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Autore: Dubh    08/08/2014    1 recensioni
Rose si trasferisce in un paesino, a parer suo desolato, con i genitori; e parliamoci chiaro, abbandonare la sua grande metropoli e frequentare il suo ultimo anno di liceo in un posto in cui non conosce nessuno, non è facile. Ma sembra capirlo solo lei e la sua insegnate di latino, Carol.
Alla ricerca di amici-senza avere i risultati sperati- inizia ad avvicinarsi ad un ragazzo che divide con lei il banco scolastico, Richard. Bello da mozzare il fiato, misterioso e tremendamente scontroso.
Però a legarli c'è qualcosa, un filo sottile che lega il presente e il passato, un qualcosa che possa anche influenzare il futuro. Una lettera destinata a loro, con una foto. Una foto che ritrae i due molto piccoli insieme.
Dal capitolo:
-Non capisci nulla. Perchè sei insignificante. Tu esisti non vivi.- Rose inebetita al suono di quelle parole, si lascia prendere da un moto di rabbia e scarica tutta la sua frustazione:
-Ti sbagli. Non sai nemmeno di quello di cui stai parlando, Richard. Questo- allarga le braccia e indica le mura attorno a lei-è un puzzle, un puzzle molto più grande e oscuro di quanto tu possa credere.-
Genere: Erotico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Salve a tutti! Prima di lasciarvi al capitolo voglio precisare due cose:
è un ritorno al passato, serve ad inquadrare meglio i personaggi, senza rivelare troppo.
Dal prossimo capitolo vedremo arrivare la protagonista femminile, Rose, che sarà seguita in terza persona.
Grazie per l'attenzione, buona lettura :') 



Era una semplice giornata d’estate, quando notai da lontano un bambino; mi avvicinai meglio alla finestra, osservai attraverso il vetro, ed incrociai due iridi scure, che mi guardavano furbette.
Pensai subito che fosse un bambino dell’orfanotrofio accanto; era un edificio molto grande e tristemente grigio. Ospitava molti bambini orfani, anch’io cinque anni prima ero lì.
Ricordo le parole taglienti, le risate inesistenti, i letti informi e duri, ma soprattutto i bambini della mia stessa stanza: tutti avevano quell’aria smarrita e perennemente colma di dolore. C’era chi aveva perso i genitori in un incendio, in un incidente stradale, e chi, come me, non li aveva mai avuti. Nessuno per cui piangere, nemmeno per noi stessi.
Presi un maglione grigio e me lo infilai, scesi i venti scalini della mia enorme e anonima casa.
Passai in rassegna del mio poco curato giardino e attraversai la strada, diretta all’orfanotrofio.
-Signorina Emily!- Mi voltai e incrociai gli occhi scuri di Madame Louis, la donna che mi aveva cresciuta. Era stata l’unica cosa più simile ad una famiglia che avessi mai avuto, nonostante non mi avesse mai dato particolari attenzioni, crescendo, però, mi ero accorta che anche lei non aveva mai avuto una vita facile.
Lei era come me e gli altri dell’orfanotrofio.
-Madame Louis! Che bello rivederla!- mormorai sorridendo appena; ruotai gli occhi alla ricerca di quel bambino. Dov’era?
-Abita accanto!- disse inclinando la testa di lato, faceva sempre così quando voleva scoppiare in una risata che poi tratteneva.
Le persone come noi non meritavano di ridere.
-Madame Louis, ci sono bambini nuovi?- chiesi tremolante; dovevo sapere qualcosa riguardo quel misterioso bambino, che di misterioso non aveva nulla, fino ad all’ora.
-Sì, abbiamo avuto una settimana piena. Il “The Compret” ha avuto una settimana piena- rispose e si corresse dando un’occhiata oltre le mie spalle, per poi urlare: -Signorino Richard, ritorni dentro!-
Mi voltai in direzione del bambino che subito riconobbi, con quelle iridi scure, che mi avevano fissata pochi minuti prima.
-Richard… Bel nome- mormorai sorridendo, lui mi osservò attento e disse:- Anche Emily-
Feci semplicemente un cenno col capo per poi rifissare l’attenzione su Madame Louis, che guardava con rimprovero il piccolo Richard, così gracile e minuto, con delle deliziose fossette ai lati della bocca.
Il bambino mi indirizzò un ultimo sorriso prima di incamminarsi dentro l’edificio.
-Lo conosce, signorina Emily?- Osservai Madame Louis interrogativa, e di questo se ne accorse anche lei, perchè continuò:-Conosceva il suo nome-.
                                             
 
Quando tornai a casa, accesi il focoso camino, l’unica cosa di davvero non anonimo in quella grande villa.
Mi sedetti sul divano, e vidi piano piano le fiamme divampare, diventando un danza esotica e misteriosa ai miei occhi, che immaginavano donne e bambini con parei colorati e danzavano in un fuoco giallo che ricordava tanto il sole la mattina, quando entrava timido dalle finestre. I miei soggetti ridevano e abbassavano la testa in modo ritmico, creando un sogno insensato; ma pur sempre un sogno. Non sognavo da anni.
Mi svegliai da quel dolce sogno l’indomani mattina, al suono dei galli delle fattorie accanto.
Però avevo un’aria nuova, quasi normale.
Il campanello iniziò a suonare incessantemente, mi alzai e andai ad aprire la grande porta. Avevo sempre avuto paura delle persone, per questo era chiusa a doppia mandata e avevo due serrature; non mi fidavo, nessuno mi aveva insegnato a farlo.
-Emily! Ti ho portato le carote appena raccolte!- La signora Pina, mi porse una cesta di legno intrecciato.
-Non dovevi. Grazie mille!- Pina mi sorrise un ultima volta prima di girare i tacchi e tornare nel suo orto. Chiusa la porta con tutte le adeguate attenzioni mi avvicinai alla cucina.
-Jessy, cosa vuoi mangiare?- Un piccolo batuffolo marroncino si avvicinò ai miei piedi scodinzolando. Era il mio cagnolino da quando ero uscita dall’orfanotrofio, avevo trovato una cucciolata dentro casa, e avevo tenuto la piccola e calma Jessy.
Appena uscita dall’orfanotrofio mi era stato detto che un donatore anonimo mi aveva lasciato 250.000 euro e la villetta accanto ad esso; non sono mai riuscita a scoprire chi fosse, ma un’idea me l’ero fatta.
Uno dei miei due genitori pentito e amareggiato? Un semplice tipo che stava per morire e aveva lasciato i suoi averi ad una persona a caso?
Speravo fortemente la seconda opzione, anche se, devo ammettere, la fortuna non era mai stata dalla mia parte.
 
 

Chi è Richard?
Richard era un bambino di nove anni che, divenuto orfano a causa di un grave incidente automobilistico, era stato portato in orfanotrofio. Il giovane orfano non aveva posto alcuna resistenza, né segni di tristezza, né di negazione. Nulla di nulla.
L’unica cosa di cui non si poteva fare affidamento su quello che diceva, per il resto era un bambino sveglio e intelligente, era il suo continuare a nominare un fratello mai esistito; ebbene sì, Richard era figlio unico. Avevano parlato con psicologi per risolvere questo problema, ma essi avevano dati esiti negativi, uno azzardò a credere che fosse un amico immaginario, per abbattere la solitudine.
Richard però era sicuro, lui aveva suo fratello Mark; con il suo corpo muscoloso e gli occhi blu, l’unica cosa che avesse in comune con il nostro Richard era il colore dei capelli, a detta di lui.
Il piccolo Richard aveva ormai perso le speranze, nessuno gli credeva.
Un giorno nei corridoi della mensa sentì parlare di una ragazza di ventitre anni che viveva nella villetta accanto, e che precedentemente aveva occupato la sua stanza nel lugubre edificio.
Aveva raccolto informazioni perché aveva trovato sotto il suo materasso una scatolina di ferro, sicuramente appartenuta alla ragazza, che scoprì si chiamasse Emily.
Una volta nel giardinetto aveva osservato una finestra della villetta accanto, alla ricerca di qualche indizio; in realtà aveva trovato molto di più: due occhi chiari e insicuri stavano indugiando con forte curiosità su di lui.
                                             
-Perché pensi sia essenziale che viva qui?- L’unica amica di Emily, Lorena, si aspettava una risposta. Stava affittando la casa di fronte, per stare accanto a lei, e non si chiedeva il perché di quel morboso, definito da lei, quesito.
-Devi stare con un coinquilino. Un uomo di quarant’anni! Cosa ti ha insegnato l’orfanotrofio?- sbraitò Emily, facendo cadere delle ciocche scure di capelli lungo il busto.
-Che se non violentano lì, hai un gran culo- Lorena era sicura di quelle parole. Dai, se l’era cavata in orfanotrofio per quindici lunghi anni, senza che nessuno la toccasse, in alcun modo.
Affrontato quello indenne era pronta a tutto.
-Sai benissimo che non c’entra. Non si può essere fortunati tutta la vita, non è fatta di fortuna, Lor- rispose esasperata la povera Emily, che era un po’ distratta. Quel Richard aveva ingombrato la sua mente per tutta la mattinata.
-No, che non lo so. Se succede qualcosa… Dai, Emy. Basta intimorire la gente solo perche spaventa te, tutto questo- Fa un gesto plateale con la mano, indicando tutto il salone.
-Non ho paura del mio soggiorno, Tar. Ho paura per te- rispose evasiva Emily, pronta a scattare ad un prossimo attacco dell’amica.
Come non faceva a capire?
La vita non è una questione di sola fortuna. Sennò quasi tutta la gente che conosceva, compresa lei, era spacciata. Sapeva che la vita era sacrificio, dolore, solitudine e un pizzico di fortuna per non cadere nell’angoscia. O in una drammatica depressione.
                                              
Emily
Lorena se n’era andata da poco, le avevo chiesto se voleva rimanere per cena, ma aveva rifiutato: doveva sistemare le cose per il trasloco nella casa di fronte.
Non ero riuscita a sviare i suoi piani, e mi ero nettamente arresa; la vita era la sua.
Mi sono sempre chiesta il motivo della mia esistenza, io non ne trovavo; ero rinchiusa in un mondo che non mi apparteneva e che percepivo ostile.
Tutto da quando sono nata era andato male: mi avevano abbandonata all’ospedale, avevo perso la mia gemella, sicuramente era morta appena nata, non ho mai ricevuto amore. Sono stata usata.
Ero solo una marionetta con dei fili gestiti a piacimento da tutti.
Mi domandavo, in oltre, il motivo di tutto questo male, ma è nulla rispetto a quello che mi succederà. Facciamo un passo indietro e torniamo a me, nella mia modesta casa, con il mio cagnolino al seguito, come un ombra.
-SIGNORINA EMILY?- La voce di Madame Louis mi aveva portata alla triste realtà; corsi alla porta e la spalancai preoccupata, perdendo tempo a togliere tutti i giri di chiave di entrambe le serrature.
-Madame Louis?!- Vidi la alta signora che per mano teneva il piccolo Richard.
Fu lui a parlare:- Emily, questo deve essere tuo- mi porse una scatolina di ferro, la guardai accigliata e poi la riconobbi. La nascosi quel giorno, quando mi fu portata via l’unica cosa di cui pensavo avevo diritto decisionale.
La aprii davanti a lui, che mi guardava impaziente. Non aveva guardato il contenuto, non si era permesso di farlo.
-C’è una semplice bandana, Richard. Nulla di interessante-
-No no… chi te l’ha regalata?- Era davvero curioso, mi guardava spazientito, come Madame Louis stanca.
Teneva ora le mani in grembo, e se le toccava e attorcigliava in modo ossessivo.
Poi mi ricordai della regola: Nessuno poteva portare i bambini fuori dall’orfanotrofio.
Lei però l’aveva fatto, Richard in pochi giorni aveva conquistato anche la vecchia Louis.
-Non lo so. Me l’hanno trovata messa quando sono arrivata all’orfanotrofio- risposi titubante, se farli entrare o se accorciare i tempi e farli tornare a casa loro. Perché lo era.
-Madame Louis vuole…- mi bloccò mettendomi una mano sulla spalla, pronta a parlare:
-A noi, Richard, piace pensare che quella bandana fosse dei suoi genitori. Per le persone come Emily e me gli oggetti sono l’unica cosa che ci porta alle nostre origini. Non possiamo contare nemmeno sui ricordi-
Richard guardava rapito l’anziana donna, così saggia e così burbera allo stesso tempo.
-Entrate?- chiesi con gli occhi rivolti al vuoto. Non aprivo quella scatola da quando non ero più pura; avevo affibbiato la colpa tutta ai miei genitori, per avermi abbandonata e quindi portata in quel posto infernale, ovvero fra le braccia di quell’uomo a cui non attribuivo nessuna colpa, stupidamente.
-Meglio tornare all’orfanotrofio. Non dovremmo essere qui- Rispose Madame Louis assorta nei suoi pensieri, che erano indistricati misteri. Prese di nuovo la mano di Richard, che sorrideva felice verso di me, si avvicinò e mormorò sicuro:- Dovresti conoscere mio fratello maggiore Mark, dovrebbe avere la tua età-.
E rimasi lì inebetita sull’uscio della porta. Se Richard aveva un fratello della mia età… perché era in un orfanotrofio?

 
  
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