprio come avrei voluto fare fin troppe volte in quei due mesi. Presi quasi la rincorsa verso il suo viso, annullai la poca distanza che ancora ci divideva e mi godetti il momento proprio come se non ci fosse un domani. Assaporai le sue labbra, perché lo volevo disperatamente e perché finalmente ero riuscita a spegnere il cervello e seguire l’istinto. Mai niente eguaglierà la sensazione delle labbra di Stiles sulle mie, il sentirlo cauto e sorpreso contro di me pochi secondi prima che reagisse d’impeto anche lui, ricambiando il mio bacio. 
«Va’…», fu l’unica cosa che sussurrai quando infine mi feci lontana dalle sue labbra, col fiato corto e le mani che senza nemmeno accorgermene avevo fatto correre fin sul collo di Stiles.
Gli indicai con un cenno del capo la direzione verso la quale aveva fatto per avviarsi prima che lo fermassi e così facendo, senza volerlo, il mio naso sfiorò il suo e fu letteralmente la cosa più dolce dell’intero pianeta. Me ne resi conto solo molto tempo dopo, ma in tutti quegli attimi Stiles non distolse mai gli occhi dai miei. Passarono altri minuti prima che si decidesse ad annuire, segnalandomi che avesse capito. Poi semplicemente sfiorò le mie labbra ancora una volta e si fece lontano da me così velocemente che mi sentii inspiegabilmente e dolorosamente vuota.
Lo osservai mentre correva da Lydia, per salvarla com’era giusto che fosse, prendendo nuovamente coscienza di Jackson accanto a me e chiedendomi cos’avesse pensato nel vedere me e Stiles poco prima. Poi mi portai due dita alle labbra e finalmente realizzai sul serio cosa fosse successo. L’avevo baciato. Io.
 
I know I’d better stop trying, you know that there’s no denying:
I won’t show mercy on you, now.
I know I should stop believing, I know that there’s no retrieving:
it’s over, now. What have you done?
 
Per quanto mi sarebbe piaciuto poter scappare da tutto quel disastro per rifugiarmi a casa e passare l’intera notte a pensare al mio primo bacio con Stiles, capii fin da subito che non ne avrei avuto occasione. Comportarmi più o meno come avevo fatto solo due mesi prima, su per giù, quando dopo il mio primo vero appuntamento con Ryan ero riuscita a baciarlo, non mi sarebbe stato permesso. Dovevo continuare a combattere, correre e pregare. Cercare Scott, trovarlo e trascinarlo via da scuola prima che fosse troppo tardi. Ma McCall era introvabile e io come al solito in ritardo.
Quando lo individuai nel parcheggio degli scuolabus insieme ad Allison, infatti, non potei muovere mezzo passo nella loro direzione prima che due auto mi tagliassero la strada sgommando violentemente sull’asfalto. Capii subito cosa stesse succedendo, anche perché niente mi avrebbe mai tolto dalla mente il SUV rosso sangue di Chris Argent e l’espressione vittoriosa che gli si dipinse sul volto quando Scott fu intrappolato tra due scuolabus, la sua auto e quella di un altro cacciatore suo amico. Quella era la fine, ed io non potevo far altro che starmene a guardare col viso bagnato dalle lacrime e una mano premuta sulle labbra.
In quei pochi tipici attimi di calma prima della tempesta mi limitai ad alternare sguardi da Chris a Scott e Allison. Inutile dire che entrambi tradissero confusione ma se Allison proprio non riusciva a spiegarsi cosa stesse succedendo, i dubbi di Scott ormai continuavano a scemare sempre più. Finché non scomparirono del tutto e i due cacciatori premettero il piede sull’acceleratore con violenza. Non potei far altro che sobbalzare, capendo come avessero intenzione di agire. Così, dinanzi agli occhi di un’ignara Allison.
Smisi di temere per l’incolumità di Scott dopo un attimo, esattamente nel momento in cui lo vidi balzare in piedi sulle due auto ed Allison si scopriva le labbra, sgranando gli occhi. Com’era possibile che Scott si fosse salvato con una mossa del genere? Un’agilità così non era certo tipica di un umano. Potevo leggere milioni di domande di quel tipo sul suo viso dalla pelle chiara, proprio come vidi la paura prenderne il possesso nel momento in cui Scott – o meglio, ciò che diventava da trasformato – alzò il viso verso di lei al rallentatore, mostrandole un paio di brillanti occhi gialli e un animalesco viso distorto. 
Fu allora che corsi via, lontana da quel doloroso momento di stallo, poco prima che Scott decidesse di imitarmi. Mi sfilai le decolletè, incurante di poter rovinare i collant sfregandoli sull’asfalto e corsi più veloce che potei verso nemmeno io sapevo dove, coi piedi doloranti e il cuore distrutto tipico di chi non è riuscito a fare nulla per salvare le persone a cui tiene. Tipico di chi si sente inutile.
Alla fine furono delle urla ad attirare la mia attenzione. Interruppero improvvisamente l’odioso silenzio nel quale mi ritrovavo immersa – dopo la tempesta tornava comunque la calma – spaventandomi nuovamente e spingendomi a correre verso l’entrata di scuola. Ero sicura provenissero da lì e scoprii di non sbagliarmi quando capii il motivo di tutta quell’agitazione. Il ballo era ormai giunto al suo termine e gli studenti della Beacon Hills High School cominciavano a riversarsi all’esterno per tornare a casa: di certo non urlavano per la tristezza o l’euforia.
Jackson Whittemore avanzava verso di loro col corpo devastato di Lydia Martin tra le braccia, mentre tutti indietreggiavano spaventati e si lasciavano andare ad urla di terrore. Io stessa non riuscii a trattenere uno strillo ma decisi di fermarmi subito, ponendomi una mano sulle labbra mentre correvo in direzione di Jackson. Una sola domanda mi rimbombava nella mente: dov’è Stiles? Ma la scacciai alla vista del corpo sanguinante di Lydia.
«Dobbiamo chiamare un’ambulanza!», esclamai quando gli fui accanto e Jackson si limitò ad annuire mentre professori vari ci raggiungevano, tentando inutilmente di calmare gli animi.
Io nel frattempo telefonai subito al 911 e spiegai la situazione cercando di non far tremolare troppo la voce. I soccorsi arrivarono nel giro di dieci minuti scarsi ed io e Jackson li seguimmo al Beacon Hills Memorial Hospital con la sua Porsche metallizzata. Il tragitto fu strano e imbarazzante: il silenzio regnò sovrano per tutto il tempo e anche se lo volevo terribilmente, non osai chiedergli di Stiles. Avevo paura di una sua risposta.
Nel giro di un’ora Lydia venne visitata, medicata e ricoverata. Jackson non si scollò un attimo dalla vetrata attraverso la quale poteva tenere d’occhio la sua stanza mentre io continuai a gironzolare per tutto l’ospedale senza meta, provando inutilmente a chiamare Stiles più e più volte. Capii non ci fosse niente da fare alla ventitreesima telefonata, quando la linea telefonica cadde di nuovo e presi a ripetermi che fosse semplicemente perché avendo il cellulare in silenzioso Stiles non sentisse le mie chiamate. Perché, insomma, non poteva essere morto. Non lui.
Ritornai da Jackson nel momento esatto in cui Stephen, preda di un impeto non indifferente di rabbia, lo afferrava per le spalle costringendolo contro un muro. Era agitato perché le cose gli sfuggivano di mano sempre di più e si ritrovava a notte fonda con una sedicenne ferita quasi a morte e quello che ancora credeva essere il suo ragazzo che continuava a negare di saperne qualcosa di quella situazione.
«È la tua ragazza, è tua responsabilità!», lo sentii urlare a Jackson, mentre io – ancora una volta impotente – mi limitavo a fissare la scena da lontano.
«No. Non lo è, okay? Non è venuta al ballo con me!», replicò Whittemore e fu allora che impallidii, avanzando piano nella loro direzione con una nuova paura ad attanagliarmi le viscere.
Stiles rischiava di ritrovarsi in guai seri.
«Ci è andata con suo figlio», spiegò infatti Jackson quando Stephen, stupito, gli chiese il nome dell’accompagnatore di Lydia. «Stiles era con lei».
E allora mi immobilizzai a pochi passi dai due, con un’espressione sconvolta in viso che Stephen non si perse affatto. Lentamente lasciò andare Jackson e si voltò nella mia direzione trattenendo il fiato. Quando mi vide, mi puntò un dito contro e mi raggiunse.
«Io e te dobbiamo parlare».
Finché Stiles non si fosse fatto vivo, avrei dovuto tenere io lo Sceriffo a bada.
 
«Innanzitutto, cosa significa che Stiles è andato al Ballo d’inverno con Lydia Martin?».
Sospirai, scuotendo lievemente la testa e continuando imperterrita a tenere gli occhi fissi sul pavimento bianco dell’ospedale. Dopo aver letteralmente aggredito Jackson, Stephen aveva capito fosse il caso d’interrogare me e dunque eccoci lì, nel bel mezzo del Beacon Hills Memorial Hospital.
«Gliel’ha chiesto e lei ha detto sì», mormorai, stringendomi maggiormente nella felpa che Melissa McCall mi aveva prestato, insieme ad un comodissimo paio delle ciabatte che di solito facevano indossare ai pazienti dell’ospedale. «Anzi, no. Tecnicamente lei ha invitato lui».
Inutile dire che la sorpresa di Stephen crebbe ancor di più. Riposai la schiena contro la sedia in plastica sulla quale ero seduta e con la coda dell’occhio lo vidi sgranare gli occhi prima di prendere a straparlare. Gironzolò per qualche minuto intorno a me, gesticolando e mormorando strane cose tra sé e sé. Era stravolto e stanco proprio come tutti, e la cosa peggiore era che quella notte era appena iniziata.
«Credevo ci sareste andati insieme!», esclamò infine, riportando la sua attenzione su di me mentre mi raggiungeva e mi si sedeva al fianco.
Lo credevo anch’io, non potei fare a meno di pensare con un bel po’ di rammarico. Ma non lo dissi ad alta voce e mi limitai a scrollare le spalle.
«Io ci sono andata con Scott».
«Con… Scott?», pigolò Stephen, cercando il mio viso affinché la smettessi di rifuggire il suo sguardo. Sotto i suoi intensi occhi azzurri, non potei far altro che annuire. «Ma che vita amorosa incasinata avete, voi adolescenti d’oggi? Beautiful vi fa male!».
Mi ritrovai all’improvviso indecisa sul da farsi: piangere o ridere? Sì, insomma, la situazione aveva un che di comico a tratti ma d’altra parte credevo sarei stata benissimo anche senza il pungente sarcasmo che Stiles aveva senza dubbio ereditato dal padre. Che tra l’altro… aveva sul serio parlato di “vita amorosa”? Arrossii.
«Ad ogni modo. Eri con Lydia quando l’hanno ferita?».
«No», scossi la testa, distratta dai miei soliti imbarazzanti pensieri. «Nemmeno Stiles era con lei».
«Bene, e dov’era?».
«Con me. Al centro della pista da ballo. Abbiamo non pochi testimoni».
«Quindi avete ballato insieme…», mormorò Stephen con un tono di voce che non compresi, come se volesse rimarcare ancor di più la cosa. Stranita, mi limitai ad annuire. «mentre Lydia non era né con voi né con Jackson».
«Esatto».
«Ma allora con chi diavolo era?».
Prima ancora che potessi rispondere, un rumore piuttosto forte attirò la nostra attenzione e mi limitai a fare spallucce poco prima di voltarmi verso l’ascensore del piano. Quando Stiles ne uscì di corsa e si diresse verso me e Stephen, quasi faticai a trattenere l’emozione. Mi misi in piedi alla velocità della luce, correndogli incontro e stringendolo non appena ne fui in grado in un abbraccio strettissimo.
«Stavo morendo di paura», sussurrai, ma prima ancora che potessi aggiungere qualcos’altro o Stiles potesse anche solo provare a rispondermi, Stephen ci raggiunse ed io mi feci subito lontana da lui.
«È un bene che siamo in ospedale perché voglio ucciderti!», quasi urlò, facendomi sobbalzare per la paura.
«Scusa! Ho perso le chiavi della Jeep, sono venuto a piedi fino a qui», si giustificò immediatamente Stiles, sperando di calmare Stephen. Inutilmente. Poi si voltò a guardarmi brevemente e aggiunse: «E ho il telefono scarico».
«STILES, NON MI INTERESSA!».
Sobbalzai ancora, poi afferrai un braccio di Stephen nella speranza che sul serio si tranquillizzasse. Potevo capire la sua agitazione e la sua paura, ma esagerare a quel modo non avrebbe portato a nulla di buono. Osservai Stiles trattenere a malapena un sospiro sconfitto mentre indietreggiava, poi sollevò gli occhi lucidi sulla figura di Lydia costretta nel letto d’ospedale e mormorò un semplice: «Se la caverà?» in direzione di suo padre che mi strinse il cuore in una morsa.
«Non lo sanno. Non capiscono neanche che cos’abbia. Ha perso molto sangue ma c’è anche qualcos’altro che non va».
Aggrottai le sopracciglia. Possibile che fosse tutto collegato al morso di Peter? Che Lydia si stesse… trasformando? Rabbrividii al sol pensiero, passandomi una mano sul viso mentre donavo alla Martin l’ennesimo sguardo di quella serata. Mi uccideva vederla in quel letto d’ospedale, collegata a macchinari vari e priva di sensi sapendo che non potevo fare nulla per aiutarla.
«Che vuoi dire?», chiese allora Stiles, stranito, e distolsi lo sguardo da Lydia per osservare Stephen, in attesa di una sua risposta.
«I medici dicono che è come se avesse una reazione allergica. Il suo corpo è in stato di shock». Sgranai gli occhi, cercando lo sguardo di Stiles solo per trovarlo col viso distorto nella medesima espressione sconvolta. «Hai visto qualcosa? Hai idea di chi o che cosa l’abbia aggredita?».
Cadde il silenzio all’improvviso e di colpo cominciai a temere il peggio. Non distolsi gli occhi dal volto di Stiles nemmeno per un attimo e mi sembrò di leggerci sopra un’indecisione ben tangibile. Stava vacillando: voleva dire tutto a suo padre. Ma non potevo permetterlo.
Indietreggiai quel tanto che bastava ad essere nascosta alla vista di Stephen e cercai di attirare l’attenzione di Stiles, scuotendo la testa e fissandolo con occhi imploranti. Non complicare le cose ancor di più, avrei voluto dirgli, ma anche se non ne ebbi occasione Stiles recepì comunque il messaggio perché all’improvviso distolse gli occhi dal mio viso e rispose a Stephen con decisione.
«No. Non ne ho idea. Ero insieme ad Harry quand’è successo tutto».
 
Dopo che Stephen ebbe finito di interrogarmi sparì per rispondere a chissà quale ennesima telefonata e subito Stiles lo seguì, lasciandomi sola proprio di fronte alla stanza di Lydia. Io non potei fare a meno di sentirmi spaesata per un attimo, indecisa sullo scappare dalla visione dolorosa di quella che stavo cominciando a reputare un’amica ridotta in quelle condizioni oppure restare lì a guardarla e pregare in silenzio che potesse cavarsela nel migliore dei modi. Alla fine non so esattamente cosa mi aiutò a scegliere: semplicemente vidi Jackson appostato lì di fronte, come sempre da quand’era arrivato, e gli andai in contro. Mi misi al suo fianco e ce ne restammo in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri. Fissavo Lydia ma una parte di me pensava anche a lui: mi chiedevo quali fossero sul serio le ragioni di anche solo la metà dei suoi comportamenti e capivo finalmente che non ce l’avevo con lui, perlomeno non più. Certo, aveva commesso gravi errori ma la colpa di tutto quel dolore non era solo – né principalmente – sua. Semplicemente un male molto più grande di noi aveva deciso di entrare a far parte delle nostre vite e lui non era stato in grado di combatterlo per bene.
Avrei dovuto dirgli che mi dispiaceva per la scenata a scuola e per come l’avevo aggredito, avrei voluto potergli dire che avevo torto e che non era colpa sua – non totalmente, non per Lydia – ma non sapevo proprio da dove avrei dovuto cominciare, e perciò mi limitai a starmene in silenzio, con gli occhi fissi sul corpo di Lydia. Lei non accennava a riacquistare i sensi e semplicemente se ne stava lì, costretta in quel letto d’ospedale mentre tutti gli altri non potevano far altro che guardarla respirare a malapena. Compresa me, che continuavo a sentirmi inutile.
Fu solo il ritorno di Stiles a distogliermi da quei dolorosi pensieri, e subito mi allontanai dalla vista di Lydia per andargli in contro. Sapevo avesse discusso con suo padre: potevo leggerglielo in volto e poi era stato via troppo tempo per essere semplicemente andato a fare un giro. Perciò, non appena la smise di fuggire dalla figura di Lydia – probabilmente troppo per lui perché potesse sopportare di vederla – lo raggiunsi e gli chiesi di dirmi cosa fosse successo e cosa si fossero detti lui e Stephen. Alla fine del suo racconto, molte cose cominciarono ad essermi più chiare su tutta quell’assurda e malsana situazione.
«L’incendio di casa Hale era premeditato», sussurrai infatti, consapevole di cosa davvero ci fosse alla base della vendetta che Peter tanto ci teneva a portare a termine.
Dolore. Perdita. Risentimento.
Stiles annuì brevemente e poi cominciò a dirigersi a passo svelto verso chissà dove: io lo seguii subito mentre aspettavo che mi rispondesse.
«Papà mi ha parlato di un testimone chiave che l’ha confermato», affermò dopo pochi secondi, sempre continuando a camminare, senza voltarsi a guardarmi.
Sul momento non mi fermai a chiedermi il perché di quel suo comportamento né dove fossimo diretti: semplicemente lo seguii, ansiosa di capirne di più sulle sue ultime scoperte.
«E Kate era la mandante».
«Il testimone la descrive come una giovane donna di circa trent’anni con al collo un pendente».
Quello degli Argent, realizzai subito. Quello che lei aveva regalato ad Allison affinché potesse scoprire la verità sulla sua famiglia e sulla loro “attività”. Il pendente che io avevo cercato a lungo – e inutilmente – di ottenere.
«È decisamente Kate», stabilii in seguito a quella rivelazione, facendo una constatazione piuttosto ovvia.
«Già, e Peter la ucciderà se non ci muoviamo».
Solo a quel punto sorsero i primi dubbi. La sorpresa che mi provocò quella frase fece sì che la mia camminata veloce si arrestasse e me ne rimasi dietro Stiles con le sopracciglia aggrottate, intenta a fissarlo nell’attesa di una risposta che sapevo non sarebbe arrivata – non se non avessi posto una domanda. Dal suo canto, Stiles si limitò a continuare a camminare e solo quando decisi di guardarmi intorno mi resi conto fossimo giunti all’entrata principale dell’ospedale. Ce ne stavamo andando?
«Che cos’hai in mente?», fu tutto ciò che riuscii a chiedere a Stiles, prendendo a correre affinché potessi raggiungerlo, con l’unico filo di voce rimastomi a causa di quello sforzo.
Probabilmente intuendo una cosa simile, Stiles decise finalmente di fermarsi e si voltò a guardarmi. Io lo ringraziai in silenzio, arrestando la camminata a mia volta e approfittandone per prendere un bel respiro. D’accordo, dovevo imparare a fare più movimento. Giuro che non salterò mai più le lezioni di Finstock.
«Dobbiamo cercare Scott», esalò Stiles comunque, distogliendomi da quei pensieri totalmente fuori luogo mentre mi fissava con un sopracciglio sollevato, come a volermi chiedere: “Che domande stupide fai?”.
Mi limitai a sbottare.
«Ehi, frena», lo redarguii, scoccandogli un’occhiataccia mentre lo raggiungevo. «Come pensi di fare? Non abbiamo nemmeno la Jeep!».
«Vi accompagno io».
Una terza voce fin troppo conosciuta arrestò la mia filippica e improvvisamente, sia io che Stiles ci limitammo a fissarci con gli occhi sgranati per via della sorpresa. Dopo quella battuta cadde il silenzio e mi tranquillizzai, così come Stiles che smise di boccheggiare alla ricerca di una buona risposta da darmi mentre il viso gli si distorceva in un’espressione a dir poco ostile. Ma fu solo quando mi voltai alle mie spalle e vidi Jackson intento a fissarci che tutti i miei dubbi furono confermati. E ancora una volta, non seppi cos’avrei dovuto dire. Ma Stiles, ovviamente, mi tolse da quell’impiccio.
«Spero tu stia scherzando», esordì infatti, avvicinandosi a me per poi sorpassarmi e raggiungere Jackson. Quel suo gesto mi mise improvvisamente all’erta e subito mi assicurai di essere tra i due, così da almeno provare a fermarli nel caso in cui le cose fossero degenerate. «Non m’interessa se improvvisamente ti senti in colpa, hai causato tu la metà di tutto… questo!».
Stiles alzò la voce così tanto che ci ritrovammo almeno una decina di sguardi puntati addosso, e subito mi voltai a fronteggiarlo con un’espressione di ammonimento ben calcata in viso. Sapevo benissimo quanto Jackson fosse colpevole e quanto no, proprio come lui. Capivo che volesse sfogarsi e non gliene facevo una colpa: ma aveva sul serio intenzione di mettersi a discutere nel bel mezzo di un ospedale, senza risolvere niente? Probabilmente sì. Ma Jackson, per fortuna, no.
«Io ho un auto, tu no. Lo vuoi il mio aiuto?», domandò infatti, tranquillissimo per mia grande sorpresa mentre io ancora fissavo Stiles.
La veridicità di quell’affermazione e il rendermi conto di quanta ragione avesse mi lasciarono spaesata per un attimo e non potei fare a meno di tradire tutta la mia sorpresa mentre Stiles mi fissava vagamente infastidito. Potevo capire che si sentisse sconfitto, ma se Jackson aveva il coltello dalla parte del manico io che potevo farci? Mi limitai a rivolgergli uno sguardo dispiaciuto, scrollando lievemente le spalle poco prima di voltarmi a guardare Jackson, ancora in attesa di una risposta.
«Andiamo», mormorai allora semplicemente, senza aspettare nient’altro mentre Stiles reagiva con un sussulto sorpreso e prendeva a boccheggiare.
Sapevo avrebbe voluto uccidermi in quel momento, ma non me ne curai. Semplicemente fissai Jackson annuire e poi lo seguii verso l’uscita dell’ospedale, intimando con uno sguardo a Stiles di fare altrettanto. Dovetti insistere un po’ ma alla fine lui mi accontentò, raggiungendoci con uno sbuffo infastidito che mi strappò anche un sorriso. Purtroppo, però, qualcosa andò storto. Come al solito.
«Ragazzi», salutò Chris Argent, apparendoci di fronte così all’improvviso che a malapena riuscimmo a fermarci.
Non era solo: altri due uomini gli facevano compagnia e in tre riuscivano bene a bloccarci qualsiasi via di fuga. Stiles e Jackson si strinsero subito attorno a me quel tanto che bastava a farmi da scudo mentre io mi limitavo semplicemente a fissare il sorriso malefico di Chris con un’espressione infastidita. Era così diverso dall’uomo che tempo addietro aveva aiutato me ed Allison coi compiti di algebra. Era così… cattivo.
«Per caso sapete dirmi dove si trova Scott McCall?», domandò, impassibile e tranquillo proprio come se quella fosse una semplice chiacchierata tra conoscenti.
Il fatto che all’improvviso in quel punto d’ospedale non passasse – nemmeno per caso – anima viva, mi spaventò e non poco. Sarebbe potuto succedere di tutto. Mentre sia Stiles che Jackson boccheggiavano alla ricerca di una risposta che sembrasse convincente, me ne rimasi sempre all’erta e nemmeno provai a rispondere a Chris. Mai l’avrei fatto.
Ma quando proprio lui fece segno ai suoi uomini affinché ci prendessero e loro cominciarono ad avanzare verso di noi con Chris che li seguiva in tutta tranquillità, pregai di poter diventare all’improvviso invisibile e scappare. Stiles e Jackson indietreggiarono spingendo me a fare altrettanto ma non ci fu nulla che potessimo fare per sfuggire, e nel momento in cui sentii un paio di mani per nulla gentili stringermi le braccia, urlai e compresi che quella fosse la fine.
 
Ripensandoci, non credo capii sul serio cosa stesse succedendo davvero finché non mi ritrovai spinta insieme a Stiles e Jackson dentro una stanza adibita – per ciò che sembrava – a magazzino. Semplicemente mi lasciai trasportare da quello dei due uomini di Chris che aveva deciso di occuparsi di me quasi senza opporre resistenza, stremata da tutta quella situazione e immobilizzata dalla paura.
Ma quando proprio Chris si assicurò di chiudere a chiave la porta alle nostre spalle e riafferrò poi Stiles – sfuggito alla sua presa – per spingerlo violentemente contro una fila di armadietti chiusi, tutto riacquistò senso e capii sul serio ancora una volta quanto fossimo nei guai e quanto quell’assurda situazione fosse degenerata nel pericolo puro.
«Hai mai visto un cane rabbioso, Stiles?», sentii Chris che urlava a pochi centimetri dalla faccia di Stiles, ancora immobilizzato contro l’armadietto chiaro.
Non potei far altro che urlare e dimenarmi inutilmente, almeno finché l’uomo che mi teneva ferma non mi tappò la bocca con una mano e strinse di più la presa sulle mie braccia, provocandomi così tanto dolore che proprio non riuscii più a trattenere le lacrime. E anche sapendo quanto fosse inutile, continuai ad agitarmi tra le braccia del cacciatore almeno finché Stiles non mi scoccò un’occhiata dispiaciuta.
«Non farle del male, Jordan», ordinò Chris, solo quando seguendo lo sguardo preoccupato di Stiles individuò me in condizioni pessime. Immediatamente la stretta dell’uomo si affievolì e davvero non seppi quali santi ringraziare. «Comunque, io l’ho visto un cane rabbioso. E fa davvero paura. Ma mai come vedere un tuo amico che si trasforma con la luna piena. Vuoi sapere che gli è capitato, Stiles?».
«Veramente no. Anche se come racconta le storie lei…».
Mi estraniai per un attimo, volgendo lo sguardo tutt’intorno a me. Jackson era bloccato dal terzo uomo di Chris ma non aveva mai – nemmeno per scherzo – provato ad opporsi alla sua presa. Si limitava a registrare quello che accadeva attorno a lui in religioso silenzio, con un’espressione terrorizzata in volto. Mi chiesi come diavolo ci riuscisse.
«Ha cercato di uccidermi», continuò a raccontare Chris, e l’improvviso cambiamento del suo tono di voce quasi mi fece sobbalzare. Sembrava pieno di rammarico. «Gli ho dovuto ficcare una pallottola nel cervello. E intanto, mentre era per terra agonizzante, cercava in tutti i modi di azzannarmi. Voleva uccidermi: come se fosse la cosa più importante. Anche se stava morendo. Riesci ad immaginarlo questo?».
«No. Dovrebbe scegliere meglio le sue amicizie».
Quella risposta non piacque per nulla a Chris, che reagì mostrando tutta la sua irritazione, lasciando andare Stiles e battendo con violenza entrambe le mani ai lati della sua testa. Quando il rumore assordante che l’impatto causò arrivò alle mie orecchie, sobbalzai per lo spavento.
«Scott voleva ucciderti durante la luna piena!», urlò Chris, ancora agitato. «L’hai dovuto incatenare, sbaglio?».
Stiles si limitò ad annuire.
«Sì, esatto. L’ho ammanettato al termosifone: perché? Avrei dovuto chiuderlo in cantina e bruciare tutta la casa?», disse poi, e non appena ebbe finito di parlare un innaturale quanto spaventoso silenzio scese nella stanza.
Chris si fece finalmente lontano da Stiles, un sorriso incredulo a piegargli le labbra. Prima di rispondergli, gli puntò un indice contro con la sua solita aria minacciosa.
«Non vorrei smentire una leggenda metropolitana», affermò. «ma non siamo stati noi».
«Giusto, voi avete un codice. E nessuno l’ha mai infranto?».
. Chris, ignaro, si limitò a scuotere la testa.
«Ne è proprio sicuro?», continuò allora Stiles con aria insinuante.
«A chi ti riferisci?».
Un’altra volta ancora Chris alzò la voce, nuovamente afferrò Stiles costringendolo contro la fila di armadietti e di nuovo io provai inutilmente ad oppormi alla cosa, strillando e scalciando almeno finché Jordan non mi ammonì infastidito. Ma la mia scenata passò in secondo piano e tutto si dissolse nel momento in cui Stiles disse sottovoce: «A sua sorella».
Da allora accadde tutto così velocemente che a malapena me ne resi conto. Una nuova scintilla di consapevolezza si accese nel fondo degli azzurrissimi occhi di Chris e lo osservai mentre lasciava andare Stiles una volta per tutte, facendosi lontano dal suo corpo mentre raggiungeva i suoi uomini e segnalava loro di lasciar liberi me e Jackson. Jordan e l’altro ubbidirono subito e prima ancora che me ne potessi sul serio rendere conto, tutti e tre sparirono dietro la porta d’ingresso.
Stiles sospirò rumorosamente poco prima di scivolare lungo il muro e accasciarsi sul pavimento ed io lo raggiunsi subito dopo aver scoccato un’occhiata nella direzione di Jackson. Mi inginocchiai alla sua altezza tentando di catturarne lo sguardo. Solo quando i nostri occhi s’incontrarono, parlai.
«Ti ha fatto male?».
Stiles si limitò a scuotere la testa.
«Sto bene, tranquilla», mi rassicurò, sospirando nuovamente prima che ricadesse il silenzio. «Ti ha fatto male?».
Scossi la testa anch’io, sorridendo intenerita da quel suo rigirarmi la domanda. Prima ancora che potessi aggiungere qualcos’altro, però, la vibrazione di un cellulare mi stoppò e aggrottai le sopracciglia incuriosita. Io e Stiles ruotammo il capo verso destra in contemporanea, seguendo la fonte del rumore pur di sapere da dove provenisse sul serio. Quando Stiles individuò proprio il suo cellulare sul pavimento, la prima cosa che fece fu afferrarlo e leggere il messaggio ricevuto.
«È Scott. Dobbiamo andare», fu tutto ciò che disse infine, mettendo da parte il cellulare e alzandosi in piedi mentre io lo seguivo a ruota.
«Andare?», domandai però, scettica. «Andare dove?».
«A casa di Derek. Sono insieme e si stanno dirigendo lì».
Stiles si diresse verso la porta e fece per uscire fuori dalla stanza con Jackson pronto a seguirlo ma io impedii subito che tale cosa accadesse raggiungendoli e afferrando un braccio di Stiles affinché fermasse la sua corsa.
«Non ci andremo disarmati», lo redarguii, con un tono di voce basso e vagamente minaccioso.
Totalmente preso in contropiede, Stiles cominciò a balbettare scuse assurde e boccheggiò alla ricerca di qualcosa di ragionevole da dire ma alla fine, sconfitto, si limitò a cercare il viso di Jackson in attesa di rinforzi. Tuttavia Whittemore, molto maturamente, si limitò a fare spallucce mentre gli diceva: «Non guardarmi così. Ha ragione lei».
Ma Stiles non sembrava ancora convinto. Perciò aggiunsi: «Peter sarà sicuramente lì. Per Scott. E non ho intenzione di andare senza qualcosa con cui difenderci».
«D’accordo! Che cos’hai in mente?», cedette infine Stiles, sbuffando mentre alzava gli occhi al cielo.
Per un attimo mi limitai a sorridere divertita: poi, quando gli sguardi curiosi dei due ragazzi insieme a me furono troppo, decisi di parlare.
«Costruiremo una molotov ad autoinnesco».
E ancora una volta… grazie, Lydia.   
 
“Derek Hale è l’alpha”. Continuavo a ripetermi sottovoce quelle cinque parole striminzite nella speranza che tale tattica bastasse a fornirmi una spiegazione valida abbastanza da farmi comprendere cosa fosse sul serio successo nel giro di quell’ultim’ora. Ma sapevo già che non avrebbe funzionato. Perché, infatti, non c’era niente che potesse spiegare la corsa che io, Stiles e Jackson avevamo fatto verso casa Hale, né la battaglia che l’aveva seguita. Niente avrebbe potuto rendermi chiaro il perché del gesto che Derek, egoisticamente, aveva compiuto nei confronti del corpo segnato da ustioni multiple – come per un sadico scherzo del destino – dello zio. Semplicemente restava il rammarico e nessuna spiegazione veniva fornita, almeno finché non avessi cominciato a chiederne.
Fu proprio per questo motivo che quando Stiles mi comunicò che saremmo tornati in ospedale con Scott per sincerarci delle condizioni di Lydia che scossi la testa e gli dissi che invece sarei rimasta esattamente dov’ero. Inizialmente ricevetti solo un’occhiata preoccupata in risposta e fu allora che decisi di continuare a giustificarmi, dicendo a Stiles di come volessi semplicemente parlare a Derek senza mettermi in troppi guai. Ma anche allora, lui non mi sembrò affatto convinto.
«Tranquillo, resto io qua con lei», lo rassicurò però Jackson, ed io gli scoccai un’occhiata piena di gratitudine mentre osservavo con la coda dell’occhio Stiles mettere su la sua tipica espressione da “Okay, mi arrendo”.
Sapevo quanto poco si fidasse sia di Derek che di Jackson ma stava acconsentendo a lasciarmi lì a casa Hale, perché sapeva che non volessi nient’altro. Lo stava facendo per me e semplicemente gli sorrisi, annuendo al suo: «Quando hai finito chiamami, ti vengo a prendere». Poi semplicemente lo osservai andar via insieme a Scott e mi voltai un’ultima volta a guardare Jackson, rassicurandolo su come non ci avrei messo molto. Lui semplicemente si limitò a scrollare le spalle mentre si appoggiava placidamente alla Porsche metallizzata. Sapevo benissimo perché fosse rimasto lì – non di certo per me – ma preferivo non pensarci.
Al contrario mi diressi con passi traballanti verso casa Hale, cercando di scacciare il pesante cumulo di stanchezza che da ormai troppo tempo mi pesava sulle spalle. Avrei voluto semplicemente mettere una fine a quell’assurda giornata, andare a dormire e resettare tutto per partire da capo – come se nulla fosse successo – il giorno dopo, ma sapevo di non potere. Non finché non avessi parlato con Derek, che trovai nascosto in un angolo buio della casa distrutta. Fu solo allora che mi resi conto di come quella fosse la prima volta che ci entravo.
«Che ci fai qui?», mi sentii chiedere da Derek, appena uscito fuori dall’angolo nel quale s’era apparentemente nascosto. «Se ne sono andati tutti».
A quella sua affermazione trattenni un sorrisino divertito. Com’era ingenuo. Scrollai le spalle e mossi un ulteriore passo in direzione della malridotta scalinata in legno. Derek era al primo piano e mi fissava dall’alto: per potergli rispondere guardandolo in viso fui costretta a sollevare il mio non poco.
«Non Jackson», osservai placidamente, mentre negli occhi chiari di Derek si dipingeva una nota di consapevolezza. «Ha ancora un conto in sospeso con te ma gli ho chiesto la precedenza. Non voglio assistere ad ulteriori spargimenti di sangue».
Sapevo che domanda sarebbe seguita a quella mia affermazione e sapevo come mai avrei voluto dare a Derek la mia risposta guardandolo negli occhi. Fu proprio per quel motivo che negli attimi di silenzio che ci furono dal mio aver smesso di parlare al: «Perché dici così?» di Derek, puntai gli occhi sul pavimento e salii la scalinata fino a metà, accomodandomi su uno scalino. Davo le spalle a Derek, quando gli risposi, e capii che non avrei potuto far di meglio di così.
«Lo trasformerai», spiegai, posando i gomiti sulle ginocchia scoperte e infreddolite mentre intrecciavo le dita delle mani. «Adesso ne hai il potere, no? Il tuo obbiettivo è sempre stato questo, fin dall’inizio».
Pregai non scendesse le scale per raggiungermi, desiderai restasse lì in cima a perforarmi la schiena con lo sguardo verde. Credevo fosse molto meglio averlo lì – anche se avrebbe potuto attaccarmi a suo piacimento – che ritrovarselo di fronte e affrontarlo sul serio. Parlavo e parlavo ma non mi andava di confrontarmi sul serio con Derek. Ma sapevo già quanto le mie speranze fossero malriposte.
«L’obbiettivo era vendicare mia sorella», lo sentii mormorare, e al suono della sua voce si sovrappose quello dei piedi che scivolavano sullo scalino successivo.
Sempre più vicino. Sbuffai divertita, scuotendo la testa.
«Già. Uccidendo tuo zio, che guarda caso era un alpha. Che morendo, ha lasciato tutti i suoi poteri a te. Belle coincidenze».
Derek scese ancora: uno scalino più vicino a me e poi un altro. Il silenzio era riempito solo dai tonfi delle sue scarpe sul legno rovinato. Io trattenevo il respiro.
«Aiutare Scott», continuò poi, come se stesse stilando una lista e io l’avessi interrotto con accuse infondate che decise di ignorare. «E proteggere te».
Solo allora me lo ritrovai accanto e capii quanto sul serio non potessi più evitare quel confronto. Al contrario, dovevo accoglierlo a braccia aperte e approfittarne. Sedendosi di fianco a me sullo scalino consumato e polveroso che occupavo, Derek individuò senza sforzi la mia espressione esterrefatta. E allora capii come nascondergliela non sarebbe servito a niente.
«Proteggere me?», pigolai, voltandomi a guardarlo e mostrandogliela senza paura. «A malapena mi conosci! Hai sempre e solo avuto quest’interesse morboso nei miei confronti che mai ti sei deciso a spiegare, e…».
«Io ti conosco, Harriet», m’interruppe, e – ancora sorpresa – non potei far altro che sgranare gli occhi. «I Carter pianificavano da tempo di attirarti a Beacon Hills, lo sai. Ma c’è una cosa che non ti ho mai detto: io ero coinvolto. E non ero l’unico».
Non seppi identificare bene tutte le emozioni che si mescolarono al mio interno in quell’esatto momento, dopo quella frase rivelatrice di tanti perché. Semplicemente un mare di sensazioni e pensieri mi si agitò dentro, pronto ad inghiottirmi e lasciarmi affondare. Ma non cedetti: al contrario, continuai a nuotare controcorrente e cercai di raccogliere tutta la voce possibile per porre la mia prossima domanda.
«Di cosa stai parlando?», sussurrai flebilmente, giusto poco tempo prima che Derek prendesse a raccontarmi una storia che mai avrei potuto immaginare di dover ascoltare.
«La mia famiglia e la tua sono sempre state al comando di Beacon Hills. Certo, c’erano anche altri rappresentanti della società, come famiglie di cacciatori e di altri esseri soprannaturali, ma principalmente tutto il potere scorreva nelle nostre mani. Questo finché non abbiamo sfiorato il declino. Tuo padre ha lasciato la famiglia senza un erede che potesse prenderne il comando e gli Hale sono stati decimati nell’incendio di sei anni fa. Potrebbe sembrare strano, ma le nostre disgrazie ci hanno uniti ancor di più. Ecco perché quando Thomas mi ha chiesto di aiutarlo a portarti qui e riprendere potere su Beacon Hills, io ho acconsentito».
Credevo avrebbe continuato a parlare e raccontare, ma poi capii non ci fosse nient’altro da aggiungere e conclusi con l’aprirmi in un sorrisino beffardo. Cercavo inutilmente di nascondere la mia delusione.
«Alla fine è sempre quello il punto. Potere», osservai, con una nota ben evidente d’amarezza nella voce.
Ancora una volta, Derek ignorò la mia battuta e continuò a parlare. Proprio come se mai l’avessi interrotto.
«Ma alla fine il piano non è stato messo in atto: gli Stilinski hanno scelto te di loro spontanea volontà e la mia collaborazione non è più servita. Tuo nonno ha guadagnato due piccioni con una fava».
Aggrottai le sopracciglia. Solo mio nonno c’aveva guadagnato?
«Tu no?».
Derek scosse il capo, distogliendo gli occhi dai miei.
«Ho iniziato a dubitare del “piano” non appena Laura è stata uccisa. Quell’esperienza mi ha aperto gli occhi e ho capito quanto sbagliato fosse trascinarti qui. Ti ricordi ciò che ti ho detto la prima volta che ci siamo visti?».
Deglutii. Eccome se mi ricordavo. Ancora in quel momento, a distanza di poco più di due mesi, non sapevo come descrivere la cosa. Perciò: «Nel… mio sogno?», balbettai, imbarazzata e confusa.
Quel mio atteggiamento divertì Derek, che si limitò a ridacchiare piano mentre annuiva. Poi parlò.
«Volevo che tornassi in Texas, perché Beacon Hills non è un posto sicuro. Probabilmente non lo diventerà mai», spiegò, con la consapevolezza che solo chi viveva quel posto da sempre poteva avere in quanto al suo essere una città impossibile da salvare. «Ma tu ovviamente non mi hai ascoltato. E da quel momento mi sono sentito in dovere di… tenerti d’occhio».
Non ci fu bisogno che Derek aggiungesse nient’altro: subito compresi come le sue parole nascondessero molto di più. Deglutii silenziosamente, sporgendomi in avanti sullo scalino quel tanto che bastava a catturare lo sguardo di Derek. Gli posi la mia ennesima domanda mentre lo fissavo intensamente negli occhi, alla ricerca di una risposta che sapevo mai mi avrebbe dato a voce.
«Ti senti responsabile di avermi attirata qui anche se in effetti non l’hai fatto?».
«Voglio solo proteggerti».
Appunto.
Sospirai combattuta, tornando a sedermi piuttosto compostamente sullo scalino in legno. Derek mi era al fianco ma non riuscivo a sentirlo sul serio vicino. Come al solito, un muro invisibile ci divideva, nonostante tutti i nostri sforzi di abbatterlo. Stanca e infastidita da tutto quel suo misterioso parlare, sbuffai.
«Proteggermi da cosa?», quasi urlai, poco prima che la giusta domanda da porre mi balzasse davanti agli occhi. Allora mi corressi. «Da chi?».
Derek sospirò, avvertendo chiaramente tutta la mia scarsa sopportazione. Arrivati a quel punto non potevo più affrontare nient’altro: figurarsi i suoi discorsi emblematici, sempre bisognosi di analisi affinché potessi capire cosa sul serio cercasse di dirmi.
«Ascolta», lo sentii esordire, mentre mi distoglieva dai miei annebbiati pensieri. «lo so che i Carter non ti stanno trattando male e che credi ti vogliano bene. Ma quello che hanno in serbo per te – farti guidare la famiglia – non è uno spasso come dicono. Perché credi che tuo padre sia scappato? Si tratta di responsabilità. E pericoli. Sono semplicemente preoccupato per te, Harry. Perché sono stato un sedicenne anch’io e so come ci si sente».
Un silenzio pregno d’imbarazzo scese su di noi e inondò la casa vuota e disastrata nella quale ci trovavamo mentre sentivo ogni centimetro di pelle andare a fuoco e arrossire. Ci mancò poco che non mi coprissi il viso con le mani, imbarazzata come non mai, ma alla fine per fortuna mi limitai a deglutire rumorosamente. Derek, forse intuendo il mio stato d’animo, continuò a parlare – così che non fossi obbligata a dire qualcosa.
Ma: «Mentirei se ti dicessi che non mi sono affezionato a te», confessò, peggiorando la situazione ancor di più.
«Già…», balbettai allora, muovendomi a disagio sullo scalino. «anch’io».
Poi, capendo che tutto quello fosse davvero troppo, mi misi in piedi – forse troppo velocemente perché sembrassi stare bene – e mi strinsi nella felpa di Melissa mentre raggiungevo la fine della scalinata. Non dissi nemmeno una parola mentre mi dirigevo verso la porta d’ingresso, stetti addirittura attenta a non respirare troppo forte, ma quando avvertii Derek seguirmi non potei fare a meno di sospirare sconfitta. Non avevo ancora finito, per quella sera.
«PromettimichenonuccideraiJackson», esclamai dunque, voltandomi di scatto a fronteggiare Derek, parlando così velocemente che lo vidi aggrottare le sopracciglia confuso. Imbarazzatissima, continuai subito a spiegarmi. «Potrei affezionarmi anche a lui, col tempo».
Mentre sgattaiolavo via nel buio della notte colsi con la coda dell’occhio il sorriso divertito di Derek e capii immediatamente che avrebbe fatto come gli chiedevo.
 
Proprio come da promessa, era bastato che chiamassi Stiles perché lui accorresse per portarmi a casa. Ero imbarazzatissima per ciò che era successo con Derek – per le parole che si erano dette – stanca e vogliosa di fare solo una cosa: andare a letto e dormire per minimo dodici ore filate, dimenticandomi di quell’orribile giornata per poi risvegliarmi e cominciare daccapo. Avevo espresso così tante volte quel desiderio, nelle ultime ore, che – paradossalmente – quando mi ritrovai a pochi passi dal poterlo finalmente realizzare, evitai di farlo. Deviai la mia camera e mi diressi, al contrario, verso quella di Stiles.
Dire che il viaggio di ritorno a casa fosse stato silenzioso si sarebbe potuto definire benissimo un eufemismo. Ma non era quel tipo di silenzio imbarazzato o pieno di rabbia: al contrario era un silenzio paradossale, che nascondeva milioni di cose che non si riusciva proprio a trovare il coraggio di dire. E sapevo benissimo di non poter mettere fine a quella giornata se prima non avessi rimediato a quel silenzio, riempiendolo con tutte le spiegazioni che dovevo a Stiles e che lui doveva a me.
Ecco perché strisciai i piedi verso la sua stanza, anche se in fondo ero troppo stanca per un confronto e una vocina insistente dentro me continuava a ripetermi: “Gira i tacchi, va’ a dormire. Tu e Stiles parlerete dopo”. Ma sapevo benissimo che quel dopo non sarebbe più arrivato, e fu proprio per quel motivo che combattendo contro me stessa, continuai ad avanzare verso la stanza di Stiles finché non mi ritrovai a fronteggiare la porta. Mi sembrò fosse chiusa, ma avvicinandomi maggiormente scorsi uno spiraglio di luce filtrare dall’interno e capii fosse semplicemente socchiusa. Stiles era ancora sveglio e reagì ai colpi delle mie nocche sul legno invitandomi subito ad entrare.
Lo feci senza farmelo ripetere due volte, entrando velocemente nella stanza poco prima di richiudermi la porta alle spalle. La lasciai socchiusa proprio come l’avevo trovata e poi rivolsi uno sguardo perso a Stiles. Ero lì sulla soglia mentre lui era seduto al centro del letto con una miriade di fogli dinanzi a sé e per un attimo proprio non seppi che fare. Perché ero lì? Mi sarebbe piaciuto un sacco saperlo. Ma più che altro avrei gradito capire come comportarmi. Improvvisamente, tutto l’imbarazzo messo in secondo piano dalla lotta e dalla stanchezza ritornò a galla. Ma Stiles riuscì a spazzarlo via con un gesto della mano. Semplicemente mi invitò a raggiungerlo a letto ed io lo feci, sorridendogli grata.
«Le ferite di Lydia non stanno guarendo», osservò sollevando gli occhi sui miei, poco tempo dopo che ebbi preso posto di fronte a lui, distogliendo l’attenzione dalla miriade di fogli che stava analizzando con attenzione.
Improvvisamente presi a boccheggiare. Come mai Lydia non stava guarendo? Quando Scott era stato morso, le sue ferite s’erano rimarginate nel giro di un paio d’ore. Ma allora perché non stava accadendo la stessa cosa alla Martin? Possibile che…
«Non si trasformerà?», pigolai, fissando Stiles con le sopracciglia aggrottate.
In attesa di una sua risposta, incrociai le gambe infreddolite sul copriletto caldo e spostai una ciocca di lunghi capelli dietro l’orecchio.
«Credo di no», stabilì Stiles dopo qualche attimo, abbassando lo sguardo sui fogli di fronte a sé prima di prendere a sistemarli tutti ordinatamente.
Peter Hale aveva detto che le opzioni erano due: trasformarsi o morire. Se Lydia non stava guarendo allora c’erano buone probabilità che la trasformazione non si stesse attivando. Ma ciò significava sul serio che l’avremmo vista morire?
Un’improvvisa onda di preoccupazione mi salì alla gola, mozzandomi il respiro. Sussultai, attirando l’attenzione di Stiles che captò i miei pensieri come spesso solo lui riusciva a fare e mi donò uno sguardo rassicurante.
«Lydia non sta morendo, Harry», osservò, riservandomi anche un debole sorriso. «Non lo so, magari c’è una terza via d’uscita della quale Peter non mi ha parlato».
Peter. Solo quando il suo nome venne fuori dalle labbra di Stiles pensai sul serio a lui. E una domanda proprio non poté fare a meno di balzarmi in testa.
«Credi ce ne siamo liberati?».
Stiles scrollò le spalle, ci pensò un po’ su e alla fine mi rispose, utilizzando tutta la sincerità del mondo. Proprio ciò che volevo.
«Di Peter? Sì», stabilì, annuendo. Mi sentii più tranquilla, ma la cosa – avrei dovuto prevederlo – durò poco. «Di altri pericoli? Non credo proprio».
Deglutii. Aveva ragione. E avrei dovuto pensarci. Ma non mi andava di farlo. Non in quel momento. Ecco perché mi limitai ad annuire, cercando di nascondere la mia espressione afflitta mentre mi stringevo le ginocchia al petto. Ero stanca. Davvero tanto, tanto stanca. E non solo fisicamente.
«Credi che potrei trovare qualcosa sulla condizione di Lydia, in internet?», sentii che Stiles mi domandava dopo qualche attimo, distogliendomi dai miei pensieri, sicuramente più per riempire il triste silenzio sceso a farla da padrone in quella stanza che per altro.
Scrollai le spalle, esordendo con un retorico: «Perché no?». Poi mi morsi lievemente il labbro inferiore e continuai. «Ma quanto pensi che possano essere affidabili, certi siti?».
A quella mia domanda insinuante, Stiles aggrottò le sopracciglia e mi fissò confuso. Si era liberato dei fogli che stava analizzando accatastandoli tutti sul comodino in legno di fianco al letto e così facendo, tra noi due era rimasto uno spazio vuoto che – fissandolo attentamente in quel momento – mi parve immenso.
«Proponi di non fare ricerche?», mi chiese poi, facendo sì che i miei occhi scuri fossero costretti a sollevarsi dal copriletto blu per fissarli nei suoi.
Si era avvicinato a me, riempiendo lo spazio vuoto e quasi spingendomi a sobbalzare per quella sua improvvisa vicinanza. Quando rialzai lo sguardo sul suo viso, mi stupii di ritrovarmelo così improvvisamente vicino.
«Propongo di parlare con un esperto», mormorai però, fingendo tranquillità e calma.
Stiles si irrigidì.
«Derek», sputò, come se quel nome fosse un insulto.
Mi misi sulla difensiva a mia volta e gli scoccai un’occhiataccia. Perché mai gli veniva in mente proprio Derek?
«Deaton», lo corressi allora, con tono glaciale. E immediatamente l’espressione di Stiles si addolcì. «Quando Scott è stato ferito da Kate, lui l’ha curato. Sa molto di più di ciò che sembra. Potremmo andare a chiedergli informazioni».
Ma sapevo che quella mia ulteriore spiegazione fosse inutile perché per convincere Stiles bastava semplicemente che non mi riferissi a Derek. Trattenendo uno sbuffo infastidito, osservai la sua espressione soddisfatta mentre annuiva e mormorava qualcosa riguardo all’ottima idea che avevo avuto. Poi: «Hai parlato con Derek?», mi chiese, ed io semplicemente annuii.
«Ho scoperto che lui e mio nonno sono molto legati».
«Fantastico».
Già.
«E che Thomas gli aveva chiesto aiuto per riportarmi qui. Cosa che poi non è successa perché c’avete pensato tu e Stephen».
«Il che mi fa sentire un tantino in colpa».
Sgranai gli occhi. Cosa diavolo blaterava? 
«Scherzi?», lo ammonii infatti, chiedendomi se sul serio non si sentisse responsabile della mia presenza lì a Beacon Hills. Sarebbe stato assurdo. «Se non fossi stata io, ci sarebbe stato qualcun altro al tuo fianco che avrebbe vissuto tutto questo insieme a te. Insieme a voi».
Mi salvai in calcio d’angolo, dandomi della stupida per tutti i sottointesi che lanciava quella mia penultima frase. Irritata dalla mia lingua lunga, strizzai gli occhi e pregai Stiles non notasse nulla. Per fortuna, qualche entità superiore decise di accontentarmi e continuai a parlare senza ulteriore imbarazzo.
«E anche se potrebbe sembrare strano, non vorrei mai che fosse così».
Perché non c’è nessun altro posto nel quale vorrei essere, avrei dovuto aggiungere. Ma non lo feci. Semplicemente me ne rimasi a fissare Stiles, vicinissimo a me, alla ricerca di ogni piccola emozione che si sarebbe di lì a poco dipinta sul suo viso. Non sapevo esattamente cosa sperassi di trovarci, ma quando lui semplicemente mi sorrise, illuminandosi, mi reputai piuttosto soddisfatta.
«In ogni caso saresti arrivata qui, no?», mi domandò, deciso. «Tuo nonno avrebbe messo in atto il piano e tu ci saresti stata comunque».
Forse non con te, fu il mio improvviso pensiero. Ma anche quella volta tenni tutto per me e mi limitai ad abbassare lo sguardo sulle mie mani intrecciate mentre sfoggiavo un perfetto sorriso finto.
«Era destino», mormorai, pur non potendolo sapere con certezza.
Cadde nuovamente il silenzio, come fosse l’ennesimo indizio di quanto – nonostante tutti gli sforzi – la nostra conversazione non si decidesse a partire. Né a spostarsi sull’unico argomento che mi premeva sul serio affrontare.
Quella volta fu Stiles a distogliere lo sguardo dal mio, subito dopo aver annuito debolmente. Pensai non fosse il momento adatto – qualcosa me lo stava facendo capire in tutti i modi – e che dovevo rinunciare e andarmene, ma capii subito di starmi sbagliando nel momento in cui Stiles riprese a parlare. E quella volta sì, che la nostra conversazione cominciò.
«Harry, ascolta…», lo sentii esordire, cauto e balbettante. «posso farti una domanda?».
Deglutii, perché immaginavo perfettamente cosa mi avrebbe chiesto ma non avevo idea di come avrei risposto. Perciò mi limitai a sputare fuori un: «Sì, certo» insicuro.
«Quella cosa che… hai fatto, stasera a scuola… che… abbiamo fatto…», continuò Stiles, cercando inutilmente di spiegarsi tra una pausa e l’altra. Sapevo benissimo a cosa si riferiva ma non glielo feci capire, limitandomi a non guardarlo troppo mentre mi sentivo il viso andare a fuoco. «cioè, perché ho partecipato anch’io. Anche piuttosto attivamente. Però, ecco… mi chiedevo perché. Cioè, è stata solo l’adrenalina del momento… no? Una cosa… impulsiva. Giusto?».
Improvvisamente, tutto il rossore accumulato in quegli ultimi due minuti si volatilizzò nel nulla e al contrario mi sentii sbiancare. La mia mascella fu ad un passo dal toccare terra per la sorpresa ma tentai di dissimulare, nascondendo la mia espressione delusa con un sorriso striminzito. Tra tutte le conclusioni che Stiles avrebbe potuto trarre da quel mio gesto, quella era la più sbagliata. E mi chiesi solo: perché?
«Certo», mormorai però, incapace di darmi una risposta, decidendo di mettermi in piedi per scappare da quella stanza alla velocità della luce.
Sussurrai un paio di scuse non troppo convinte sul fatto che fosse tardi e avessi sonno mentre mi dirigevo verso la porta, dando a Stiles le spalle. L’avevo semplicemente visto seguirmi con lo sguardo mentre mi mettevo in piedi e da allora non avevo più osato guardarlo.
Sperai mi avrebbe semplificato le cose, lasciandomi andare senza fare nulla per impedirlo, ma quando lo sentii alzarsi e raggiungermi sulla soglia, capii di aver sperato invano. Non so esattamente cosa mi spinse ad agire, proprio come feci qualche attimo dopo, fatto sta che il corpo di Stiles dietro il mio aiutò e non poco. Semplicemente, invece di uscire come avrei voluto fare fino ad un attimo prima, mi voltai a fronteggiarlo e feci scorta di tutto il coraggio a mia disposizione prima di parlare ancora.
«D’accordo, sai cosa?», domandai, mentre col respiro spezzato muovevo un passo nella sua direzione, tanto vicina che mi sarebbe bastato pochissimo per sfiorare nuovamente le labbra di Stiles. Improvvisamente nell’aria c’era una tensione del tutto nuova, ma piacevole. «Ho mentito».
Non ti ho baciato per l’adrenalina. Non è stata una cosa impulsiva. Non è “capitato”. Semplicemente lo volevo tantissimo. Da molto tempo, avrei voluto aggiungere, ma il coraggio per parlare ancora mi mancava: quelle due semplici parole avevano richiesto molte più energie del previsto e semplicemente mi limitai a restarmene lì di fronte a Stiles, nel silenzio tipico dell’attesa alla quale mi stava costringendo. Passò così tanto tempo che alla fine mi convinsi del fatto che avrei ottenuto un rifiuto come risposta e feci per scappare – quella volta sul serio – ma quando capì le mie intenzioni, Stiles azzerò la poca distanza che ancora ci divideva e mi afferrò un polso affinché evitassi di scappare.
«Sono davvero felice che tu me l’abbia detto», fu tutto ciò che si limitò a dire, mentre un fiume di emozioni positive s’agitava dentro me e reagivo aprendomi nell’ennesimo banale sorriso.
Ma Stiles non fece altro che ricambiarmi e tutt’a un tratto smisi di pensare, spegnendo il cervello e godendomi il momento fino in fondo, mentre avvertivo i suoi polpastrelli posarsi delicati sulle mie guance in una carezza che mi fece sentire come la cosa più preziosa del mondo.
Quando Stiles mi si avvicinò ancor di più, il suo profumo mi riempì le narici ed io lo respirai a pieni polmoni, sorridendo ancora mentre lo assecondavo e mi avvicinavo al suo viso di conseguenza. Volevo baciarlo, terribilmente, ma non l’avrei fatto. Ero curiosa di vedere come si sarebbe comportato lui, volevo che facesse la prima mossa e mi dimostrasse un interesse simile al mio.
Tutto questo finché non mi venne la felice idea di seguire il suo sguardo perso sulle mie labbra dischiuse e di imitarlo, posando gli occhi scuri sulle sue labbra chiare e sottili. Mi distrassi così tanto che nemmeno ci feci caso, quando Stiles richiamò il mio nome sottovoce, limitandomi a fissare rapita l’incurvatura che le sue labbra assunsero facendolo. Era bellissima, proprio come credevo lo fosse il mio nome, specialmente se pronunciato da Stiles. Specialmente se con quel tono di voce sussurrato e…
E niente. Qualsiasi mio pensiero venne spazzato via nel momento in cui le labbra di Stiles furono nuovamente sulle mie, e inizialmente l’unica cosa che recepii senza problemi fu il battito del mio cuore che aumentava paurosamente d’intensità. L’aveva fatto, sul serio: mi aveva preso il viso tra le mani e mi aveva baciata. Mi stava baciando, e capii solo allora di dovermi godere il momento fino in fondo.
Risposi al bacio, muovendo le mie labbra contro le sue mentre ancora ci limitavamo a sfiorarci semplicemente, e attirai Stiles a me passandogli le braccia attorno al collo. Lui spostò le mani dal mio viso e mi afferrò i fianchi, stringendoli poco prima di costringermi a compiere un passo all’indietro e scontrarmi con la porta socchiusa. Fu in quell’esatto momento che la situazione degenerò – più che in positivo – e sorrisi sulle labbra di Stiles dopo che la mia schiena, impattando contro il legno della porta, la chiuse con un tonfo. Non eravamo per nulla discreti ma non me ne importava, perché in quel momento Stiles mi stava baciando ed io non mi ero mai sentita meglio di allora: non mi ero mai sentita così sua. Ed era una sensazione bellissima. Era, dopo tanto tempo, pace. 
 
So nothing’s incomplete.
It’s easy being with you: sacred simplicity.
As long as we’re together,
there’s no place I rather be 









 
Ebbene, eccoci qui, giunti dopo la bellezza di quasi un anno alla fine (che poi tanto fine non è). Dovrei scrivere un sacco di cose ma davvero non so da dove partire: attualmente sono in lacrime proprio come ieri nel momento in cui ho finito di scrivere il capitolo e ringrazio di non dover fare un discorso del genere a voce (già scrivere è difficile, figurarsi parlare), dunque l'unica cosa con la quale posso esordire è un immenso GRAZIE, a tutti, nessuno escluso.
Alle fantastiche persone che sono state con me, Harry e Stiles fin dall'inizio e hanno contribuito a far crescere questa storia: a farle guadagnare la bellezza di 76 recensioni, 13 preferiti, 2 ricordati e 36 seguiti. Grazie, grazie, grazie, grazie. Tutti questi numeri mi hanno anche aiutata, tra l'altro, a vedere parachute presente nelle storie più popolari della sezione Teen Wolf e non credo che avrei mai potuto raggiungere traguardo migliore quindi, di nuovo (a costo di diventare noiosa), grazie a tutti voi, perché se sono così soddisfatta di questa modestissima storia il merito è solo vostro. :)
Parlando (finalmente) del capitolo: la prima canzone citata è What have you done? dei Within temptation e l'ultima Rather be dei Clean bandit. Spero che l'eccessiva lunghezza del capitolo non vi annoi e soprattutto che vi piaccia quanto piace a me o anche solo la metà, perché giuro che per me non ci sarebbe cosa migliore di questa. Ci tengo moltissimo a sapere cosa ne pensate di questo capitolo: Harriet e Stiles sono giunti alla fine del loro viaggio (rigorosamente insieme) ed io sono cresciuta insieme a loro. Spero di aver fatto un buon lavoro e che questo capitolo possa lasciarvi qualcosa di buono.
Parlando della storia in generale: non è ancora finita qua. Come direbbe Nesli: arriverà la fine, ma non sarà la fine. C'è ancora l'epilogo, che tra l'altro non arriverà prima dell'anniversario della storia ma è rimandato a data da destinarsi. Giuro comunque che non ci metterò troppo tempo per scriverlo. Non so ancora bene cosa ci troverete ma probabilmente un personaggio di cui si è parlato spesso farà comparsa (indovinate chi è?) e avrete risposta a qualche ultima domanda ancora irrisolta.
Per il resto, dato che alcune di voi non ne sono ancora al corrente: parachute avrà un seguito. Del quale ancora ho scelto poco ma che sicuramente scriverò, sperando che la cosa possa farvi piacere e di potervi ritrovare da qui a tra sei mesi/un anno ancora qui con me, pronti a seguire le avventure di Harry e Stiles. 
Non credo di aver nient'altro da aggiungere e perciò mi limito ad esiliarmi nell'attesa di vostri commenti, rinnovandovi i miei più sentiti ringraziamenti e dandovi appuntamento all'epilogo. Un abbraccio forte a tutte,
hell
   
 
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