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Autore: memi    16/09/2008    4 recensioni
"Il pensiero la sfiora quasi per caso, tra una folata di vento e un alito di smog emesso dal tubo di scappamento di tutte quelle varianti di automobili ferme come sempre in coda, ad aspettare il verde del semaforo di turno. Ma il semplice passaggio, scivoloso e affrettato, di quel pensiero, è sufficiente a farle colorare le guance di un delizioso rosa accesso. Che stupida, poi, ad arrossire, a imbarazzarsi peggio per così poco. Dopotutto è soltanto Yamato. È solo Yamato."
Sequel di "Imbronciato", leggibile anche separatamente.
Dedicata a Sora89, per il suo compleanno, anche se in un terribile ritardo.
Genere: Generale, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sora Takenouchi, Yamato Ishida/Matt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Innamorata

“Non vai?”

Sussulta al suono un po’ basso di una voce eppure così vicina. Conosce già il suo proprietario ma ugualmente non riesce a impedirsi di sorprendersi quando, voltandosi, scopre il viso di Yamato. Il viso perfetto di Yamato.

Il pensiero la sfiora quasi per caso, tra una folata di vento e un alito di smog emesso dal tubo di scappamento di tutte quelle varianti di automobili ferme come sempre in coda, ad aspettare il verde del semaforo di turno. Ma il semplice passaggio, scivoloso e affrettato, di quel pensiero, è sufficiente a farle colorare le guance di un delizioso rosa accesso. Che stupida, poi, ad arrossire, a imbarazzarsi peggio per così poco. Dopotutto è soltanto Yamato. È solo Yamato.

Eppure…

Cambierebbe qualcosa, se fosse Taichi?

Tutto questo tempo a chiedermi

Cos’è che non mi lascia in pace

Il semaforo dà il via, il verde illumina il selciato e le macchine ripartono a moderata velocità. E lei si stupisce di accorgersi che il tempo, quello non si è mai fermato. Anche se sarebbe stato suggestivo, pensare che per una volta, per un singolo istante, il solo volerlo sarebbe bastato ad interrompere l’eterno rintocco dell’orologio.

“D- Dove?”

La voce di lei è incerta, quasi esitante, come se non fosse nemmeno poi tanto sicura di volerlo sapere.

Lui alza un sopracciglio e anche se è passata un’infinità da quando Digiworld si lasciava scoprire maestosa ai loro occhi incuriositi, a lei sembra quasi di scovarla quell’antica rudezza che tanto la faceva imbestialire. Perciò sorride, Sora, e nel farlo neppure si accorge che la sua reazione a quel cipiglio è cambiata, adesso.

“Da Taichi. Credevo andassi da lui”, risponde atono lui, come sempre, incapace di macchiare le parole con una forma di emozione.

Incrollabile, Yamato Ishida.

“Come fai a dirlo?”, domanda, vagamente inorgoglita per non aver balbettato stavolta, perché davvero, Sora Takenouchi non è il tipo di persona da tanti farfugliamenti.

Tuttavia è questione di poco, una manciata di secondi, il tempo che i suoi occhi marroni incontrino quelli perfettamente azzurri di lui, per capire che quella sensazione fastidiosa nel petto non è altro che timore. Un insano, folle ed irragionevole timore. E lui lo vede? Sora ne è certa. Yamato, chissà come, sembra riuscire a vedere sempre tutto, più di tutti.

“Sei ferma davanti al suo citofono”, ribatte poco dopo lui, con una tale pacatezza da apparire quasi provato dal peso degli anni.

Ma, sinceramente, quanto possono pesare, dodici anni?

Sora vorrebbe rispondersi poco, un’amenità, se solo non conoscesse già la verità.

Tanto, più tutto il tempo che abbiamo perso.

Tutti questi anni a chiedermi

Se vado veramente bene

Sora arrossisce, ancora più di prima, e la sensazione è la stessa di un ladro scoperto con le mani nel sacco.

Lentamente, viscido e sinuoso come il movimento sensuale di un serpente, l’accenno di timore si dipana con la stessa intensità di un nubifragio. Ed è il panico, così, improvvisamente. Il cuore che martella, impazzito, mentre il cervello in iperattività si sforza di cercare delle scuse, vuote come la materia di quella sua trepidazione, senza neppure prendere in considerazione il motivo per cui tutto sia finito in un angolo, adesso, persino il tormento di poco prima quando, ferma impalata, s’interrogava sulle parole migliori da utilizzare per confessare un amore già comprovato al suo migliore amico.

Taichi Yagami, e non Yamato Ishida.

Ma è bastata una parola di quel Yamato Ishida, per farle cancellare il viso di Taichi Yagami dalla sua mente.

Forse, avrebbe dovuto soffermarsi su quello, piuttosto che sforzarsi di accampare mille giustificazioni in grado di spiegare quel suo tentennamento senza cadere nell’ovvietà e, senz’altro, veridicità dei fatti.

Così

Come sono

Così

“Non è come pensi!”, si affretta a dire, una mano chiusa a pugno su un cuore ancora troppo piccolo perché capisca l’intensità di certi sentimenti, come quel battito sempre più frenetico, sempre più ermetico. “Ero solo… Non è che volessi…io…”

Che fine hanno fatto le parole, adesso?

È così bizzarro il modo in cui riescono a scomparire quando le cerchi, non è vero Sora?

“Non mi riguarda”, la interrompe brusco Yamato, tuffando le mani nelle tasche del jeans e allontanandosi con passi felpati.

Ma allora, perché reagire così? Che senso ha? E quella sensazione volteggiante nel petto, quella che la lascia col fiato in sospeso e una stretta d’acciaio all’altezza dello stomaco, è soltanto reale delusione o è qualcosa di più?

“Aspetta, Yamato!”, le gambe si muovono per un incomprensibile meccanismo automatico e prima ancora di capacitarsene, prima ancora che tutte le domande riuscissero a trovare forma, Sora è già accanto a lui.

Ed è strano, è davvero strano sentirsi così.

Come se fosse quello, il suo posto. Quello e nessun altro. Il posto giusto per lei.

Anche se…

Dov’è finito, Taichi?

Così un giorno

“Perciò, ti piace il the al limone?”, Sora sorride genuina, una nota di rossore ad imporporarle appena le guance, quando Yamato alla domanda le rivolge uno dei suoi sguardi enigmatici.

Sono seduti l’uno di fronte all’altra in un anonimo bar di Odaiba, dopo che il biondo è entrato senza neppure preoccuparsi di spendere qualche parola in merito in più al suo misero “devo bere”. Lei è abbastanza sicura di non avervi messo mai piede prima di allora, anche se a ben vedere non è molto distante dai posti in cui usa recarsi quotidianamente. Deve esserle sfuggito, ecco, assieme a tutte le altre cose che le sono scivolate di mano negli ultimi tempi, più quelle che non si è mai sforzata di notare.

“Cosa te lo fa pensare?”, domanda senza troppo interesse Yamato, la voce spenta, ogni emozione nascosta negli androni privati del suo inconscio, l’unico posto in cui possono sopravvivere.

“Beh, l’hai appena ordinato!”, ghigna divertita la Takenouchi, contenta di essere riuscita ad anticiparlo come lui ha fatto con lei, appena poco prima.

Yamato la guarda, ma non sembra sorpreso. Non sembra neppure impressionato a dire il vero. Sembra più…uhm, assorto, ecco.

Sì, assorto è il termine giusto.

“Non mi dispiace”, è infine la laconica risposta del ragazzino, mentre con gli occhi azzurri fissa spietato ogni scintilla in grado di animare quegli incredibili occhi nocciola.

Incredibile come riescano a scalare tutta quella varietà di emozioni senza rimanerne travolti, soggiogati e poi, un giorno, feriti persino. Yamato non capisce come ciò sia possibile, quando a lui gli occhi fanno così male se solo si azzarda a lasciar trapelare qualcosa, qualunque cosa. Non capisce ed è per questo, dopotutto, che cerca risposte in quelli di lei.

“Oh, certo. Non ti dispiace”, ripete Sora, a pappagallo, abbassando il capo improvvisamente timida.

Ecco – non può fare a meno di pensare lui – un’altra alterazione ad aggiungersi alla catasta già esistente di emozioni umane.

Un’altra emozione che lui, così glaciale, non riesce a comprendere appieno come vorrebbe.

Ho scritto sul quaderno

Io farò sognare il mondo con la musica

“Yamato?”

“Uhm?”

“Suoni ancora l’armonica?”

La domanda ha ancora il potere di aizzare qualcosa proprio lì, in fondo a quel petto creduto morto, probabilmente per sempre.

Yamato alza il capo, che aveva abbassato sulla bevanda portatagli dalla cameriera, e stavolta non riesce a celare una punta di stupore che credeva di aver annientato per sempre, quando incontra lo sguardo deciso di Sora. Una leonessa, imbarazzata e ostinata nel suo nuovo ruolo. Il paragone gli sorge spontaneo alla mente, in una visione di sublime apparenza.

“Qualche volta”

“Oh”, lei sospira, sembra sconsolata, e lui non può fare a meno di chiedersene la ragione, anche se dubita di avere abbastanza parole per esporla a voce, ma tanto già non è più necessario che la Takenouchi di nuovo rialza lo sguardo verso quello azzurro del suo interlocutore. “Eri bravo. Sì, insomma… Quando eravamo a Digiworld, era l’unica cosa che…beh, che mi facesse sentire a casa”

Ma di tutte quelle parole, soltanto una riesce a valicare la mura di cinta costruita per difendere gli ultimi brandelli di un cuore che ha imparato a convivere col dolore presto, troppo presto.

Casa.

Quanto tempo è, che si sforza di cercare la sua? Non sa, si sente un po’ come se l’avesse persa, e che tutte quelle ricerche si siano rivelate soltanto vuote illusioni, alla fine. Eppure, mentre lei gli sorride docile e dolce da dietro la sua tazza di latte vanigliato, Yamato lo sente, per davvero, il calore che soltanto una casa può avere.

“Perché mi fissi?”, la voce timida di Sora, aggiunta al discreto rossore apparso di nuovo sulle sue gote, lo ridesta dai suoi pensieri incongruenti e sì, tormentosi.

“Suono la chitarra”

Una risposta che, all’apparenza, non sembra entrarci poi molto con la domanda rivoltagli. Ma lei è diversa, pare capire e forse, quel sorriso, è un po’ il suo. Forse.

Sarebbe così bello, poterlo credere. Davvero. Davvero.

Non molto tempo

Dopo quando mi bastava

Fare un salto per

Raggiungere la felicità

Sora si sente inorgoglita, così, senza alcuna ragione superficiale. Si sente inorgoglita, sì, e sa che tutto quell’orgoglio racchiuso nel suo piccolo cuore – così piccolo che sembra incredibile riesca a contenere una così tanta emozione – è solo per lui. Per quel ragazzo testardo e scontroso che le è seduto di fronte, e che la guarda, lei, lei e nessun altro, come sguardo umano non ha mai saputo fare.

Che viene da chiederselo, tra un sorso e l’altro, se quegli occhi siano sul serio antropici o il frutto di qualcosa che vada aldilà, di più, di più, sempre di più.

Ma la verità, quella, nessuno la sa. Perché Yamato è così. Perché Yamato, nemmeno lui stesso lo – si – conosce.

E la verità è che

“Io ho smesso di giocare a calcio, sai… La mamma si preoccupava quando mi vedeva tornare a casa piena di graffi e allora, non so, ho lasciato stare”, esordisce ad un tratto Sora, distogliendo lo sguardo da quello azzurro di lui per non dover per forza sentire il peso di tutto quel tempo trascorso nel silenzio reciproco, senza sapere bene chi sia o cosa sia l’altro.

Ignorandosi, ecco, sarebbe il termine esatto, preciso. Ma farebbe troppo male anche solo pensarlo, o sfiorarlo con la mente, perciò meglio rinchiuderlo lì, nel fondo del baule dei rimorsi e lasciarlo a marcire, senza doverlo mai, mai più riscoprire. Non adesso che lui è così vicino che basterebbe così poco, una mano, un dito soltanto per toccarlo.

“Perché?”, la domanda di Yamato è incongruente, visto che lei ha già fornito risposta a quello.

Sora alza lo sguardo, stupita, ed è lei eccezionalmente a cercare quello di lui. Capita così poche volte che non sia Yamato a puntare per primo gli occhi nei suoi, che il cuore non può fare a meno di palpitare e le gambe di tremolare. Cielo, è così azzurro, quello sguardo, che fa persino male, ferisce, tagliente come il cielo più terso o il mare più limpido.

“Beh, io… La mamma…”

“No”, la interrompe lui, scuotendo con forza il capo a voler scacciare quell’inutile appiglio. “Non quello. Perché?”

La domanda, all’improvviso, diventa eloquente.

Sì, Sora: perché?

Ho aspettato a lungo

Qualcosa che non c’è

Invece di guardare il sole sorgere

“Perché io… Credo che… Sì, insomma, il fatto è che…”

“Sì?”

Lui la guarda e il suo sguardo è più penetrante di mille aghi conficcati nella pelle.

Lì, sospesa a metà tra qualcosa che manca e qualcosa che pressa per venire a galla, Sora non può fare a meno di pensare che Yamato non è soltanto serio, asociale e un po’ ribelle. Anche quello, sicuro, ma pure adulto. Maturo, ecco.

Yamato non le è mai parso tanto adulto come quel momento.

“Giocavo per Taichi”

E la verità a volte, può fare tanto bene quanto male.

In maniera differita e, differente.

Questo è sempre stato un modo

Per fermare il tempo

E la velocità

“Ma non è come pensi!”, si affretta ad aggiungere Sora, bordeaux stavolta per la foga di spiegarsi allo stesso ragazzo che fino a qualche tempo prima non sapeva neppure che bevanda bevesse in un bar.

Adesso sì.

The al limone.

“Cioè, mi piaceva giocare a calcio e-”

“Non mi devi spiegazioni”, la voce di Yamato è fredda, più fredda del solito, quasi glaciale – un iceberg che con la punta arriva dritta al centro del suo petto, perforandolo, facendola sentire morta ed insieme non-morta, bizzarramente.

I passi svelti della gente

“Sì invece!”

Ma Sora è testarda.

Troppo testarda, così tanto che lui non può fare a meno di sorridere – ghignare, in effetti – ignorando per un istante il macigno che, a tradimento, gli è caduto addosso.

La disattenzione

“Voglio essere Sora”

Alza lo sguardo – non ricorda neppure di averlo abbassato, invero – incurante del rossore o della timidezza, perché ha inavvertitamente bisogno dei suoi occhi per continuare, adesso.

Solo Sora”

Le parole dette

Senza umiltà

Senza cuore così

Solo per far rumore

Sora cerca il suo sguardo, ma anche se le pupille sembrano indirizzate su di lei, è certa che Yamato non la vede neppure. Sta pensando. E cielo, darebbe tutto ciò che ha di più caro per sapere uno, soltanto uno di quei pensieri tanto arcani, enigmatici ed ermetici.

Uno.

Sì, uno basterebbe per scoprirsi un po’ più vicina a lui, un po’ più brava a capire quel volto, quegli occhi, che lei per disattenzione o per pigrizia o per chissà quant’altro non ha visto prima.

“Sora?”

“S- Sì?”

Come fa una voce che dovrebbe appartenere ad un dodicenne, ad essere sempre così bassa e profonda?

“Sei innamorata di Taichi?”

Diretto. Affilato. Spietato.

Il panico sale, veloce e lamentoso come un uragano insaziabile, devastante, deleterio. Perché lui non sa, non sa che certe cose non vanno mai chieste. Che fanno troppo male per esprimerle a parole, soprattutto quando a chiederle è l’ultima persona con cui vorresti condividerle.

Non puoi chiedermi questo, non puoi, non puoi.

Ma Yamato l’ha appena fatto e adesso è lì, in attesa, calmo con il suo the al limone mentre paziente le concede il tempo per rielaborare la domanda. Una statua di marmo, perfetta ed eterea, incapace di rimanere toccato dal fluire incerto degli eventi, verrebbe da pensare. Eppure, scostando la maschera, la verità appare così tragica da provocare mille e più brividi. Perché un bambino che non è un bambino, non dovrebbe saper soffrire a quel modo selvaggio, animalesco, ferino. Non dovrebbe sapere cosa significhi aggrapparsi con tanta voracità ad un qualcosa che infondo, soltanto lui ha creduto e spalleggiato. Da solo, ancora una volta. Maledettamente solo ed imbronciato perché dopotutto, lui è quello che è e che dopo tutto quel tempo, dopo tutte quelle avventure e dopo tutte le parole di Taichi – e i pugni, soprattutto i pugni – è stanco di ripudiare.

Ho aspettato a lungo

Qualcosa che non c’è

Invece di guardare

Il sole sorgere

Sora avrebbe voluto scappare via, via da lì, da lui, dalla sua domanda tanto, troppo inopportuna.

In alternativa, avrebbe voluto saper anche solo rispondergli con tono neutro, quasi distaccato, lo stesso timbro di voce che lui riusciva magistralmente ad utilizzare da una vita, che non le sembrava il caso affrontare un simile delicato argomento in un bar di Odaiba, tenendo per sé che nessun altro posto avrebbe mai fatto al caso per quella domanda.

Andava bene persino se, con abile mossa, fosse riuscita in qualche modo a ignorare la domanda e a illuminare la conversazione con un qualche aneddoto talmente interessante, da distogliere la pressante attenzione di Yamato da quel quesito.

Ma la verità è sottile come le foglie da the.

Lei, Sora Takenouchi, non sa che rispondere.

Ed è strano. Sì, lo è. Anzi, a dirla tutta è seriamente, inequivocabilmente, terribilmente strano.

Perché dopotutto, non è sempre lei che fino a qualche attimo – secondo? Minuto? Ora? – prima si era fermata davanti la porta di Taichi, decisa a rivelarle cosa provasse per lui?

La risposta arriva con la stessa intensità di una pallottola impiantata nel torace.

E, di sicuro, con lo stesso dolore.

Sì, ero io, io, io.

E miracolosamente non

Ho smesso di sognare

Sora alza le spalle, così, come a scrollarsi di dosso tutta la polvere che inerme ha lasciato si accumulasse.

“Non lo so. P- Pensavo di sì…”, mormora, lo sguardo ostinatamente basso, e la frase scivola via nell’ultimo sorso di the al limone.

All’improvviso – si accorge con una punta di sbalordimento – parlare con Yamato è diventato incredibilmente facile.

E miracolosamente

Non riesco a non sperare

Yamato sorride. Beh, un sorriso sghembo a dire il vero, appena accennato. Un ghigno, sarebbe meglio per definire quella lieve sfumatura che ha arricciato le sue labbra.

Ma anche così, sarebbe qualcosa per cui valesse davvero la pena sorprendersi, perché è cosa nota che Yamato, Yamato Ishida, non sorride. Mai. Nemmeno per sbaglio.

Eppure Sora mantiene gli occhi incollati al tavolino come se ne andasse della propria esistenza, senza sapere bene che dire o fare adesso che le sue paure hanno appena preso forma. Adesso che si è accorta di una cosa, un piccolo quanto fondamentale dettaglio: non sarebbe andata a fondo. Prima, da Taichi, lei non sarebbe andata a fondo. Anche se era sicura di sì. Anche se era certa, nella maniera più assoluta, che quello sarebbe stato il giorno perfetto – senza alcuna ragione tra l’altro a giustificare una simile credenza.

Avrebbe balbettato, probabilmente, incespicato nelle parole e inciampato nei pensieri, ma quando Taichi le avrebbe chiesto diretto cosa volesse dirgli, lei si sarebbe fermata. Lo sapeva, adesso. Lo sapeva perché in un angolo del suo cuore qualcosa stava cambiando e lei, stupida e ingenua, aveva chiuso gli occhi per troppo tempo fingendo di ignorare qualsiasi cambiamento.

D’altronde, com’era?

Sora sta ai cambiamenti, come Taichi al libro di matematica.

Già.

Quella volta Taichi c’ha preso appieno. Più di quanto lui stesso potesse immaginare. Ma infondo, Taichi rimane e rimarrà – questo è certo – il suo migliore amico.

Anche se, guardando Yamato, parlando con lui e lasciandosi scrutare da quel mare inafferrabile, Sora non è più tanto sicura che Taichi sia anche la persona che la conosca meglio.

“Andiamo. Ti riaccompagno a casa”

“Sì”

E se c’è un segreto

È fare tutto come

Se vedessi il sole

Il sole brilla alto, così alto nel cielo azzurro che sembra impossibile esista davvero. Una cosa così bella, così preziosa, così importante, che a guardarla Sora si sente un po’ piccola, un puntino ecco. Certe volte le sorge spontaneo chiedersi se loro, con il comportamento menefreghista intrinseco dell’animo umano, meritino veramente di poter ricevere un simile bagliore di vita. Ed anche adesso, mentre cammina in silenzio accanto a Yamato e al suo adorabile broncio, non può fare a meno di domandarsi cosa abbia mai fatto lei, così ingenua e sciocca, per ricevere un simile dono. Ma poi, con stupore, si accorge di non sapere nemmeno lei più bene di quale dono stia parlando.

Eppure è strano, perché Yamato per lei è sempre stato la notte. Sfuggente, oscuro e taciturno come la più cupa delle notti, dove la luna brilla alla ricerca delle altre stelle. Mentre adesso, sotto quel sole cocente, la sua mente bambina non riesce a fare a meno di associarlo al sole, a quel meraviglioso, folgorante, scintillante sole.

Com’è possibile?

“Perché mi fissi?”, le domanda di lui, giunta così all’improvviso nel lento fluire dei suoi pensieri, la fa sorridere.

Oh, certo, alla prima occhiata potrebbe sembrare che Yamato le abbia rivolto quella domanda senza quasi pensarci, ma lei sa bene che niente che esca dalla sua bocca è lasciato al caso. Ogni parola di Yamato è frutto di un disegno preciso, di un ragionamento perfetto, di un piano studiato in precedenza. Anche adesso, ponendole quella domanda proprio a quel modo, non è stato una casualità.

L’ha fatto apposta, sì, scimmiottandola senza essere offensivo quando, nel bar, gli ha posto lo stesso identico quesito. Sora non ci ha mai dato peso, prima d’ora, tuttavia le sembra impossibile non essersene mai accorta quando è così palese quel suo modo di fare a tratti persino fastidioso. Yamato riesce a rielaborare la stessa domanda, nella stessa forma, infinite volte nel medesimo discorso senza tuttavia apparire monotono. L’ha fatto quando, quel pomeriggio, è andato a trovarla, a casa, dopo che lei si era ritrovata influenzata e sola in una casa troppo vuota. E lo sta facendo anche adesso, solo che Sora soltanto ora si accorge che lo fa solo con lei. Con nessun altro. Come se lei, in qualche modo, fosse speciale. Che assurdità, le viene da pensare.

“Niente”, la Takenouchi scuote il capo e accelera il passo per superarlo di poco, quel tanto per dimostrargli che non è una lumaca.

Un altro gioco, un altro nomignolo che lui le ha affibbiato per scherzo, ma che lei non ha mai capito. Fino ad ora, almeno. È un po’ lenta con certe cose, Sora, con i cambiamenti soprattutto.

Ma Yamato si ferma, così, repentinamente, e lei non ha il tempo di voltarsi che il cuore è già partito per la luna.

Cielo…

È così bello, da togliere il fiato.

Un segreto è fare tutto

Come se

“Grazie”

La voce di lui è un sussurro che si perde nei meandri del cuore piccolo, emozionato, di Sora. Può bastare una sola parola a riempire quel vuoto che si trascina dentro da anni? Avrebbe giurato di no, davvero, l’avrebbe fatto, ma la realtà è così evidente che avrebbe potuto avere il portafoglio vuoto adesso se si fosse fidata del suo metro di giudizio.

Sora lo guarda, esitante, scavando in quel blu. Ma è acqua, non si può scavare nell’acqua, è impossibile lo sanno anche i bambini. E gli occhi di Yamato sono un oceano infinito, perciò chiaramente la sua è una battaglia persa in partenza, tuttavia vorrebbe esserne in grado, perché invero non l’ha capito il perché di quel grazie e anche se vorrebbe scoprirlo più della sua stessa vita, non ha il coraggio – codarda – di chiederglielo.

Anche perché – e di questo ne è certa – lui non glielo direbbe.

Ma va bene anche così, infondo. Basta così. Meglio, è perfetto anche così.

“N- Non c’è di che, Yamato…”

Fare tutto

Come se

Yamato la lascia sotto casa, senza più una parola, né Sora sente il bisogno di aggiungere altro.

Yamato la lascia lì e, mani in tasca, si avvia presumibilmente verso casa propria. Il sole che, alle sue spalle, delinea auree dorate sulla sua pelle d’avorio mentre i capelli non fanno altro che schiarirsi, ancora di più, raggiungendo la stessa tonalità delle spighe di grano in una giornata estiva. La città che dinanzi a lui si allarga in un caleidoscopio di colori.

E anche se lei non può guardarlo in faccia, lo sa che le sue labbra sono ancora dannatamente piegate in quel suo eterno broncio.

Ma non fa infuriare, adesso, né male.

Sorridere. Ecco. La fa sorridere.

Vedessi solo il sole

Vedessi solo il sole

Vedessi solo il sole

E lei è lì, che si ostina a rimanere immobile, una statua sorridente e ramata, aspettando che anche l’ultima traccia di Yamato scompaia dietro l’angolo.

E prima di salire anche gli ultimi gradini che la separano dal pianerottolo di casa, osservando quell’ombra dorata tracciata dal sole, Sora non può fare a meno di sentirsi così…

Innamorata.

E non

Qualcosa che non c’è

Note: mi rendo perfettamente conto di avere un ritardo che definire mostruoso, sarebbe ancora troppo poco. Minimizzare, ecco. Ma ahimè, la sfortuna ha deciso che se deve tenermi sotto la sua ala protettrice, tanto vale farlo per bene, a dovere ecco. Perciò non solo ho il telefono rotto che non mi invia né riceve sms ed è impazzito peggio di una mucca pazza, non solo internet va e viene, e poi di nuovo va nella speranza che rivenga, non solo la festa di laurea di mia sorella e tutti i doveri del caso…no, era ancora troppo poco! Ci voleva la mancanza d’ispirazione ad aggiungersi al resto! Perciò, figuriamoci, scrivere questa one-shot è stato un vero parto! o.O Che poi, detto tra noi, non mi convince neanche più di tanto.

Dedico questa fanfiction alla mia amica Sora89, perché come me ha sempre riposto speranza nel Sorato e, come me, adora Yamato – e il Yamato dei tempi di Digimon 01 in particolare. E poi perché è (era) il suo compleanno, e diciannove vengono una sola volta, come i venti, i ventuno, i ventidue… E perciò, in quanto tale, è una data che va per forza ricordata. Nella speranza che con l’università tutto vada per il meglio, e che potrai perdonarmi, un giorno, se non solo ho portato un colossale ritardo nel porgerti il mio sentito regalo, ma che il suddetto regalo non è neanche questa gran cosa (ahimè, ispirazione del cavolo). Tvb!

Detto questo, vorrei ringraziare quanti di voi commenteranno o leggeranno, o daranno una sbirciata veloce a questa cosina. E poi vorrei cogliere la palla al balzo per scusarmi con quanti di voi mi hanno dato per dispersa, sto aspettando la sim nuova, ahimè! E Sae, tex, ti chiamo appena posso (ti voglio bene, lo sai, no? Spdl!)!

Oh, sì, prima che me ne dimentichi, io vedo questa one-shot un po’ come il sequel di Imbronciato, a cui si richiama per scelta dei tempi verbali e per stile. L’avevate notato? No? Va beh, dai, fa niente, tanto credo di non sbagliare dicendo che è leggibile anche separatamente.

Ancora auguri, Giò!

Baci.

Memi J

[La canzone è “Qualcosa che non c’è” di Elisa. Digimon e i suoi personaggi non mi appartengono ma sono © copyright del rispettivo autore e della casa. In entrambe i casi, comunque, non vengono ivi da me utilizzati a scopo di lucro ma per puro diletto.]

  
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