[Pixie’S POV]
-bzzzzzbzzzz-
Chi cazzo era il
coglione che rompeva le palle a quella fottutissima ora della mattina?!
Allungai il braccio
verso il telefonino, aprii un occhio per guardare il display e lo lanciai
schifata sul comodino.
Bob.
Perché cazzo non
riusciva a capire che di lui non me ne fregava più niente?! In che cazzo di
lingua dovevo dirglielo?!
Infilai la testa
sotto il cuscino tentando di riprendere sonno, ma ormai era inutile, quel
coglione mi aveva irrimediabilmente svegliata.
Sbuffai di nuovo e
mi girai a pancia in su.
“Beh che hai da
guardare tu?” Ommioddio stavo davvero parlando con il poster di John Lennon che
avevo sul soffitto? Dovevo trovare qualcosa da fare… e anche subito!
Mi alzai e
sbadigliai stiracchiandomi, poi mi affacciai alla finestra e respirai a pieni
polmoni l’aria fresca che proveniva da Sunset Boulevard.
“Buongiorno LA!”
sussurrai e scoppiai a ridere da sola. Stavo raggiungendo preoccupanti livelli di follia, meglio fare
una doccia.
Dopo essermi
cambiata, preparai i pancakes e mi sedetti a tavola accendendo la tv. Josie
doveva aver guardato uno dei suoi speciali di musica perché la televisione era sintonizzata su MTV; presi
il telecomando per cambiare canale, ma improvvisamente il mio dito si bloccò.
Spalancai la bocca, la forchetta sospesa a mezz’aria… mi avvicinai lentamente
al televisore, incapace di controllare i miei movimenti, il mio corpo si
muoveva automaticamente, come una specie di automa. Sfiorai lo schermo, proprio
nel punto in cui quel ragazzino vestito di nero si agitava come un dannato con
la chitarra bianca in braccio. Ero come ipnotizzata, non riuscivo a muovere un
solo muscolo, quegli occhi, quelle mani, quel corpo… mi aveva colpito al cuore.
Lo osservai muoversi tra la sabbia, finchè il video venne improvvisamnte
interrotto da una donna vestita di verde, che annunciava la loro posizione in
classifica. My Chemical Romance si chiamavano… non li avevo mai sentiti
nominare in vita mia, eppure sembravano avere un enorme successo tra le
ragazzine.
Scossi la testa e
tornai a mangiare i miei pancakes che ormai si erano raffreddati.
Guardai l’orologio:
le 10… decisi di fare una passeggiatina su Sunset Strip, giusto per fare un po’
di sano shopping domenicale, inoltre avevo un disperato bisogno di aria, dopo
quella visione che mi aveva intontito da morire.
[Josie’S POV]
“Ma chi cazzo ha
lasciato le tende aperte?” mi ritrovai a pensare quando un fottuto raggio di
sole di una splendida domenica mattina di Luglio, mi risvegliò dal tanto
beneamato sonno che bramavo da tutta la settimana.
Provai a voltare la
testa dall’altra parte ma l’oscurità della stanza se n’era ormai andata e il
calore del mattino aveva cominciato a diffondersi dappertutto.
Così sbuffai e capii che per
quel giorno avevo finito la mia dose di sonno. E fino a domenica prossima non
se ne riparlava…bella merda proprio…
Tanto valeva alzarsi
a quel punto…di dormire ormai non se ne parlava più.
Scostai le coperte e
mi diressi verso il grande specchio nel centro della stanza, pronta per la mia
routine quotidiana…ovvero specchiarmi prima di fare qualsiasi altra azione.
Non lo facevo per
superbia, come potrebbe apparire ad un primo sguardo…il fatto è che fin da
piccola avevo sofferto di complessi di inferiorità nei confronti di tutto il
genere femminile.
Costantemente
paragonata all’eterea bellezza di mia sorella maggiore, ero cresciuta nella sua
ombra e nel continuo desiderio di assomigliarle quanto più possibile. Concorsi
di bellezza, sfilate, copertine…l’avevo vista crescere e farsi strada nel mondo
dello spettacolo e della moda, ed io non avevo potuto fare altro che invidiarla
di nascosto e soffrire per quella costante inferiorità che mi avrebbe sempre
caratterizzato.
“Josephine è carina
certo…ma Jules è la perfezione fatta persona…” nella mia famiglia, nessuno si
era mai fatto troppi scrupoli, nessuno aveva mai pensato alla possibilità di
segnare la vita di una bambina di 5 anni con discorsi come quello, che mi
venivano sputati in faccia come veleno.
Ed anche se c’erano state molte persone che nel
corso degli anni mi avevano convinta che non fossi proprio da buttare, quel
senso di inadeguatezza mi era rimasto.
Comunque per quella
mattina decisi che potevo andare, e raccolti i capelli in cima alla testa me ne
andai in cucina dove tra uno sbadiglio e l’altro mi accorsi del piatto di
pancakes sulla tavola e di un bigliettino rosa stropicciato “Dormigliona! Non
uccidermi ma sono andata a fare shopping! Non ti ho svegliata perchè allora sì
che avrei rischiato veramente la morte…quindi prenditela con te stessa e con la
tua scazzosità se oggi pomeriggio io sarò quella con un sacco di vestiti e tu
quella che ha passato tutta la mattina a letto! PS. Ti ho fatto i pancakes mi
perdoni?”
Sorrisi alla vista
della calligrafia tondeggiante di P e mi sedetti al tavolo gustando i suoi
meravigliosi pancakes alla banana.
Avrei potuto vivere
per il resto dei miei giorni su un’isola deserta a condizione che ci fossero
quei pancakes con me…
La prima volta che
li avevo assaggiati era anche la prima volta che avevo visto P.
Si era trasferita da
poco nella casa accanto alla mia quando abitavo ancora con il mio ex ragazzo
Tony e mi ricorderò sempre di quando una mattina era venuta a suonarmi a piedi
nudi e con solo una maglietta addosso.
“Ciao mi chiamo
Patricia, ma puoi chiamarmi P…sono la tua nuova vicina e stamani mi sono
svegliata con una voglia irrefrenabile di pancakes alla banana solo che…mi
manca il fottutissimo zucchero…!” mi aveva detto sorridendomi.
“Ringrazia che non
ti abbia aperto il mio ragazzo…” avevo detto io squadrandola da capo a piedi e
soffermandomi sulla maglia che a malapena le copriva le mutande.
“Perché lui non me
lo avrebbe dato lo zucchero?” e si era messa a ridere in un modo così delizioso
che non avevo potuto fare altro che seguirla.
“Tieni lo zucchero”
le avevo detto qualche minuto dopo, dandole il barattolo “Ricordati che ne
voglio un po’ di quei pancakes altrimenti puoi anche scordarti la possibilità
di diventare amiche!”
“Contaci!”
Qualche ora dopo
eravamo sdraiate tra i cuscini del mio salotto ad ingozzarci di pancakes
davanti a Notting Hill.
Da quel momento
erano passati 2 anni.
Ci eravamo
conosciute, eravamo diventate amiche ed insieme avevamo condiviso miliardi di
avventure…dallo shopping sfrenato alla decisione di scappare da Tony nel mezzo
della notte.
Lo squillo del
telefono mi fece piombare con i piedi per terra e masticando sollevai la
cornetta appesa al muro.
“Uhm…pronto?”
“No...non ci posso
credere! Josie stai bene? E’ domenica..lo sai questo vero? E’ domenica mattina
e sono le 11…che ci fai in piedi?”
Trattenni a stento
una risata di euforia e cercai di darmi un tono sostenuto
“Adam Lazzara…sei
sicuro di stare bene tu? Non è che hai sbagliato numero di telefono e hai fatto
per caso il mio? No perché sono secoli che non mi chiami e stavo cominciando ad
accarezzare l’idea che fossi scomparso…se non fosse per le interviste, le foto,
i concerti…”
“Ah ah…la simpatia
non ti ha mai abbandonato, hun!”
“Me lo dicono
tutti…” sorrisi felice.
Adam era il mio
migliore amico dai tempi delle elementari a High Point, in North Carolina.
Eravamo cresciuti
insieme, avevamo visto i nostri sogni e desideri cambiare forma e maturare nel
corso degli anni; lui sarebbe diventato una grande rockstar e avrebbe girato il
mondo e io sarei stata la sua groupie personale.
Era tutto perfetto
fino al giorno in cui io ero salita sul primo pullman per Los Angeles dopo
l’ennesima litigata con i miei.
Non ne potevo più
delle loro occhiate, delle loro frustrazioni puntualmente riversate su me e mia
sorella, come se solo in quel modo riuscissero a stare meglio.
Se io e Jules
fossimo state più legate, sicuramente l’avremmo presa insieme la decisione di
fuggire e certo tutto avrebbe avuto un altro aspetto.
Ma io e Jules non
siamo mai state unite, non ci siamo mai sentite sorelle, troppo impegnate fin
da piccolissime in quella ridicola competizione instillataci da tutti quelli
che ci circondavano.
E così quando quel sabato
mattina andai a bussare alla finestra della camera di Adam con solo uno zaino
in spalla, sapevo che l’unica persona al mondo con la quale avrei voluto
scappare era proprio lui.
Solo che lui non
poteva abbandonare tutto. Lui, a differenza mia, aveva provato a concretizzare
i suoi sogni e c’era quasi riuscito. Aveva una specie di band, i Dumbfound, e
non avrebbe potuto mollare tutto per seguire me in un viaggio verso l’ignoto.
“Tra qualche mese ti
raggiungo, Josie, promesso!” aveva detto mentre ce ne stavamo seduti su una
panchina fuori la stazione.
“Non fare promesse
che sai di non poter mantenere, Lazzara…”
“Fammi solo
sistemare le cose con gli altri…Los Angeles è quello che serve alla band per
sfondare…è un’occasione unica!”
L’avevo guardato
scettica.
“Nel giro di qualche
mese verrai a prendermi al LAX, vedrai!”
Mi ero alzata in
piedi quando avevo visto il pullman arrivare. “E’ una promessa?”
“E’ molto di più!”
Ci eravamo
abbracciati e quando l’avevo visto farsi sempre più piccolo mentre il pullman
sfrecciava verso la mia nuova destinazione, non ero riuscita a scacciare via la
terribile sensazione di averlo visto per l’ultima volta.
“Allora hun…che mi
racconti?” la sua voce allegra irruppe nei miei pensieri.
“Che devo ancora
riprendermi dallo shock di aver sentito la tua voce”
“Esagerata!” e
scoppiò a ridere.
“Ridi, ridi…ti
ricordi quando è stata l’ultima volta che ci siamo visti?”
Seguirono attimi di
imbarazzato silenzio.
“Ecco appunto”
“C’era una festa…”
cominciò a dire.
“…e c’era
birra…molta birra…”
“Ok lascia perdere
Lazzara…ti sei sforzato abbastanza”
Sospirai e risi
“Comunque era il tuo compleanno…ed era 3 anni fa…e tu ti sei preso una sbronza
colossale…”
“Già…” sembrava come
se stesse richiamando a sé dalle profondità nascoste della sua mente chissà
quali complicati ricordi “E Nathan mi ha trascinato a letto senza nemmeno
togliermi le scarpe…”
Alzai gli occhi al
cielo e sospirai “Credimi…tuo fratello ha tutta la mia comprensione”
“Hai chiamato per
infierire?” esclamò ridendo.
“Cosa? Ma se sei
stato tu a chiamare!”
“Ah. Cazzo hai
ragione!”
Risi e presi
un’altra forchettata di pancakes.
“Ma che fai mangi?”
fece lui, sentendomi masticare chiaramente.
“Si…” ingoiai “sai
com’è…mi hai chiamato nel bel mezzo della colazione..è già tanto che abbia
risposto..”
“In tal caso devo
arrivare subito al dunque…”
“Perché c’è mai
stato un “dunque” nei tuoi discorsi?”
Lo sentii sbuffare
all’altro capo della linea. “Vuoi che butti giù e richiami quando ti inviterò
al mio matrimonio?”
“Ok ok…scusa…non ho
ancora capito com’è che siamo arrivati al punto in cui sono io a chiedere scusa
a te, ma comunque…a proposito…come sta Chauntelle? Adesso è quasi un anno che
state insieme, no?”
“Sì è un anno.
Comunque sta bene…adesso è in tour…non ci vediamo da un po’ effettivamente”
Intuii dal suo tono
che preferiva cambiare discorso, così mi affrettai a trovare subito qualcos’
altro da dire, ma lui mi precedette.
“Allora…mai sentito
parlare del Projekt Revolution?”
Per poco non
soffocai con il succo alla pesca.
“Intendi il Projekt
Revolution dei Linkin Park? Quel…Projekt Revolution?”
“Ne conosci altri?”
“Effettivamente no”
“Bene…ti andrebbe di
farci un giretto?”
Stavolta fui sul
punto di soffocare con un boccone di pancakes.
“Sempre se riuscirai
ad arrivare viva alla fine della telefonata, si intende…” fece notare lui
sospirando.
“Ok ci sono!” mi
assicurai di aver ripreso una respirazione normale e aggiunsi “Quando si
parte?”
Adam scoppiò a
ridere. “Ecco la Joe che conosco e amo!”
Per una frazione di secondo ebbi una fugace visione
di me e Pixie nel backstage del PR…la folla accaldata ed inferocita lì davanti,
la musica dagli amplificatori…i musicisti! Ne avremmo conosciuti a
palate…chitarristi, bassisti, batteristi…coloro che il rock lo producevano. E
sarebbero stati lì, a portata di mano.
Come avevo sempre sognato fare.
“Allora…sarai
contenta di sapere che anche noi ci esibiremo nel Main Stage, insieme ai Linkin
Park, agli HIM, ai Placebo, ai My Chemical Romance…”
“Sono quelli emo?”
lo interruppi.
“Joe…”
“Ok scusa…non sono
emo, va bene.”
Scoppiò a ridere
“Prova a dirlo davanti a Gerard..!”
“Ci proverò!” lo
sfidai.
All’improvviso
sentii un rumore assordante in sottofondo, come di un amplificatore gracchiante
al massimo del volume.
“Lazzara, ma dove
cazzo sei?” urlai nel ricevitore.
“Joe…scusami…devo
andare…ti richiamo ok? Comunque il 27 siamo a Marysville…” gridò sopra il
rumore assordante che continuava imperterrito.
“…Sleep Train Amphitheatre...” riuscii a capire prima che la conversazione cadesse.