Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer
Segui la storia  |       
Autore: ifeelconnection    12/08/2014    2 recensioni
Trailer ff (solo dal pc) : https://www.youtube.com/watch?v=Qo_-XTvXL18&list=UUkTpHJdJ_jh70flk4GhRISg
------------------------------------------------------------------------------------------------------
E’ l’ultima settimana al Norwest Christian College e Juliet non potrebbe essere più contenta. Con lei c’è Ashton, tra loro c’è sempre stato feeling , ma Ashton e Juliet sono come la corrente elettrica: non sai mai quando può saltare. Una sera si rendono conto che c’è qualcosa di sbagliato nel loro amore, un filo invisibile che li lega, troppo stretto per lasciarli andare ma troppo lungo Poi ci sono Luke e Violet: non sono amici, non sono fidanzati, non sono da etichettare, non ce n’è bisogno. Luke ed Ashton sono in una band, i 5 Seconds of Summer, con Calum e Michael. Calum è un Romeo, ma forse le cose non devono andare come vorrebbe. Michael invece non si fa capire da nessuno, tranne che da Violet. In quel giorno di Gennaio le cose cambiano,quel pomeriggio arriva : forte , terribile , inevitabile. Sarà una lotta tra vita e morte per salvare loro stessi. Le convinzioni saranno stravolte, dovranno combattere per riavere quello che erano e faranno i conti con qualcosa di più grande. Rimane solo una certezza: la loro musica. Avranno il coraggio di ricomciare?
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 Image and video hosting by TinyPic

Feeling Connected

14. Strength For Two









Tutto sembrava troppo rumoroso. Il vento che mi soffiava nelle orecchie, i gabbiani che volavano in cerchio a pochi metri da me e facevano quel loro verso strano, le urla delle persone che avrei soffocato con tutto me stesso. Io almeno le urla me le tenevo dentro, come le domande che mi vorticavano in testa: sono vivi? Dove sono? Perché sono da solo?
Nessuno di quei rumori però, era paragonabile al boato che c’era stato prima che l’acqua spazzasse via tutto, le mie certezze in primis. Da allora non avevo sentito più niente e non erano certo questi i suoni che avrei voluto sentire; forse avrei preferito risvegliarmi in chissà quale spiaggia deserta, invece che tra persone che in due giorni non avevano fatto altro che aumentare la mia voglia di scappare. E forse avrei potuto farlo, se non fosse stato per lei.

Quattro giorni prima . Giorno 2, settimana 1. Calum Hood, sopravvissuto.

Mi alzai in piedi di soprassalto, pronto a scattare in avanti e afferrare la ragazza del mio sogno per salvarla dall’acqua, quando mi accorsi che davanti a me non c’era nessuno. Dovevo aver rifatto lo stesso incubo di poche ore prima, che poi , non era altro che un rivivere la realtà da addormentato. Non riuscivo a dormire per più di un paio d’ore, da quello che riuscivo a capire dalla luce del sole, visto che mi ero categoricamente rifiutato di parlare con chiunque anche solo per chiedere che ora fosse o che giorno. Mi buttai a sedere sulla sabbia, tirandone via una manciata con un gesto di rabbia della mano e le lacrime agli occhi, tanto che dovetti sforzarmi per asciugarmi gli occhi prima che qualcuno potesse vedermi . Mi sentivo colpevole di qualsiasi cosa, di non averle afferrato la mano , così nella più improbabile delle ipotesi saremmo stati insieme, di non averle detto che l’avrei ritrovata, persino del fatto che fosse il mio compleanno. Magari se quello fosse stato un giorno come tanti altri, non sarebbe successo niente a noi, magari l’onda non sarebbe arrivata nel nostro tranquillo quartiere e noi saremmo salvi, perlomeno tutti insieme. Evidentemente non ero stato abbastanza veloce nel nascondere i miei sensi di colpa, tanto che una voce femminile dietro di me disse
“Deve mancarti davvero tanto.”
Mi girai di scatto per vedere chi fosse stata a parlare e vidi a pochi passi da me una ragazza che non avevo notato il giorno prima ma che probabilmente non si era mai mossa da lì, a giudicare dalle gambe messe piuttosto male, che giacevano martoriate dalle ferite aperte e sembravano aver perso i muscoli, visto che erano praticamente immobili. Eppure lei aveva un aspetto così vitale, per quanto dal suo viso trasparisse un’evidente nostalgia. Mi limitai ad abbassare lo sguardo
“Hai detto molti nomi e tante volte , ma ce n’era uno che ripetevi più spesso, l’ultimo che hai detto prima di svegliarti.”
Due grandi occhi color verde smeraldo mi fissavano a metà tra i comprensivi e gli interrogativi e io risposi
“E’ la mia migliore amica. E ho sognato la mia famiglia, credo.”
Adesso rideva, scuotendo i capelli corvini in modo da toglierseli dalla faccia, visto che con le braccia era impegnata a reggersi .
“Se fosse la tua migliore amica non le diresti quello che le hai detto nel sonno.”
Mi vergognai improvvisamente e sentii il viso scaldarsi leggermente, quando mi ricordai che non c’era nulla da cui doversi nascondere , quella ragazza non mi conosceva ma sapevo di potermi fidare di lei.
“Beh, non è la mia ragazza.”
“Ma vorresti che lo fosse.”
Stavo per rispondere un po’ contrariato, era pur sempre un tasto dolente, ma quella ragazza non aveva fatto niente di male. Le sue gambe mi facevano paura, adesso che guardavo meglio. Erano coperte di tagli, molti dei quali avevano assunto uno strano colore molto scuro, tendente al nero ed erano quasi tutte ferite aperte, tranne per quelle che sembravano pulsare. Sul suo viso non c’era alcun accenno di dolore, era come se fossero separate dal resto del corpo, in quella terribile immobilità.
“Stai bene? Hai una faccia un po’… Oh, le mie gambe. Non preoccuparti, non sento nulla.”
“Cosa è successo?”
Notai che non aveva nemmeno la voce tremula, nonostante nel suo respiro si potesse chiaramente sentire l’affanno dovuto alla posizione scomoda, sostenuta completamente da due braccia sottili.
“Non sento le gambe, da quando sono nata. E mi hanno ritrovata praticamente sotto questo albero.-
Disse indicando il tronco macchiato di sangue proprio accanto a lei.
-Perciò non sento nulla. Il tipo che mi ha tirata fuori ha detto che è un miracolo che non sia già morta.”
Inorridii a quelle parole. Come si può dire una cosa del genere a una ragazzina che avrà avuto quanto, sedici anni? Lei se ne accorse e infatti continuò
“Oh tranquillo, è tutta la vita che mi sento dire che non sarei vissuta a lungo, non sarà certo questo a scandalizzarmi.”
Metteva sempre quell’ “oh” che faceva tanto Shakespeare quando parlava. Sembrava una ragazza d’altri tempi, con il suo aspetto delicato e fragile.
“Ma i soccorsi arriveranno, è questione di giorni e poi…”
Cercai di rassicurarla che sarebbe vissuta, magai l’avrei aiutata io stesso, avrei chiesto a qualcuno come medicarle le ferite.
“E di queste che mi dici?-
rispose indicando le ferite ormai annerite, quelle in stato peggiore
"Non sento il dolore ma le forze mi abbandonano in fretta.”
Concluse in un sospiro, portandosi una mano al costato e stringendo quel che rimaneva della sua maglietta come se potesse darle forza o riportarle l’ossigeno nei polmoni. L’altro braccio non resse il peso del suo corpo, le forze evidentemente le mancavano davvero, nonostante la sua apparente vitalità. Prima che io potessi correre e afferrarla per un braccio, la ragazza era caduta sui gomiti con un gemito di dolore e l’espressione contratta. Arrivai dietro di lei e le presi le spalle, nel tentativo di rimetterla seduta.
“Grazie, ma ce la faccio.”
Orgogliosa, un carattere che conoscevo troppo bene.
“No, non ce la fai.”
Mi sedetti dietro di lei, in modo da appoggiare la sua schiena alla mia e sostenere il suo peso, così che lei non avesse più da fare forza sulle braccia. La sentii respirare sommessamente e avvertii che si lasciava andare, appoggiando la testa sulla mia spalla. Sorrisi spontaneamente e mi girai verso di lei
“Calum.”
“Katherine. Katherine Broderick.”
Cominciai ad associarla sempre di più a quella ragazza Shakespeariana che era nella mia mente. Aveva un braccialettino argentato che non so come le era rimasto ancorato al polso, c’era scritto shelter. La osservavo con la coda dell’occhio mentre era immobile e vidi la sua espressione fiera mentre respirava con un po’ di affanno, come a voler trattenere l’aria dentro di sé per paura che ogni boccata fosse stata l’ultima. Il suo sguardo, il suo orgoglio quasi testardo e il suo modo di fare mi ricordavano lei e mi concessi un sorriso. Evidentemente ero una calamita per ragazze con forza d’animo e con grandi occhi verdi, quelle il cui amore o amicizia è una sfida conquistare. Mentre la osservavo addormentarsi sulla mia spalla e sentivo il suo respiro calmarsi pensai a quanto effettivamente fossero simili, stesso spirito combattivo, stessa fierezza. Decisi che si, shelter era un aggettivo che le si addiceva; l’avrei protetta io, glielo dovevo. Lo dovevo alla seppur rassegnata voglia di vivere di Katherine e al ricordo di Juliet, che per il momento era tutto ciò che mi restava.

Tre giorni prima. Giorno 3, settimana 1. Katherine Broderick, sopravvissuta.

Calum sta cercando di tenere gli occhi aperti quando mi sveglio il giorno dopo, devo aver dormito tantissimo, con una strana tranquillità in corpo. Penso che me la merito infondo, a giudicare dalle mie gambe, potrebbe essere uno dei miei ultimi momenti di pace. Katherine, tu sei forte. Mi torna in mente la voce di mia madre , quando a sei anni ero caduta dalla sedia e mi ero sbucciata un ginocchio. Mi aveva detto quelle parole mentre mi guardava cercare di rimettermi su di essa, dalla soglia dell’ingresso. Quando aveva capito che ci avrei provato da sola si era fermata a guardarmi e alla fine ce l’avevo fatta. Con le mie fragili braccine e il mio corpo esile. Un ginocchio sbucciato però era diverso da tutti quei profondi tagli. Non mi riconosco più, questa non è la me che combatte, io mi sto rassegnando a morire. Io che ho sempre voluto lottare , dimostrare a tutti quanto si sbagliano. Lo devo a mia madre, a me stessa e a Calum, che non ha esitato a confortarmi. La sua non è cortesia, lo leggo nei suoi occhi che è sincero quando mi dice che i soccorsi arriveranno. E forse lo faranno, ma spero che sia presto. Le gambe mi diventano sempre più nere e stamattina un uomo ci ha portato dell’acqua. Poi è sparito, con la promessa che sarebbero arrivati i medici. Ha lasciato solo una promessa, che spero sia vera.

Due giorni prima . Giorno 4, Settimana 1, Katherine Broderick: sopravvissuta.

Calum si impegna ogni giorno per tentare di migliorare le mie condizioni fisiche. Niente serve veramente. So che l’unica cosa di cui ho bisogno è l’intervento di medici esperti, ma non posso mostrargli di essere consapevole di un’imminente morte.
Non avevo mai incontrato un ragazzo premuroso e determinato quanto lui. Anche dopo aver scoperto il mio problema alle gambe non si è tenuto lontano da me. Anzi, deve esserci qualcosa che lo ha fatto restare. Deve esserci qualcosa se di notte fa fatica ad addormentarsi e mi osserva con fare protettivo. Se non ci fosse stato lui, sarei morta molto prima.
D’altra parte io non ho quasi chiuso occhio dal giorno dell’onda anomala. Può essere il dolore fisico, sì, ma penso sia più che altro una specie di trauma. Se chiudo gli occhi per pochi secondi sento ancora il rumore dell’acqua infrangersi violentemente contro il mio udito e catapultarmi senza scrupoli verso terra, farmi fare capriole, entrarmi dalla bocca e dal naso; lasciarmi senza fiato. E non posso dormire, altrimenti tutti i ricordi affiorerebbero alla memoria e mi soffocherebbero.
E’ notte, notte fonda. Calum non ha ancora attaccato a parlare sommessamente nel sonno perciò deduco sia sveglio. Alzo il viso all’insù in modo da vedere le stelle. Luminose e distanti. Traccio con gli occhi i percorsi più strani. Le stelle mi avevano sempre aiutata a portare tranquillità in un animo troppo movimentato come il mio. Mi ricordo che da piccola, io e mio padre amavamo salire sul tetto della nostra casa nello Iowa e osservare le stelle. Mio padre era un appassionato. Mi insegnò ogni cosa che c’è da sapere sulle stelle. Sistemavamo un materasso sulle tegole di casa nostra, la mamma ci preparava la cioccolata calde e passavamo parecchie notti estive a studiare quel fenomeno così strepitoso. Poi quando avevo dodici anni, i miei genitori morirono a causa di un tornado e gli agenti sociali mi portarono fino a Sydney, dalla mia prozia Mary Jane. Fu difficile abituarsi al ritmo di una città grande come Sydney, ma imparai ad amarla a modo mio. Fino allo tsunami che mi fece sperare di essere morta tempo prima, in quel tornado, con i miei genitori. Odio in modo particolare le catastrofi che non posso controllare, mi hanno sempre costretto a cambiare.
“Calum?”
chiamo senza rendermene conto, spezzando il flusso dei pensieri.
Grugnisce piano come a domandarmi di continuare.
“Le vedi le stelle?”
chiedo sospirando, avendo cura di non svegliare chiunque sia nei paraggi.
“Sono bellissime.”
Asserisce con la voce roca e bassa. Non doveva aver parlato per molto tempo. Lo trovo adorabile. Il modo in cui pronuncia la prima parola, come a stiracchiarsi. Il modo in cui termina l’ultima parola, come in uno sbuffo leggero e quella voce roca capace di darmi la protezione che necessito.
“Anche Juliet vede queste stesse stelle.”
Abbasso la testa e mi giro leggermente, sempre schiena contro schiena, cercando di scorgere una qualche espressione. Tace per un po’ assimilando l’informazione.
“La troverai, te lo giuro.”
Gli scompiglio i capelli e lo vedo annuire.
“Sì.”
Annuisce più vigorosamente. Ha gli occhi che brillano più delle stelle. Determinazione. La stessa qualità che credo di avere anche io.
“Katherine.”
Ora è lui a girare il capo verso di me.
“Tu me la ricordi molto. Il modo in cui non vuoi che nessuno provi compassione per te. Il modo in cui preferisci fare tutto da sola. Il tuo sorriso timido.”
Sorrido leggermente. E lui fa un cenno come a indicare quella piccola curva sulla mia bocca.
“Il mio nome shakespeariano.”
Aggiungo ridacchiando.
“Diciamo anche.”
Prende a ridere. La sua voce rimane roca perciò la sua risata appare sommessa e terribilmente riscaldante.
Mi accoccolo meglio che posso e chiudo gli occhi, usando quel suono così rilassante come sonnifero. La prima e unica notte in cui dormo. Il resto guardavo le ferite alle gambe peggiorare sperando con tutto il cuore di non morire. Sete di sopravvivenza dovuta solo a Calum. Non mi perdonerei mai di lasciarlo in preda alla solitudine ora che so di ricordargli Juliet. Se morissi, lui perderebbe una parte delle speranze nel trovarla. E non posso permetterlo. Devono ritrovarsi. Deve dirle quello che ripete ogni notte, inconsapevole. La mattina mi domanda sempre se ha parlato nel sonno, so che lo mette a disagio ed è più che normale: parlare inconsciamente dei fatti propri con un’estranea non piace a nessuno. Continuo a negare, un po’ per vederlo sollevarsi, un po’ per tenere segrete quelle confessioni strane, in balia di una sincerità che solo i bambini e gli ubriachi hanno.
In pochi giorni stiamo legando tantissimo come mai avevo fatto con nessuno. Sarà che quando le situazioni sono critiche, ci si dimentica del “non parlare agli estranei” e si ha più paura di essere soli. Non abbiamo nulla da perdere, possiamo fidarci l’una dell’altro. So di essere letteralmente appoggiata a lui. La mia vita lo è. Dipende da lui e da quanto lotta per entrambi. È forte, Calum. È coraggioso, ha negli occhi un ardore, un bisogno di rivincita. Lui ce la farà, lo so.

Giorno 6, settimana 1. Calum Hood , sopravvissuto.

Ormai dovevo sforzarmi di vivere per lei, che non ne aveva più la forza. La vedevo prosciugata da ogni respiro, ogni movimento , anche solo per girare la testa sembrava costarle una fatica enorme, tanto che da un po’ ormai non faceva più nemmeno quello. Si limitava a fissare il vuoto ferma in quella posizione, stesa sulla sabbia con qualche foglia di palma come cuscino. Mi aveva detto di voler restare distesa, che stare seduta le faceva male alla schiena. Le labbra le erano diventate bianco latte, come il viso e adesso gli occhi verdi sembravano gemme incastonate in una cornice un po’ troppo chiara. L’acqua aveva cominciato a scarseggiare, da quando un uomo era venuto a portare qualcosa. Si era rifiutato di caricare morti o feriti, con la promessa che i soccorsi sarebbero arrivati presto. Non riuscivo a spiegarmi come mai, dopo giorni, nessuno fosse arrivato. Per quanto sperduta dovesse essere quella spiaggetta, era impossibile che non avessero mandato elicotteri. Katherine non era l’unica ferita gravemente, c’erano altre persone messe piuttosto male, altre sull’orlo della follia, provate dalla paura di aver perso tutto. Evidentemente Sydney era ridotta malissimo, se non erano ancora riusciti a trovare noi. Mi voltai verso la ragazza, che adesso aveva le labbra socchiuse e gli occhi aperti con fatica.
“Calum,-
Mi chiamò come leggendomi nel pensiero, con quella sua voce debole ma con una punta di determinazione.
-potresti portarmi dell’acqua?”
“Manderò qualcuno, non ti lascio qui da sola.”
Non volevo lasciarla sola in mezzo al caos, avevo promesso che l’avrei protetta e farlo significava stare con lei , sempre.
“Come vedi non vado da nessuna parte. Ho bisogno di acqua, ti prego.”
Dovevo portarle dell’acqua, aveva le labbra visibilmente secche e parlava con voce impastata. Vidi una donna seduta poco lontano, mi ricordava molto mia madre. Decisi di affidare Katherine a lei, aveva il viso della donna di cui ci si può fidare e dovevo fidarmi, non c’era un’alternativa.
“Torno subito, Kat.”
Le dissi dandole un bacio sulla fronte, il primo da quando l’avevo conosciuta. Lo feci per trasmetterle la mia forza, per dirle che non l’avrei abbandonata adesso.
“Ti aspetto.”
Mi sussurrò in un orecchio, sfiorandomi il braccio. Mi allontanai titubante e mi avvicinai alla donna.
“La prego, vada da quella ragazza, la curi, per quel che può fare. Io devo prenderle dell’acqua. Per favore.”
Lo dissi tutto d’un fiato, come con disperazione. Katherine sarebbe vissuta, doveva farlo. Le avrei presentato gli altri, le avrei fatto conoscere Juliet, di cui le avevo tanto parlato e su cui lei mi aveva dato tanti consigli, come si fa tra amiche per le ragazze, suppongo. Katherine doveva vivere, io la dovevo proteggere, come non ero riuscito a fare con Juliet, e anche lei era viva. La donna alzò lo sguardo e mi strinse le mani, poi annuì vigorosamente. Doveva aver perso un figlio, perché si avvicinò a lei con fare materno . La sua espressione si riempì di orrore e paura quando guardò le gambe della ragazza e le disse qualcosa che mentre mi allontanavo non riuscii a capire.
Cominciai a correre, sapevo che ci stavo mettendo troppo tempo. Poteva essere passata un’oretta, finchè non trovai una donna che aveva in mano una bottiglietta d’acqua. Una delle poche rimaste, portateci da quell’uomo poi scomparso. Mi avvicinai alla signora.
“La prego, ho bisogno della sua acqua. Le prometto che poi andrò a cercarla e gliela riporterò indietro, però ne ho bisogno adesso, la prego.”
La signora mi puntò due profondi occhi scuri addosso e mi rispose
“Guardati intorno ragazzo. Tutti hanno bisogno di acqua e questa è una delle ultime bottigliette. Perché dovrei darla a te, mi pare che tu sia piuttosto in forze, se corri in quel modo.”
Dovevo avere quella bottiglietta, più il tempo passava più lei ne aveva bisogno.
“Non è per me. Lei… Sta molto male, ha bisogno di acqua. Quella ragazza laggiù… Glielo chiedo per favore, ne ha davvero bisogno. Le prometto che andrò a cercare altra acqua per lei, ma adesso mi serve la sua… Glielo chiedo per favore, mi lasci aiutare Katherine.”
La stavo praticamente implorando, sentivo che lacrime di rabbia avrebbero minacciato di uscire. Tesi la mano in avanti, con la speranza che mi desse l’acqua. La donna chiuse gli occhi per un istante e mi tese la bottiglietta. Con un infinito senso di gratitudine le dissi grazie e nello stesso istante, una jeep rossa si vide in lontananza sulla sabbia: i soccorsi erano arrivati. Cominciai a correre sempre più veloce, contento di dare a Kat buone notizie, i soccorsi stavano arrivando e l’avrebbero salvata. Quando ero ormai a poco più di cento metri da dove si trovava lei, la donna urlò e poi scoppiò a piangere. I miei piedi ebbero uno spasmo e poi non mi resi nemmeno conto di quello che feci. La bottiglietta mi scivolò dalle mani e il corpo di Katherine freddo sotto le mie mani divenne una realtà , non più solo l’incubo che mi aveva tormentato per le notti precedenti.
“Ci ho provato, non ci sono riuscita a tenerla d’occhio, scusami , scusami!”
Mormorava la donna toccandomi le spalle e io la scansai con un gesto, fissando incredulo il volto sereno e disteso della ragazza dai capelli corvini.
“Kat, sono io. Ho l’acqua.”
Il petto gracile non aveva più nessun movimento e io sentivo lacrime fredde come ghiaccio solcarmi le guance
“Katherine, sono io, Calum. Katherine, ti prego, ti ho portato l’acqua!”
Urlai scuotendola delicatamente, nel tentativo di svegliarla da quello che sembrava un semplice sonno, tanto era serena la sua espressione.
“Non puoi andartene , non puoi!”
Le tenevo i polsi con forza, come a reclamare che avevo bisogno di lei, mentre le mie lacrime le bagnavano il viso.
“Io dovevo proteggerti, lo capisci? Lo avevo promesso.”
Un uomo che non avevo mai visto , vestito di rosso mi prese per le spalle e mi costrinse a lasciare il corpo della ragazza
“Mi dispiace tanto , mi dispiace!”
Non potevo abbandonarla, dovevano lasciarmi almeno restare con lei. Mi meritavo tutto questo perché non ci ero riuscito.
“E’ morta, ragazzo, non serve portarla in ospedale, mi dispiace.”
“Tu non capisci!”
Gli gridai in faccia, mentre tentavo di liberarmi dalla sua stretta di ferro, che mi teneva le spalle . Un altro uomo si era avvicinato a Katherine, che appariva così distante, come se la vita l’avesse lasciata da molto più tempo.
“E’ colpa mia. Non le ho portato l’acqua in tempo.”
Dissi tra un singhiozzo e l’altro. Crollai sulle ginocchia, facendo sbilanciare l’uomo, che non mi ritirò su. Mi fermai a guardare l’uomo che copriva con un telo la ragazza e feci appena in tempo a vedere per l’ultima volta il suo viso. Mi piegai fino ad affondare la faccia tra le mie ginocchia piegate, per togliere via dalla mia vista qualsiasi cosa che non fosse l’immagine di lei viva, che mi guardava con quei grandi occhi verdi. Avevo fallito due volte: con Juliet e con Katherine, con la quale avevo fallito doppiamente.
“Avevo promesso.”

Note di Viola e Martina:

Heyaaaa bei fanzetti tunz tunz! No eh? No infatti, come inizio è pessimo. Mi è mancato scrivere ma sapete, tra una mancanza d'ispirazione e un impegno , il tempo non lo trovavamo! Allora, eccoci qui con Calum, che rivediamo per la prima volta da quando abbiamo sconvolto gli animi con un bagnetto per i nostri protagonisti. Calum è forte, vuole tornare alla sua vita di prima, vuole ritrovare Juliet. Questo ci fa capire quanto sia forte il suo amore per lei, questo è il Calum che io e Viola ci sentiamo di presentarvi. E poi arriva lei, Katherine. Gli ricorda Juliet ed è un personaggio che , seppur presente in un solo capitolo noi adoriamo e la cui memoria aiuterà molto il nostro mr. Hood . Detto questo, ci scusiamo tanto e sappiamo che non siamo riuscite nel farci perdonare, ma solo a farci odiare un po' di più ogni capitolo! Ci farebbe tanto piacere una piccola recensione, accogliamo con rispetto anche le critiche. Adesso, dopo questo trattato universitario (?) voglio ringraziare diverse ragazze:
Greta, perchè recensisce sempre e ci fa sempre complimenti, ti adoriamo <3

Ally, che è sempre curiosa di sapere della storia :*
Kikka, che ama tanto i Lulet :3

Diana, la nostra Bae, che ci supporta sempre e che facciamo morire di ansia <3
Lily, che ci ha fatto tanti complimenti, la quale non ringrazieremo mai abbastanza :*
Fraye, che ha spesso recensito! :)
Grazie mille a tutte!
E grazie per le +1000 visite al primo capitolo, è incredibile!
Tita e Violet x

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer / Vai alla pagina dell'autore: ifeelconnection