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Autore: Aliseia    19/08/2014    5 recensioni
Riassunto: Alla fine il buon fratello si arrese «Poiché non posso fare nulla per cambiare i tuoi duri pensieri, per sgretolare il solido granito di cui è fatto il tuo cuore, io ti lascio andare, fratello. Ma ricorda sempre: c’è ancora una luce nei tuoi occhi oscuri. Non lasciarla morire. Non dimenticare »
Note: Questa storia in forma di favola è nata per raccontare un mio personaggio originale, Cabranel. Ho usato in questa occasione due nomi fanon, Nestadion e Thingalad, trovati nei siti di LOTR e in particolare nel sito www.theargonath.cc, ma ormai di uso comune nelle fan fiction di questo fandom.
All’epoca in cui scelsi il nome Cabranel sbagliai, poiché “elfo dei corvi” avrebbe dovuto essere “craban el”. E perciò tutto questo nasce per giustificare il primo errore. Poiché però mi sono trovata ad inventare altri nomi, come i genitori di Cabranel, tali Nestadir e Isilel… non si escludono nuove storie per giustificare nuovi errori…
L’idea del corvo parlante l’ho presa da Elfroses e dal suo bellissimo racconto “Spegni la luce e raccontami una favola…”. E perciò cara, se dovessi passare di qui, spero che questa cosa non ti dispiaccia ;)
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Thranduil
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Stardust Memories (Enyalië Asto Elenion)'
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Fandom: Lo Hobbit - AU
Genere: Introspettivo
Rating: Per Tutti

Personaggi: Thranduil, Cabranel (OC), Nestadion (fanon character), altri
Disclaimer: I personaggi e i luoghi presenti in questa storia in gran parte non appartengono a me ma a J.R.R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.


 
Nevermore
 
Narrano che all’inizio fossero due.
Due elfi gemelli.
I figli del guaritore Nestadir, alla corte di Sire Elrond.
Dicono che i loro nomi fossero Nestadion e Thingalad.
Così si racconta tra gli uomini, anche se tante ere sono ormai passate. E nel succedersi di generazione dopo generazione di piccole fate ignoranti, certo qualche errore, malinteso o distrazione hanno modificato il senso, l’ortografia o la pronuncia dei luoghi e dei nomi di questa storia.
Ma di certo si sa che erano due.
Uno pallido e soave, con dolci occhi azzurri.
Il suo nome era Nestadion. Il figlio del guaritore. Fin dall’infanzia portato per le erbe e per le arti magiche.
Per l’arte preziosa che gli uomini un giorno avrebbero chiamato “medicina”.
L’altro, Thingalad, era un elfo di guerra.
I capelli nerissimi, gli occhi di un blu così profondo da sembrare neri.
Come l’onice, che solo rivela la sua anima celeste se, reso sottile, è attraversato da una forte luce.
Thingalad voleva combattere. Thingalad era una macchina per uccidere: forte, veloce, scaltro.
Senza paura.
Molti lo ammiravano, ancora di più lo temevano.
Solo Nestadir, suo padre, non provava apparentemente né amore né sgomento.
Nestadir era semplicemente preoccupato.
Il saggio elfo scrutava attentamente i due figli.
Seguiva con lo sguardo le mani abili e delicate di Nestadion, mentre velocemente versavano liquidi scintillanti da un’ampolla a un alambicco, mentre, ferme e precise, sezionavano fragili foglie, o riducevano in polvere certe rocce friabili, dalle striature rosa.
Lo sguardo chiarissimo del padre s’illuminava, un bel sorriso rendeva radioso il volto sereno, tondo e liscio come una luna piena.
Poi gli occhi di Nestadir passavano dai morbidi movimenti, quasi felini, del raffinato figlio biancovestito, a quelli nervosi e scattanti di Thingalad.
Il più insolente dei suoi figli amava vestire di nero. Le sue labbra sottili s’incurvavano in brevi ghigni, diversi dai  luminosi sorrisi che addolcivano le fattezze del padre o del fratello.
Thingalad, la luce della sera, era un elfo di guerra.
Più di ogni cosa lo attirava il potere, non l’amore.
Nestadion seguiva il bene. Thingalad seguiva solo la propria volontà.
Era egoista, prepotente. Sensuale. Ma anche nei sentimenti prendeva, usava e gettava chiunque volesse, per il piacere o per altri fini. Mai in modo disinteressato.
Morta la giovane e bellissima madre, Isilel, solo due creature ispiravano a Thingalad sentimenti che non fossero vanità e voglia di possesso.
E questi erano proprio Nestadir e Nestadion.
Amare Nestadion era facile. Il bianco fratello era un rifugio, un luogo sicuro dove piangere di nascosto, una spalla su cui poggiare la fronte segnata da pensieri cupi.
Meno facile era amare Nestadir. E dire che a Thingalad sarebbe bastato così poco. Lui che era avido, ambizioso, egoista, dal padre avrebbe voluto solo un cenno di approvazione.
Un sorriso che, per una volta, non fosse gravato dall’ansia e dal pregiudizio.
Ma Nestadir non poteva. Troppa era la preoccupazione per quel figlio cocciuto e ribelle.
 
E così, in una splendida sera stellata, Thingalad raccolse le proprie cose: un mantello nero, poche provviste, la spada e il pugnale.
Con un balzo fu in groppa al proprio cavallo, Alphaloth.
Nestadion lo aveva chiamato così.
Lo avevano trovato che era solo un puledro, nerissimo e selvaggio su un prato di simbilmyne. Aveva una minuscola “stella” bianca sulla fronte. Quella macchia sul pelo scuro poteva sembrare anche un cigno dalle ali alzate, o, appunto, un fiore.
Così Nestadion gli aveva dato quel nome ai più incomprensibile, ma che tra loro aveva un suo segreto significato. «Non dimenticare – diceva Nestadion a Thingalad – non dimenticare mai… tu sei la stella nel nostro crepuscolo»
Nestadion era infatti l’unico che credeva in lui.
 
Fu così che Thingalad partì, in quella sera stellata, dopo l’ennesimo litigio con il padre Nestadir.
«Non sei degno di chiamarti mio figlio! – lo aveva apostrofato – Gli elfi della mia famiglia hanno il compito di guarire, curare, proteggere. Tu vuoi solo uccidere. Sai solo distruggere»
Furioso Thingalad aveva raccolto le sue cose, e si era allontanato da lui.
Forse nel regno ombroso di Mirkwood, tra i rami contorti della foresta, tra vapori venefici che portano ineffabili incubi, Thingalad avrebbe trovato la sua strada.
Nestadion, che in disparte lavorava alle sue pozioni, sentì come uno strappo feroce al cuore “ Thingalad…” mormorò.
In fretta salì sul suo cavallo bianco, incitandolo a raggiungere l’irruente fratello in groppa ad Alphaloth.
Tali erano la sua foga e la sua ansia per Thingalad, la cui anima gli appariva in pericolo, che presto riuscì a raggiungerlo. Il cavallo di Nestadion aveva la schiuma alla bocca.
Alphaloth invece era fiero e in forze, come il suo padrone. Il quale si voltò con rabbia «Vattene – sibilò -  il mio posto non è più tra voi » e sebbene il suo cuore soffrisse e ne fosse ulcerato, tra loro intercorsero altre parole amare.
I suoi occhi scuri ardevano come l’abisso, mentre gli occhi dolci di Nestadion si velavano di lacrime.
Alla fine il buon fratello si arrese «Poiché non posso fare nulla per cambiare i tuoi duri pensieri, per sgretolare il solido granito di cui è fatto il tuo cuore, io ti lascio andare, fratello. Ma ricorda sempre: c’è ancora una luce nei tuoi occhi oscuri. Non lasciarla morire. Non dimenticare »
Thingalad abbassò la testa. Girò Alphaloth e da solo proseguì il proprio cammino.
 
Dicono poi che viaggiasse per molti giorni, solo e segretamente infelice.
Una sera, giunto ormai ai confini di Mirkwood, fermò il proprio cavallo e si inginocchiò per accendere il fuoco. Nere volute di fumo oscurarono il cielo. La Foresta, di fronte a lui, mormorava i propri incantesimi. Tutto pareva immobile, ma come in attesa di una tempesta. Il mondo sembrava precariamente in bilico sull’orlo di una sciagura.
E vennero i corvi, a stormi, a coprire il cielo.
Thingalad alzò gli occhi fiammanti. Un corvo più grosso scese su di lui, oscurandogli la vista e il cuore. Parlò il linguaggio dei crebain, che fin da bambino l’elfo aveva imparato «Tuo fratello non c’è più – disse il corvo con voce quasi umana – gli orchi lo sorpresero sulla via del ritorno. La sua ultima parola è stata “Ricorda” » E il corvo aveva occhi azzurri e buoni.
Un grido squarciò la calma irreale ai confini della Foresta. Come trafitto Thingalad pianse e si disperò, le mani premute sul cuore ad estrarre un’immaginaria spada che viepiù sprofondava in lui.
Il Corvo lo guardò coi suoi occhi umani, e poi riprese il volo. Mille altri corvi oscurarono il cielo, mentre Thingalad balbettava e urlava il proprio dolore. Frasi sconnesse, che raccontavano il suo rimpianto e il suo rimorso, che parlavano di una stella, e  del volo di corvi che ora la velava.
Lo udirono gli animali innocenti e i bambini umani, che poi per tanti anni, nelle favole più oscure, avrebbero ripetuto le sue parole. Craban elen. Fino a farle diventare leggenda, cantilena d’orrore.
Poi, per moli anni, Thingalad non parlò più.
Lo raccolsero gli uomini, nell’ultima casa prima di Mirkwood.
Non potevano lasciar morie un elfo, sconvolto e annichilito, ma nondimeno avevano paura di lui.
I bambini fuggivano di fronte al suo aspetto bizzarro e oscuro, e poiché lui non parlava, loro gli avevano dato un nome, che grossolanamente imitava quelle che erano le sue ultime parole.
Craban elen… Craban elen… Ca-bra-nel… dissero i bimbi per semplicità.
Fu così che lo trovò Thranduil, nella locanda dove era addetto all’umile mestiere di stalliere.
Thingalad eseguiva meccanicamente i propri compiti; i suoi occhi erano spenti, assenti.
Thranduil, che da poco era vedovo e conosceva la disperazione, avvertì subito l’affinità con quel cuore ferito.
«Come ti chiami … » disse guardandolo fisso negli occhi.
Confuso Thingalad alzò la testa, la fronte corrucciata, lo sguardo smarrito. Pensieroso si fregò le guance, dove sorprendentemente era cresciuta una barba sottile, sebbene egli fosse ancora giovane.
Si fermò con dolorosa concentrazione, e poi disse, ritrovando la voce «Cabranel. Mi chiamo Cabranel. Nestadion Cabranel» Così parlò, sintetizzando la sua storia in quei nomi: la stella, il corvo, l’errore degli uomini. E l’eterno ricordo del suo luminoso fratello.
Thranduil sorrise a quel nome strano. «Molto bene, Cabranel… Seguimi. Vieni con me»
 
 
  
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