Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance
Ricorda la storia  |      
Autore: Im_Not_Okay    16/08/2014    6 recensioni
- Gerard, cosa sta succedendo? – soffiò, impaurito dalla risposta che avrebbe potuto ricevere.
Gerard si morse il labbro inferiore: - La tua gamba è messa male, Frankie. – gli accarezzò la guancia con la mano libera, non riuscendo comunque a distogliere gli occhi da quelli dell’altro – Devono amputarla.
-
Cosa?! No, io non... – sembrava sopraffatto. Tutto quello che stava succedendo lo avrebbe portato velocemente alla distruzione – Perché non mi lasciano semplicemente morire, Gee?
- - - - - - - - - -
Descrizioni per stomaci forti.
Metto l'arancione perché il rosso mi sembrava un po' esagerato.
Se avete le lacrime facili prendete i fazzoletti D:
E dopo aver fatto un mezzo macello con l'editor, dovrebbe essere a posto
Genere: Drammatico, Guerra, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Non so che cosa dire.
Sono secoli che non pubblico nulla, e mi sento in colpa. Questa storia è per le
26 persone che per qualche motivo continuano ad infilarmi negli autori preferiti, grazie :)
Per
Paura della Luce... non dovrete attendere troppo per gli aggiornamenti, non preoccupatevi.
Ora vi lascio alla storia ^-^"





 
 
To the Soldier, the Civillian
the Martyr, the Victim:
This is
War


 
[ 30 Seconds to Mars - This Is War ]
 


Quando erano bambini, Gerard e Frank erano convinti che le cose brutte fossero le punizioni, la scuola e i pugni – che qualche volta prendevano dai ragazzi più grandi. Brutto era essere costretti tutta la mattina in un aula con almeno altri venti bambini, a sentir la maestra parlare, senza mai ascoltarla troppo. Era avere il divieto di uscire a giocare con gli amici dopo che la mamma aveva scoperto una loro marachella. Erano i lividi violacei e dolorosi che gli comparivano sugli zigomi e le braccia quando Steve e gli altri se la prendevano con loro. Mentre le cose belle erano così... erano semplici. Una giornata di sole. Un pomeriggio passato a giocare insieme a nascondino. Un bel voto. Un regalo. Il Natale. Cose così stupide, così ordinarie... ma al contempo così integrate nella quotidianità da diventare necessarie, quasi indispensabili.
 
Solo che poi erano cresciuti. Gerard e Frank erano cresciuti.
 
Ed era arrivata la chiamata alle armi.
 
E le priorità erano diventate altre.
Era bello rivedersi vivi dopo un’altra orrenda giornata fatta di mine nascoste, proiettili e soldati che morivano davanti ai tuoi occhi, cadendo come pedine di una versione troppo cruenta del domino. Era bello sapere di essere sopravvissuti, nonostante ci fossero state tutte le possibilità di finire come il compagno di plotone che ha messo i piedi nel posto sbagliato. Era bello stare assieme in trincea, a parlare e giocare a carte, a scrivere lettere per far sapere alla famiglia che erano ancora tutti vivi. Ed era bello sapere di avere ancora tutti gli arti attaccati al corpo.
 
E se le cose belle erano così precarie, così... instabili, quelle brutte erano una realtà presente e tangibile, costante, che scorreva sotto ai loro occhi tutti i giorni, in ogni ora e momento, togliendogli anche la possibilità di chiudere gli occhi e rifugiarsi nel ricordo di tempi migliori.
 
I soldati che cadevano davanti ai loro occhi, la realizzazione che poteva essere stato uno di loro, a cadere in quel modo, non li lasciava indifferenti nemmeno dopo tre mesi e mezzo di quella insostenibile situazione. Le trincee esposte al freddo e alle intemperie. Il sangue sparso ovunque, sulle uniformi un po’ di tutti. I lamenti dei feriti costretti ad una morte più lenta e dolorosa del necessario. La paura rindondante che ormai aveva preso fissa dimora nell’anima di tutti, che stava segnando a vita tutti quelli che stavano combattendo quella guerra in prima persona. E non solo la paura della morte, di essere feriti, di perdere gli amici che combattevano al tuo fianco. Ma anche la paura della realtà stessa che si celava nelle trincee, negli accampamenti, posti che avrebbero dovuto essere sicuri, ma che forse lo erano meno del campo di battaglia. Gli abusi, i sopprusi e le ingiustizie a cui i maggiori e i generali sembravano essere ciechi o del tutto indifferenti. Probabilmente avrebbero dovuto tutti sapere che le piccole battaglie che combattevano loro erano cose diverse – estremamente diverse – dalla guerra che combattevano i ricchi, con i loro accordi e le loro alleanze. E nelle piccole battaglie la parola “giustizia” sembrava non essere conosciuta da alcuno.
 
 
*
 
 
Il plotone di Gerard era stato decimato, in quegli ultimi giorni. Lui non poteva che sentirsi baciato dalla fortuna, per essersela cavata con appena qualche graffio e livido dovuti al dover strisciare fra pietre, sassi e terra zuppa di pioggia. Fra morti e dispersi, se n’erano andati quasi tutti, e chi era sopravvissuto – per la maggior parte – era gravemente ferito; proiettili conficcati un po’ dovunque, arti maciullati dalle mine e dalle scheggie comunque, assicuravano a troppi di loro un viaggio di sola andata per il sonno eterno. Erano rimasti interi soltanto lui, Caleb e altri quattro ragazzi di cui non riusciva a ricordare il nome.
 
Anche se Gerard, in quel momento, si sentiva un po’ un codardo. Aveva lasciato andare avanti gli altri, nascondendosi nelle ultime file e riparandosi dietro agli alberi. Ma ehi, la guerra non l’aveva voluta lui. Il suo unico scopo era restare in vita. Che si facessero uccidere quelli che, al contrario di lui, questo conflitto lo avevano cercato.
 
Il generale aveva detto che un plotone così ridotto era inutile – e, anche se solo per un secondo, la speranza che volessero rimandare i pochi, stremati sopravvissuti a casa si era fatta largo nel cuore del ragazzo. Speranza che era stata spenta e malamente calpestata quando il superiore aveva espresso la sua intenzione di spedire i superstiti ad un plotone vicino, che ultimamente aveva subito un’ingente perdita.
 
Ci aveva pensato, a farsi ferire di proposito alla mano con cui avrebbe dovuto tenere il fucile – almeno così sarebbe diventato inutile e lo avrebbero rispedito a casa – ma non ne aveva il coraggio.
 
Quella guerra sembrava non aver intenzione di finire, per Gerard.
 
 
*
 
 
Erano stati trasferiti a non più di qualche chilometro di distanza. Il viaggio, per quanto corto, era comunque riuscito a fargli venire mal di schiena e a fargli intorpidire le gambe. Era notte fonda, quando si spostarono, ed in ogni caso Gerard non avrebbe saputo capire esattamente dove stavano andando.
 
L’accampamento era nascosto dietro ad una piccola collina, circondato da trincee e fitta vegetazione. Ed era esattamente uguale a quello da cui se n’era appena andato. L’odore di morte, i letti su cui erano stati sistemati i feriti, il fango, i soldati. Tutti uguali. Vennero scaricati lì, ed un maggiore diede loro poche istruzioni base sul “cosa fare” e “qualdo farlo”. La politica del posto, insomma. E di nuovo, Gerard trovò che fosse la stessa del suo vecchio plotone.
 
Venne dato loro qualche momento per sistemarsi e ambientarsi, e Gerard quasi rivide le stesse faccie dei suoi compagni morti, in quelle dei soltati che gli camminavano a fianco. Di sicuro, le espressioni erano le stesse; smorte, annoiate, costantemente in allarme, con un velo di disperazione che si rifiutava di lasciar andare il loro sguardo, impaurite, talvolta. Tutto questo lo fece sospirare tristemente: per un momento aveva sperato che quesa cosa potesse apportare un minimo cambiamento – magari in meglio, anche se non sapeva come – e invece era tutto uguale a prima.
 
Quando iniziò a guardarsi intorno, a cercare qualcosa da fare o qualcuno con cui parlare, Gerard si aspettava di tutto, fuorché sentire una voce così estremamente familiare – quella voce, che chiamava il suo nome, incredula, sorpresa e, ci avrebbe scommesso, con una punta di entusiasmo e felicità che non sentiva da quando era stato reclutato in quel posto senza Dio.
 
- Gerard? – aveva chiesto di nuovo Frank, quasi come se non ci credesse, quando invece il ragazzo si era già voltato verso di lui, dandogli la completa visuale sui suoi occhi stupiti e il suo volto e i suoi capelli impiastricciati dal sudore e dal sangue. Prima che potesse anche solo rendersi veramente conto che Dio, quello che aveva davanti era davvero Frank, il suo Frankie, il suo migliore amico, questo gli era già corso in contro, lanciandoglisi addosso in un abbraccio che aveva un fondo di disperazione che nessuno aveva previsto – Gerard, io... – Gerard gli strinse le braccia dietro alla schiena, mentre sentiva Frank stringere le dita sulle sue spalle, arpionando l’uniforme sporca e insanguinata – Non credevo che ci saremmo davvero rivisti, Gerard. Non in questa vita, almeno.
 
Gerard comprese fin troppo bene.
 
- Non c’è un posto dove possiamo stare per un po’ soli? Ho così tanto da dirti, Frankie... Questi mesi sono stato un inferno. – mormorò, separandosi dall’amico e guardando quegli occhi che gli erano così mancati, nel lasso di tempo in cui non avevano potuto vedersi, in cui non aveva nemmeno potuto sapere se il ragazzo che aveva sempre considerato un po’ come un secondo fratello fosse vivo o morto.
 
Frank rise amaramente: - Ormai dovresti aver imparato che qui non si resta mai soli. Però... – strinse le labbra, riflettendo su qualcosa – ...Un posto più tranquillo di questo bordello ci sarebbe.
 
 
*
 
 
Frank lo aveva portato in infermeria. Aveva detto che lì quasi tutti dormivano, e che comunque non li avrebbero mandati via. Gli aveva raccontato che, quando non aveva nulla da fare, si fermava a dare una mano co i feriti, rifacendo bendaggi o pulendo le ferite. “Non è molto, ma almeno non mi sento completamente inutile” aveva detto. Gerard pensava che invece fosse qualcosa di eccezionale, la volontà con cui quel ragazzo continuava ad ostinarsi nel voler aiutare il prossimo. Volontà che Gerard non aveva mai sentito propria.
 
Si erano presi un paio di sedie pieghevoli che nessuno stava usando e si erano messi a parlare. E avevano parlato tanto. Fino alle prime luci dell’alba. Frank gli aveva raccontato di tutto quello che era successo, come si era sentito, come si stava sentendo esattamente in quel momento, e Gerard aveva fatto lo stesso. Avevano troppe cose da dirsi, troppe cose che non avevano il coraggio di raccontare, e troppe cose per cui il solo pensiero faceva venire loro una dolorosa angoscia, ma non ci avevano badato, e si erano raccontati proprio tutto.
 
Ad un certo punto, Gerard aveva notato un piccolo rivolo caldo scendere lungo la guancia di Frank, e subito si era affrettato ad asciugarlo, chiedendogli che cosa ci fosse che non andava. La risposta che Frank gli diede, se la aspettava completamente.
 
- Non sta andando proprio niente, Gerard! Io... Questo posto è un inferno, io non ce la faccio più a restare qui. – Gerard notò che la voce di Frank aveva iniziato a rompersi, e nulla più lo trattenne dall’inginocchiarsi accanto a lui e lasciare che questo gli cadesse fra le braccia, sfogandosi – Niente va bene! Io non ce la faccio più a vedere gente morire davanti a me. A non potermi fare amici qui perché potrebbero morire da un momento all’altro. Ad avere paura! Per te, per me... Per te. – prese un respiro tremolante. Gerard sapeva che, se lui non era fatto per la guerra, l’anima fragile di Frank proprio non riusciva a sostenerla – Ora siamo qui, ma domani? Potremmo esserci ancora o, più probabilmente, saremmo feriti, morti... dispersi, se ci va bene. Cosa cazzo ci facciamo qui, Gerard? Io non so nemmeno perché sto combattendo, io... – il singhiozzo che il ragazzo si lasciò sfuggire a quel punto spezzò il cuore, a Gerard – Andiamocene. Andiamocene ora, io non voglio più stare qui ad aspettare di morire.
 
Gerard sapeva che Frank stava solo farfugliando frasi che avrebbero potuto dargli una parvenza di speranza, che sapeva perfettamente di non potersene andare, di essere costretto con tanto di catene, in quel braccio della morte. Ma ne aveva bisogno. Aveva bisogno di farfugliare e di piangere, di distruggersi e ricostruirsi, prima i trovare la forza per affrontare un altro giorno. Eppure Gerard non potè impedirsi di pensare a quanto sarebbe stato bello poter prendere Frank e fuggire durante la notte, scappare durante una di quelle insulse battaglie che continuavano a stroncare vite. Li avrebbero dati per dispersi, e loro sarebbero scomparsi dalla circolazione. Avrebbero cambiato nome, identità, avrebbero ucciso i vecchi Gerard Way e Frank Iero, che si sarebbero persi in mezzo agli altri caduti. Gli dispiaceva davvero non poterlo fare.
 
 
*
 
 
Erano passate due settimane da quando Gerard era arrivato. C’era stata qualche scaramuccia con chi si era trinceato dalla parte opposta della piccola collina, ma niente di serio. Per grazia ricevuta, nessuno dei due si era ancora ferito. E Gerard, da quando era con Frank, aveva ricominciato a riacquistare un po’ di fiducia nel futuro, a riprendersi un po’ della speranza di poter riuscire ad uscire vivo da tutto quello che aveva all’inizio. Perché era questo che Frank faceva: infondeva speranza. Doveva essere l’aura positiva che sembrava aleggiargli tutt’attorno.
 
Gerard aveva sentito la comunicazione fra un tenente ed il generale, e aveva sentito che era stato programmato un assalto alla trincea nemica per il pomeriggio del giorno successivo. Una stretta allo stomaco gli fece inceppare il respiro: erano tutti morti.
 
Se le mine che sapeva per esperienza essere state piazzate su tutta la collina non avessero funzionato a dovere, ci sarebbero stati i mitragliatori a concludere il lavoro. Semplicemente non avevano via di scampo.
 
 
*
 
 
Erano lì, sistemati sul bordo della trincea, praticamente pronti per la fucilazione. Al segnale avrebbero dovuto correre alla cieca fra gli alberi, non sapendo se sperare di saltare su una mina e farla finita subito oppure se cercare di arrivare il più lontano possibile solo per poi farsi scaricare addosso pallottole su pallottole.
 
Gerard era così concentrato sulla presenza di Frank accanto a sé, sul fatto che non era pronto per dirgli addio, non era pronto per morire, non voleva morire, non voleva che Frank morisse, che non sentì nemmeno il segnale venire dato. Si accorse che era giunto il momento di buttarsi a capofitto verso la fine, di issarsi sulle trincee e lasciare la propria vita nelle mani del fato, solo quando vide tutti gli altri che lo facevano.
 
Cercò di non staccare gli occhi di dosso da Frank – che correva appena un paio di passi davanti a lui – nemmeno per un momento. Con la coda dell’occhio, scorgeva la terra alzata dalle mine che esplodevano, i corpi che venivano sbalzati in aria e la gente che si riparava le orecchie da tutto quel frastuono, talmente forte e straziante, mescolato alle urla dei soldati feriti, che lacerava ogni velo di coraggio che ci sarebbe mai potuto essere nell’animo martoriato di Gerard.
 
Una mia esplose troppo vicina, dietro di lui, tanto che sentì il cuore balzargli in gola, finché non realizzò che stava ancora correndo, ancora insieme a Frank, ancora incolumi. Fece mentalmente un sospiro di sollievo, rilassando un po’ le dita attorno al fucile – che, nella foga del momento, aveva stretto tanto forte da far prendere alle nocche un colorito biancastro. Non vece nemmeno in tempo ad esultare mentalmente. O a farsi passare il colpo che aveva appena preso.
 
Era esplosa un’altra mina.
 
Stavolta gli era scoppiata proprio davanti. All’inizio non si era posto il problema di chi ci avesse messo il piede sopra, perché era caduto immediatamente a terra, trafitto da un lancinante dolore alla gamba. Aveva mugolato qualche imprecazione e, fattosi coraggio, aveva cercato di capire in che situazione fosse il suo arto. Vedeva sangue, tanto sangue cremisi, che imbrattava i suoi pantaloni e la terra circostante. Gerard aveva visto abbastanza feriti che venivano trasportati e ricuciti insieme per ricordarsi cosa doveva fare.
 
Concentrarsi sulle proprie azioni quando un simile lacerante dolore gli offuscava i pensieri era complicato, ma ci provò comunque. Doveva provarci. Non voleva morire. Con un po’ di forza di volontà strappò il tessuto dei pantaloni, e diede un occhio alla gamba. Non sembrava nemmeno messa male quanto quelle della maggior parte della gente che veniva internata in infermeria dopo aver calpestato una mia. Era... aveva qualche pezzo di metallo piantato nella carne – tre o quattro al massimo e, per quanto la visione fosse destabilizzante per lui, la sua poca ma comunque sufficiente conoscenza gli diceva che non era grave. Questo gli fece capire che forse... forse non la avrebbe persa. Forse sarebbe sopravvissuto, e forse avrebbe potuto camminare ancora.
 
Questo era positivo e negativo insieme. Forse sarebbe tornato a camminare, ma se fosse stato così, probabilmente non sarebbe potuto tornare a casa. Gerard si sorprese di come l’adrenalina facesse lavorare in fretta la sua testa. A quel punto voleva solo essere sicuro che Frank si fosse messa al riparo in tempo.
 
Frank.
 
Frank.
 
Frank era davanti a lui.
 
Frank era più vicino alla mina di lui.
 
Frank poteva essere il soldato che aveva pestato la mina.
 
La mente di Gerard andò in bianco. Si voltò, nel panico, dimenticandosi della propria, di gamba, dimenticandosi delle altre bombe che esplodevano accanto a loro, dimenticandosi di un sacco di cose. Cercando solo ed esclusivamente Frank. E lo trovò, proprio davanti a sé, accasciato a terra; gli sarebbe bastato allungare un braccio per sfiorare la sua spalla. Lo guardò contorcersi dolorante, lo sentì gemere. E poi guardò in basso.
 
Frank non aveva pestato la mina, perché la gamba era ancora al suo posto. Più o meno.
 
Gerard sentì il proprio stomaco rivoltarsi come un calzino. A lui aveva sempre fatto un certo effetto la vista del sangue, delle ferite aperte, della carne scoperta. E lì c’era tanto, tanto sangue. I pezzi di ferraglia che la mina aveva fatto schizzare fuori dal terreno sembravano essersi accaniti tutti contro la sua gamba destra. Si erano incastrati nella carne, aprendola, facendola sanguinare, recidendo le vene e i muscoli, piantandosi perfino nelle ossa. Perché Gerard le stava vedendo. Candide in mezzo a quel mare rosso.
 
Frank singhiozzò rumorosamente, costringendo Gerard a riemergere dal suo stato di shock.
 
- Frank. Frank guardami. – lo richiamò. Voleva essere sicuro che reagisse: non doveva lasciare che perdesse conoscenza. Il ragazzo obbedì, e alzò la testa come potè. Aveva gli occhi arrossati e il volto contorto in una smorfia straziante anche per chi solo la stava a guardare – Frank, ho bisogno che tu parli con me. Devi restare sveglio, d’accordo?
 
Gerard si trascinò accanto a lui, cercando di chiudere fuori dalla mente le ondate di dolore bruciante che scagliavano fitte lungo tutto il suo corpo. Gli arrivò a fianco e, con uno sforzo che non credeva possibile, riuscì a mettersi seduto, costringendo l’altro ad appoggiare la testa sulla propria coscia, quella della gamba che non era stata ferita. Intravide il ragazzo che doveva aver messo il piede sulla bomba. Gli mancava completamente uno dei due arti inferiori, e anche l’altro era coperto da pezzi di ferro. Il moncone della gamba era quasi nero, sulla parte terminale, e a Gerard venne un’improvvisa nausea.
 
- Gee... – singhiozzò Frank – Gee, fa male.
 
- Shh, lo so. – gli porse una mano da stringere, in caso il dolore si fosse fatto troppo intenso, anche se probabilmente già lo era – Devi solo resistere finché non vengono a cercarci d’accordo? Puoi farlo? Frankie, puoi resistere? Per me?
 
Frank annuì, rilasciando un ansitò tremolante: - La mia gamba... Gee, la ho pestata io, vero?
 
A Gerard costava un’enorme sforzo pensare, parlare e restare seduto tutto insieme, ma lo doveva fare. Aveva bisogno di sapere che Frank era sveglio, che continuava a respirare, che stava bene: - No. Non l’hai pestata tu. Hai solo... hai solo qualche pezzo di metallo piantato nel posto sbagliato. – cercò di fare un sorriso tirato, mentre gli accarezzava i capelli sporchi di terra ed impregnati di sudore – Resisti per me.
 
 
*
 
 
Li avevano recuperati dopo quello che a Gerard era sembrato un tempo improponibilmente lungo. Nemmeno l’adrenalina che aveva sentito sfrecciare nelle vene aveva contribuito a far sembrare le cose almeno un po’ migliori. Aveva passato il tempo accarezzando i capelli di Frank, nel tentativo di distrarre entrambi, e contanto i respiri fievoli del ragazzo disteso su di lui.
 
Gerard aveva cercato di non urlare quando l’adrenalina era scemata e il dolore vero e proprio gli si era schiantato addosso. Aveva cercato di non urlare quando quello che doveva essere un medico aveva estratto dalla sua gamba i pezzi di metallo e fasciato le ferite con cura, spiegandogli che poteva rilassarsi perché avrebbe camminato ancora. Aveva anche scoperto che rimandavano a casa chi non si riprendeva in due settimane, e lui ci avrebbe messo almeno un paio di mesi. Stava per delirare dalla contentezza, quando...
 
- Cosa sa dirmi di Frank Iero? – aveva chiesto, timoroso, mentre il dottore finiva di sistemargli i bendaggi.
 
- E’ il ragazzo che era con te? – Gerard annuì – Era messo piuttosto male... Ora stanno preparando il tavolo. Fra non più di venti minuti dovrò andare ad amputargli la gamba che la mina gli ha ferito. Tu sei stato fortunato a non essere vicino com’era lui.
 
 
*
 
 
Aveva dovuto insistere. Tanto.
 
Alla fine il dottore gli aveva concesso di stare  nella tenda in cui avevano allestito una sala operatoria improvvisata, di stare accanto a Frankie.
 
Quando era entrato assieme al dottore – che gli aveva prontamente recuperato una sedia in modo che non fosse costretto a restare in piedi – Frank era già steso sul tavolo di legno, e aveva uno sguardo completamente terrorizzato. Sguardo che non riuscì a trovare conforto nemmeno in quello di Gerard, che cercava di ostentare una calma che non possedeva affatto. Gerard si sedette e frank gli arpionò subito la mano, il respiro affannato e il corpo scosso da tremiti potenti.
 
- Gerard, cosa sta succedendo? – soffiò, impaurito dalla risposta che avrebbe potuto ricevere.

Gerard si morse il labbro inferiore: - La tua gamba è messa male, Frankie. – gli accarezzò la guancia con la mano libera, non riuscendo comunque a distogliere gli occhi da quelli dell’altro – Devono amputarla.

- Cosa?! No, io non... – sembrava sopraffatto. Tutto quello che stava succedendo lo avrebbe portato velocemente alla distruzione – Perché non mi lasciano semplicemente morire, Gee? – disperato. Non lo aveva mai sentito disperato in quel modo.
 
- Dio, non dire stronzate, Frank. – sbottò. Cercò subito di calmarsi: Frank non era in sé, era il dolore che parlava – Non morirai, Frankie. Te lo prometto.
 
Cadde il silenzio per qualche minuto. Il brusio delle chiacchiere di chi aveva occupato la tenda era l’unica cosa che riempiva il vuoto. Finché Frank non parlò di nuovo: - Gee, dovresti andartene. So che effetto di fa il sangue. – mugolò, la rassegnazione che spillava da ogni sillaba.
 
- Non me ne vado. Non mi importa. – non disse altro.
 
- Possiamo cominciare, allora. – esclamò il medico, dall’altra parte della tenda. A Gerard si strinse lo stomaco, soprattutto perché fece l’errore di voltarsi e guardare il set di bisturi e seghetti ce splendevano in tutto il loro macabro splendore. Frank strinse la prese sulla sua mano.
 
Misero a Frank qualcosa da stringere fra i denti. Qualcosa come un pezzo di stoffa arrotolato, forse di qualche vecchia uniforme. Poi tre volontari si prodigarono per immobilizzare il più possibile il corpo tremante di Frank. Gerard sapeva solo che gli stava venendo da piangere; non voleva assistere a tutto quello. Non gli era servito voltarsi per sapere che il medico aveva estratto il seghetto più grande. Lo sapeva e basta.
 
- Frankie, guarda me, solo me. – mormorò, tenendogli ferma la testa.
 
Da quel momento in poi le grida di Frank fecero da colonna sonora all’intera operazione. Gerard sentiva la nausea occludergli lo stomaco. Ondate di lacrime continuavano a bagnare le guance sporche di terra di Frank. Entrambi sentivano il rumore che il seghetto faceva quando sfregava sulle ossa. Come se stesse tagliando un pezzo di legno. Era il sapere che quello non era legno, ma la gamba del suo migliore amico, che lo faceva sentire male.
 
Il dottore aveva trafficato ancora un po’ con i bisturi, recidendo i fasci nervosi, poi aveva chiuso tutto con ago e filo.
 
Il tutto era durato all’incirca una mezz’ora, ma verso la fine le urla di Frank, arrestate dal pezzo di stoffa, si erano trasformate in gemiti, e il suo sguardo si era fatto vacuo. Gerard pensava fosse a causa di tutto il sangue che aveva perso, che in quel momento stava colando giù dal tavolo, formando una pozza scura. Probabilmente stavano entrambi per svenire. Il dottore se ne accorse, e fece portare fuori Gerard, rassicurandolo; dicendogli che era andato tutto bene.
 
Dicendogli che Frank sarebbe stato meglio.
 
 
*
 
 
Frank non stava affatto meglio.
 
Aveva la febbre altissima da giorni, non voleva scendere, sudava e non riusciva a respirare normalmente. Continuava a fare incubi, a delirare, a lamentarsi per i dolori atroci al moncone, che continuava a sanguinare, talvolta. Il dottore aveva detto che si era preso una brutta infezione. Che forse non ce l’avrebbe fatta.
 
Gerard piangeva, nei rari momenti in cui Frank riusciva a dormire tranquillamente e non lo sentiva. Frank aveva una salute cagionevole, c’era da aspettarsi che si prendesse qualcosa. Eppure Gerard ci aveva sperato fino all’ultimo – aveva creduto fino all’ultimo che sarebbe andato  davvero tutto bene.
 
 
*
 
 
- Gerard, lo sento... – aveva sussurrato Frank, la voce arrochita dalla febbre e le palpebre che non volevano stare aperte. E Gerard era sempre lì, con la mano stretta alla sua. A soffire con lui. A soffire per lui.
 
- Cosa senti, Frankie? – aveva mormorato in risposta, temendo che la febbre lo stesse facendo delirare di nuovo. In quei giorni sentiva sempre gli occhi gonfi, si sentiva sempre in punto di piangere.
 
- Gee, sto per andarmene... – sorrideva. Diceva che stava per morire e sorrideva.
 
- Non dire così, ti prego. – singhiozzò. Gerard non voleva far altro che piangere, urlare che tutto quello era ingiusto, piangere, e lui sorrideva – Farò tutto quello che vuoi, ma non dire così, ti scongiuro, Frank. Non farmi questo. Non farti questo.  – Frank sorrideva.
 
- Aiutami ad alzarmi, Gerard.
 
- Cosa? – lo aveva colto di sorpresa – Frank, no, devi riposare...
 
- Hai detto che avresti fatto quello che volevo. Aiutami a mettermi seduto.
 
Gerard lo aiutò. Con tutte le premure e le accortezze che avrebbe mai potuto riservargli. Frank gli passò le braccia attorno al collo, probabilmente cercando di abbracciarlo.
 
Il bacio arrivò inaspettato, e disperato, e così leggero che Gerard non fu certo che Frank lo avesse baciato sul serio.
 
- Mi dispiace. – soffiò Frank.
 
- Per cosa?
 
- Mi dispiace di non avertene mai parlato. – Frank continuò prima che Gerard potesse chiedergli che cosa intendesse – Non voglio perdere tempo adesso. Quando tornerai, prendi il mio diario. Sotto al materasso, a destra. Se vorrai leggerlo, lì troverai le spiegazioni che cerchi.
 
 
*
 
 
Frank esalò per l’ultima volta quella notte.
 
Gerard, quella notte, si rese conto di non avere più lacrime da versare.








Angst. Nient'altro da dire.

Voglio sperare che qualcuno abbia avuto voglia di leggere fino a qui, perché ho fatto tutta una tirata, stanotte. Ho scritto tutto fra le dieci e le quattro e mezza del mattino. Pubblico solo ora perché poi mi stavo praticamente addormentando sul pc... ora mi sono appena svegliata ^-^

Fatemi notare gli errori, vi prego. Non ho riletto, perché se inizio a rileggere va a finire che faccio un casino di cambiamenti alla storia e non è quello che voglio. Voglio che il risultato sia stato qualcosa scritto di getto.

Se recensite non vi tiro addosso caffé bollente, sappiatelo u.u :3
   
 
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance / Vai alla pagina dell'autore: Im_Not_Okay