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Autore: Ryuke    20/08/2014    0 recensioni
Luca è un ragazzo come tanti. Gioca ai videogames, lavora part-time nel "baretto". Ma è uno che non sa amare. O per meglio dire, non sa dare una misura al suo amore. Luca è uno che ama troppo, specialmente la cosa più bella della sua vita. Ha in serbo una sorpresa, ma non sa che in realtà la vita sta sempre un passo avanti, e quando meno te lo aspetti ti scombina tutti i piani.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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-Luca…devo parlarti…
La sua voce era strana. C’era come qualcosa di diverso dal solito. Era come se essa esprimesse un presagio  di ciò che stava per accadere. Come se il suo subconscio gli avesse mandato un messaggio, alla disperata ricerca di un modo per evitarlo. Per evitare tutto questo. Ma lui non se ne accorse. L’amore lo rendeva cieco, e sordo. Distorceva tutte le sue percezioni, ed ignorò quel segnale. Spense il suo cervello, e non sentì.
-Ma certo, dimmi pure
Rispose con voce allegra. Contento di aver ricevuto quella chiamata. Ignaro del fatto che di li a poco, non lo sarebbe più stato.
-No…non al telefono…di persona. Ce la fai a venire tra un’ora al baretto?
E dopo questa criptica frase gli scattò qualcosa dentro. Come un’intuizione. Il suo cuore accelerò i battiti, il suo respiro iniziò ad essere pesante, affannoso, quasi avesse corso una maratona. Il suo corpo aveva capito cosa stava succedendo e rispondeva con scariche di adrenalina che avrebbero dovuto causare una tempesta di sensazioni ed emozioni contrastanti, fino a condurlo alla conclusione che si trattava di terrore. Ma così non fu, perché l’amore cingeva d’assedio il suo cervello come in una guerra: gli assalitori tagliano le vie di comunicazione alla città assediata e la isolano. Così il suo cervello era isolato dal resto del corpo, al punto di non sentire nemmeno il dolore allo stinco per essere inciampato nel tavolino di vetro del salotto.
-Si si, non c’è problema. A dop -
Non riuscì a finire la frase che lei aveva già riattaccato. Ma lui pensò che fosse caduta la linea. Sprofondò a sedere nel divano di pelle nera a tre piazze che era proprio dietro di lui, dal quale si era alzato per andare a prendere il cellulare e rispondere, per poi tornare indietro verso questo, inciampare come un povero beota nel tavolino di vetro, ed avere una sottospecie di conversazione con la sua ragazza. Alla sua destra, qualche centimetro più in la il joystick della sua consolle, che lo aspettava per riprendere la partita. Stava giocando a FIFA quando squillò il telefono. Ripensò alle parole della sua migliore amica, che gli disse una volta che doveva iniziare a farsi meno “pippe mentali”. Già, è proprio così che disse, “ti fai troppe pippe mentali”. Quindi pensò che in fondo, non c’era motivo di preoccuparsi. Non per quella chiamata almeno. Ma forse, perdere 2-0 in casa contro una squadra dal nome impronunciabile, quello si che un po’ lo seccava. Finì la sua partita (vincendo 3-2 non senza qualche piccola imprecazione) e spense la consolle. Doveva iniziare a prepararsi per il suo appuntamento. Perciò uscì dalla sala e si diresse nella sua camera da letto, che sembrava più un negozio di abbigliamento femminile durante il periodo dei saldi che altro. Un po’ di roba buttata di qua, un po’ di là, e qualche resto di patatine o pop-corn per terra, vicino al letto. Adorava sgranocchiare quelle schifezze mentre guardava i suoi telefilm preferiti, la sera. Saltando tra i punti di pavimento non ricoperti da capi d’abbigliamento sporchi, riuscì a giungere all’armadio e ad aprire una delle due ante.
-Porca miseria che casino…forse dovrei mettere un po’ in ordine!!
 

Riuscì a trovare qualcosa da mettersi, che non fosse sporco o da stirare, per la precisione una camicia di quelle che era solito comprarsi, con dei colori sgargianti che lui avrebbe definito “camicia sflesciata”, sotto una maglia a maniche corte e un paio di comunissimi Jeans. Infilò le sue adorate Nike, rigorosamente “sflesciate” pure quelle, un paio di spruzzi di profumo, cera sui capelli per ridare forma a una cresta ormai appesa di lato, cappotto di pelle e via.
Luca era uno di quelli che arriva sempre in anticipo. E che odiava chi arrivava in ritardo. Per questo uscì di casa trentacinque minuti prima dell’ora dell’appuntamento, che per essere pignoli era alle cinque. Salì in macchina e si diresse con calma al baretto. Il baretto era un locale che si trovava dall’altra parte del paese, ed era chiamato così perché era un piccolo locale, e il proprietario, Mario, quando lo aprì nel 2007 non aveva idea di come chiamarlo. Così non lo chiamò. E fu il primo bar del paese a non avere un nome (eh si perché nonostante Cepagatti non fosse una grande città, contava parecchi bar, al punto che molti paesani scherzavano sulla vicenda dicendo che c’erano più bar che abitanti). Così divenne noto come il baretto, il piccolo bar senza nome di Mario. Era li che Clarissa e Luca si erano conosciuti, 5 anni prima. Lui in quel periodo lavorava da Mario, per la precisione lo sostituiva quando lui aveva delle faccende da sbrigare. Ebbene in una di queste occasioni, mentre Luca era dietro al bancone, a leggersi l’etichetta di un Jack Daniels, lei entrò. Era con delle amiche. Luca, sentendo la porta aprirsi e chiudersi poggiò la bottiglia e si voltò per vedere chi fosse entrato. E vedendo entrare tre belle ragazze, più o meno della sua età, che non erano del paese, gli fece pensare che essere l’unico di tutti quei bar aperto il lunedì aveva un senso. Luca guardò l’orologio, erano le cinque. Troppo tardi per dire buongiorno, troppo presto per dire buonasera. E buon pomeriggio era davvero orribile da sentire.
-Salve ragazze
Disse sorridendo. Luca era un tipo molto simpatico, ma di quelli che le ragazze non guardano più di tanto. Non era brutto, ogni tanto faceva colpo su qualcuna, era uno nella media. Era molto alto, sopra al metro e novanta, occhi e capelli castani. Denti bianchi e raddrizzati perfettamente da un apparecchio portato per ben sei anni, da quando ne aveva dieci. Piuttosto longilineo, frequentava a momenti la palestra, abbastanza da non essere né moscio né eccessivamente muscoloso. Insomma, uno di quelli che li guardi e la prima cosa che pensi “è una via di mezzo”. Né bello né brutto, né muscoloso, né ciccione, né pelle e ossa. Ogni tanto si prendeva la briga di mettersi allo specchio e curarsi quella barba di cui tanto andava fiero. Lasciava crescere il pizzetto e i baffi,che rimanevano collegati da una striscia di barba e rasava tutto il resto. E si gasava quando ci riusciva.
Le ragazze gli risposero con un cenno della testa e un sorriso. Sembravano tutte e tre molto dolci. Quella entrata per prima, nonostante fosse bassina, sembrava la più grande delle tre. Sul metro e sessanta, forse qualcosa in meno, portava un cappello di lana che lasciava cadere indietro dei lunghi ricci biondi. Aveva gli occhi azzurri e il volto di una che anche se è giovane ha vissuto. Sembrava una studentessa di arte, di quelle che si riconoscono per uno strano gusto nel vestire. Ma lui non aveva mai giudicato quel tipo di persone, dato che anche a lui piaceva molto vestirsi con colori sgargianti e roba che tanti definirebbero “strana”. Eppure su di lui stava bene, quella roba “strana”. Sembrava fatta apposta. La seconda ad entrare era alta uguale più o meno, capelli neri corti, ma non proprio cortissimi, diciamo un caschetto leggermente più lungo del normale. Aveva la faccia piuttosto rotonda, e dal suo sorriso traspariva una voglia di vivere, di fare e di viaggiare che la diceva lunga su di lei. Quella che entrò per ultima, chiudendo accuratamente la porta dietro di se, sembrava proprio un tipetto particolare. Forse era la più piccola delle tre, ma era la più alta, diciamo sul metro e settanta o qualcosa in più, e portava degli occhiali che sembravano fatti appositamente per lei, non avrebbe potuto indossarli nessun’altro. La montatura era azzurra, come i suoi occhi. Aveva la carnagione quasi olivastra, come una persona abbronzata diciamo, Luca pensò alle lampade se devo dirvi la verità, e aveva degli splendidi ricci mori che le correvano lungo la schiena, con un ciuffo che le tagliava di sbieco il viso dalla parte sinistra. Si sedettero al tavolino più in fondo, e la prima delle tre descritta fece un commento su quanto fosse piccolo il locale. Cominciarono a parlottare per fatti loro, mentre Luca cercava di apparire più interessante possibile pulendo alcuni bicchieri con uno strofinaccio. Aspettò qualche minuto,poi aggirò il bancone e col suo blocchetto si avvicinò alle ragazze.
-Allora ragazze, cosa prendiamo?
Disse sempre con quel suo sorriso gentile stampato in faccia. La ragazza bionda e bassa disse:
-Fate i frappè?
-Se facciamo i frappè? Non siete di qui vero?
Commentò Luca divertito, mentre la ragazza più alta, ma che sembrava essere la più piccola disse con tono quasi seccato:
-No ma non credo che siano affari che ti rig-
Non riuscì a finire la frase perché la terza ragazza,quella che non aveva ancora parlato per nulla le tirò un calcio sotto al tavolo e parlò al suo posto, cercando di apparire più gentile possibile:
-No infatti..però siamo di qui vicino, volevamo prendere qualcosa ma oggi è Lunedì e qui i bar sono tutti chiusi e..
-Ahh..ho capito...di solito andate da un’altra parte ma oggi è chiuso e siete venute qui…
Le tre ragazze rimasero ammutolite, imbarazzate dalla precisione con cui Luca aveva descritto la situazione.
-Ragazze tranquille -  disse Luca ridendo - stavo scherzando! Andiamo, delle belle ragazze come voi non dovrebbero appendere quel muso in nessun caso…
Disse Luca mentre le tre ragazze si guardavano sbigottite, senza sapere cosa fare o cosa pensare, ma in fondo un sorrisetto divertito scappò un po’ a tutte e tre. Luca riprese dopo aver tirato fuori la penna dal taschino:
-Allora, questo frappè a che gusto lo facciamo?
-Quindi li fate?
-Ah…io non faccio semplicemente dei frappè…ma i frappè più buoni di tutta la provincia!
Disse con fare orgoglioso Luca. La ragazza alta commentò:
-Sei modesto allora eh…
-Ordinate e ve lo dimostro.
Rispose Luca, col suo sorriso amichevole, che spesso infastidisce le persone acide, proprio come la ragazza in questione. La bionda ordinò un frappè fragola e banana, la ragazza coi capelli a caschetto more e mirtilli e quella alta pistacchio e noce. Luca sorridendo alle tre ragazze chiuse il blocchetto e lo ripose nel taschino del grembiule. Poi facendo un quasi impercettibile inchino disse:
-Come le principesse desiderano
E sparì dietro la porta girevole che portava a una stanza che era una via di mezzo tra un magazzino e una cucinetta. Preso tutto l’occorrente si adoperò per realizzare i 3 frappè più buoni che avesse mai fatto. Impiegò circa venti minuti, durante i quali le tre ragazze avevano parlottato e confabulato di ogni genere di argomento, ed avevano anche preso in giro, tra le altre cose, il particolare ed estroverso modo di fare di Luca.
-E’ simpatico… - esordì la bionda, mentre cercava come un cenno di assenso dalla sua amica coi capelli corti.
-E’ odioso…ma insomma, che siamo? La sue vicine di pianerottolo? - sbuffò in maniera infastidita la ragazza più alta delle tre, quella entrata per ultima per intenderci. Incrociò le braccia mentre le altre due la guardavano in modo malizioso. Luca dal suo canto, continuava ad ascoltare le tre dal “locale cucine”, senza troppi sforzi considerando che la parete che li separava era di cartongesso. Le tre ragazze sentirono i passi di Luca dietro la porta scorrevole, quindi d’improvviso tacquero.
 

Il tipo davanti a Luca non voleva saperne di darsi una mossa. Proseguiva imperterrito, a 30 km/h su una extraurbana secondaria con il limite di 90. Luca, che quando si sedeva al volante diventava un’altra persona, completamente priva di pazienza e comprensione, dopo i primi cento metri cominciò ad urlare, lampeggiare e suonare a rotta di collo perché l’anziano si desse una mossa. Ma quest’ultimo sembrava non dare segni di vita. Ovviamente, con le auto che continuavano ad arrivare nel senso di marcia opposto, era impossibile pensare ad un sorpasso. Così, tra una bestemmia e un’altra giunse in paese. Parcheggiò l’auto, e si diresse al “baretto”. Avanzava con un passo lento e cadenzato, con i jeans che ogni due passi tendevano a scendere sotto la vita.
-Ecco, lo sapevo! Per la fretta ho dimenticato la cinta…vabbè, pazienza -
Portò il cellulare alla vista, per controllare che ora fosse. Erano le cinque meno un quarto, e ciò voleva dire che avrebbe dovuto aspettare almeno mezz’ora, dato che Clarissa era una ritardataria. “Pazienza” pensò tra se e se, “tanto al baretto non ci si annoia mai”. Non appena giunse a destinazione notò Antonella, la moglie di Mario, seduta al tavolino subito fuori dal locale, unico tavolino all’aperto di cui disponevano dato il poco spazio.
-Sempre a poltrire - la canzonò Luca. Antonella sorrise, si alzò e abbracciò calorosamente Luca, baciandolo sulle guance.
“Non cambi mai eh? Stai diventando proprio un bel ragazzo, Clarissa è davvero fortunata” disse Antonella con una strana luce agli occhi. Lei era una di quelle persone che nella vita sono molto sfortunate. Prima di sposarsi con Mario, ebbe un altro marito, che la riempiva di botte dalla mattina alla sera. Quando ebbe il coraggio di chiedere il divorzio, lui la picchio fino a farla svenire, e la abbandonò in mezzo a una strada buia e poco trafficata di notte, sanguinante. Da quelle parti passava Mario, con la sua auto, che vide una carcassa sul ciglio della strada. Si fermò e la soccorse. La donna rimase incosciente per giorni, e Mario, che era un uomo solo, andava ogni giorno a portarle dei fiori freschi. Quando si riprese denunciò il marito, e cominciò a lavorare nel bar di Mario, che un giorno le chiese di sposarla. Lei, pur non amandolo, accettò, perche in cuor suo sapeva che con lui sarebbe stata al sicuro. Alla fine imparò a volergli bene. Ebbero un figlio, che chiamarono Andrea. Il bambino, all’età di 5 anni venne investito da un pirata della strada, mentre attraversava sulle strisce pedonali. Antonella ne soffrì molto. Oggi, avrebbe la stessa età di Luca. Tutto questo, ve lo racconto per potervi spiegare quella luce che brillava negli occhi di Antonella quando vedeva Luca. Gli aveva voluto bene come a un figlio, a quel ragazzo.
“Io lo so che è fortunata, ma lei lo sa?” disse dapprima sogghignando, ma chiudendo la frase con una nota di malinconia, come se quella domanda la stesse facendo per avere una risposta. Antonella chinò il capo da un lato e poi accarezzò la guancia di Luca.
“Lo sa, lo sa…” gli disse sorridendo. Luca ricambiò il sorriso ed entrò nel locale. Mario stava dietro al bancone e lo salutò con un cenno del capo. Luca si avvicinò, per stringergli la mano. Mario ricambiò la stretta chiedendo
“Tutto a posto?”
Luca scollò le spalle. Mario gli lanciò un’occhiata tra il torvo e il curioso, ma lasciò cadere l’argomento.
“La Juve perde. Uno a zero.”
“Cazz!” Rispose Luca. Si sedette su uno sgabello, e rivolse lo sguardo al televisore posto in alto alla sinistra della porta, proprio nell’angolo.
 

Luca venne fuori con i tre frappè sul vassoio rosso. Le tre ragazze assunsero un atteggiamento alquanto imbarazzato, e guardarono ognuna in una direzione opposta. Luca porse i tre frappè ognuno alla propria destinataria. Lasciò l’ultimo per la ragazza un po’ più scontrosa, che vedendo che il suo frappe continuava a rimanere sul vassoio di “quel beota” un po’ infastidita tuonò
“Non me lo dai?”
Luca sorrise divertito. Ma non poteva fare certe battute con gente che non conosceva. Tuttavia tutte e tre le ragazze capirono, e mentre le altre due scoppiarono a ridere, la pietra dello scandalo divenne paonazza.
“Non so, mi piacerebbe sapere il nome della mia vicina di pianerottolo prima di darle il suo frappè”
E fu a quel punto che le tre si guardarono imbarazzatissime. Luca capì che lo scopo era raggiunto, le aveva messe a disagio a sufficienza. Così senza ulteriori indugi, mantenendo quel suo sorriso da ebete, che sembrava un po’ sfotterle, porse l’ultimo frappè e si voltò per tornarsene a pulire i bicchieri e leggere etichette.
“Clarissa.”
Disse la ragazza.
“Mi chiamo Clarissa.”
 

Le cinque e un quarto. La partita era finita, la Juve aveva rimontato e vinto tre a due, e ancora nessuna traccia di Clarissa. A quel punto le ansie ripresero il sopravvento. Non un messaggio, ne una chiamata. L’unica cosa che gli ronzava in testa era il tono freddo di quella conversazione di tre secondi al telefono. Luca sentiva ogni minuto che passava il cuore battergli sempre più forte, le vene pulsargli in maniera incontrollata e un peso sempre più grosso sullo stomaco. Cominciò a sudare freddo, divenne pallido come un lenzuolo. “Calma” si ripeteva, “calma, calma”, ma non funzionava, la sua agitazione era tale da farlo scattare la minimo rumore. Sentì la porta aprirsi, e si voltò. Clarissa fece così la sua entrata in scena. Indossava un cappello di lana color indaco, che Luca stesso le aveva regalato. Un ciuffo di capelli scuri usciva davanti, a coprirle l’occhio sinistro, mentre dietro i lunghi e morbidi boccoli le scivolavano sulla schiena, rincorrendosi sulla lunga spina dorsale fino al fondoschiena. Indossava un lungo cappottino rosso, con le cuciture in rilievo e bottoni a forma di cono color marmo, che tenevano allacciati i due capi del cappotto tramite delle sottili cordicelle marroni. Sotto le ginocchia, il cappotto lasciava intravedere delle calze scure pesanti che cingevano morbidamente le belle e carnose gambe. In tutto questo stile, non poteva mancare la solita cafonata: indossava degli scaldamuscoli di lana, a riporto col cappello, che entravano negli stivali non troppo alti, in pelle di camoscio nera.
“Amore mi sembri arlecchino”
Disse Luca, cercando di smorzare l’ansia, mettendosi a ridere. Anche Mario sorrise alla battuta, ma non Clarissa. Manteneva un atteggiamento distaccato. Teneva lo sguardo basso, e cercava di non incrociare gli occhi di Luca.
“Ciao Mario…Luca possiamo parlare fuori?”
Luca si voltò verso Mario per salutare, che si limitò a scrollare le spalle e a salutare il giovane con un cenno del capo. Quest’ultimo si alzò e segui la sua bella fuori. Antonella, vedendoli uscire, decise di rientrare per non intromettersi. Sorrise ai due ragazzi e disse loro “Quanto siete belli” con un sorriso cosi grande da poterci costruire su una casa. Quando furono soli, Luca porse la mano a Clarissa, che le teneva nelle tasche del cappotto.
“Scusa…ho freddo, voglio tenerle al caldo” disse, tenendo lo sguardo basso. Fecero due passi, giusto una decina di metri, di comune accordo, quasi come non ci fosse bisogno di dirlo. Poi improvvisamente Clarissa si fermò. Allora anche Luca fece lo stesso, e lei, come d’istinto lo abbracciò. Lo strinse forte, e allora Luca, per un attimo penso che il pericolo fosse scongiurato.
 
 
Luca scese dall’auto, fece il giro e le aprì lo sportello.
“Oh ma che galantuomo” disse Clarissa sorridendo. Luca chiuse lo sportello e la seguì fin davanti al portone d’ingresso.
“Grazie per la bellissima serata, Luca.”
Luca sorrise. Era da tanto che non stava cosi bene con una persona. Forse da troppo, e si era abituato, a quella sensazione di vuoto. Perché è così che succede, che quando stai male per tanto alla fine ti ci abitui. Il dolore diventa la sola cosa che conosci, e riesci quasi a conviverci. Riesci a starci insieme, a ridere nel dolore. A fingere, che vada tutto bene. E se sei fortunato, diventi cosi bravo a fare finta che alla fine ci credi anche tu, alle tue bugie. E’ per questo che si sentiva cosi strano. “Questa…questa non è felicità” pensava, “io la felicità la conosco, sono già stato felice, ma allora cosa? Cos’è questa cosa che sento dentro” e proseguiva con questo flusso di coscienza, tutto in pochi istanti, veloci e inaspettati. Così il corpo, che a volte capisce molto più del cervello, risolse la situazione per conto suo. Senza l’uso del cervello. Interruppe quella dolorosa sequenza di pensieri, con una serie di impulsi elettrici, scambi chimici e interazioni che portarono la mano di Luca ad accarezzare il viso di Clarissa, visibilmente imbarazzata, e poi le loro labbra al contatto, così. Magicamente, in modo leggero e sinuoso quelle labbra si toccarono, si accarezzarono e ballarono una danza sconosciuta a tutti, ma non a loro. Non alle labbra. E poi come le queste anche le loro lingue presero a danzare, vogliose l’una dell’altra, si intrecciavano e si allontanavano, per poi abbracciarsi nuovamente, finche non cominciarono anche i loro corpi a danzare, con le mani che scivolavano dovunque, tra i capelli, sulla schiena o sul viso, frenetiche, quasi maniacalmente, come se non ci fosse abbastanza tempo per esplorare quei corpi nell’intera eternità. E così come i loro corpi, in un'altra dimensione le loro menti cancellavano tutto, scrivevano nuovi ricordi, nuove sensazioni e ballavano anche loro, in un altra dimensione.
 

“Pensavo….pensavo che se ti avessi abbracciato…avrei cambiato idea.”
Disse Clarissa, restando aggrappata al corpo di Luca, in maniera quasi disperata. Luca restò in silenzio, sentiva gli occhi bruciare, e lo stomaco esplodere. Ci provò, si sforzò di parlare, di chiedere, ma anche se la bocca si apriva, non usciva voce. Gli occhi, sempre più rossi e gonfi avevano ormai poca autonomia. Da un momento all’altro, le lacrime sarebbero precipitate giù in maniera inesorabile. D’altro canto Clarissa non aveva avuto la stessa forza, sentendo tra le sue braccia il petto di Luca tremare. Lacrime nere, come la matita che portava agli occhi avevano già cominciato a solcare il suo viso. Luca, trovò nella disperazione la forza di staccarsi da quell’abbraccio. Le afferrò il viso con le mani, e la costrinse a guardarlo negli occhi. Le asciugò le lacrime con i pollici, e riuscì a dare abbastanza aria alle corde vocali da dire, con la voce spezzata
“Cambiare idea….su cosa?”
Clarissa cercò di sfuggire agli occhi morbidi e caldi di Luca, che tanto aveva amato in passato, cercando di voltarsi, ma Luca fece resistenza e la obbligò a guardarlo negli occhi. Lei lo guardò ancora una volta. Ma era difficile sopportare il peso di quello sguardo, di quegli occhi divenuti rossi e gonfi di dolore. Con le sue mani, afferrò i polsi di Luca, e li abbassò, continuando a guardarlo negli occhi.
“Io…io non ti amo più, Luca. Ho conosciuto delle persone e…e ho capito che voglio altro…dalla mia vita. Mi dispiace…io…mi dispiace.”
Le lacrime presero a scendere copiose sul viso di Clarissa. Continuava a sussurrare mi dispiace, con la voce rotta dal pianto mentre Luca la guardava senza dire una parola. Improvvisamente quegli occhi, erano divenuti vuoti. Come fossero vitrei, trasparivano esattamente lo smarrimento che Luca stava provando, in quegli istanti. Sentì una fitta forte, allo stomaco. Come se il macigno che aveva sentito fino a poco prima, fosse stato sollevato e sbattuto violentemente sul suo torace. Clarissa non riusciva a sopportare quella vista, così corse via, coprendosi il viso con una mano. Luca si volto a guardarla. Istintivamente portò la mano destra sul petto sinistro e strabuzzò gli occhi: una fitta dolorosissima lo colse, proprio al cuore. Cadde sulle ginocchia, mentre tutto intorno si muoveva a rallentatore. Sbattè le palpebre e quando le riaprì era tutto confuso, tutto sfocato. Percepire i colori era impossibile, se non il rosso candido del cappotto di Clarissa che le ballava dietro. Il fiato si fece sempre più pesante, come in un brutto sogno Luca allungò il braccio sinistro in avanti con la mano che si contorceva, come a voler afferrare la ragazza fuggita. Cercò di gridare, ci provò con tutte le sue forze, ma riuscì solo a sibilare. Il suo nome, un’ultima volta.
“Clarissa.”
Si accasciò in avanti inerme. Gli occhi sbarrati, e un grido strozzato in gola. Dalla tasca cadde una scatolina celeste che si aprì, e lasciava intravedere un brillante che risplendeva della luce del sole invernale. Una parola, una sola parola.
“Clarissa”.




  Salve a tutti, sono Ryuke e questa è la mia prima pubblicazione su EFP. Sono un ragazzo di 21 anni, studio Scienze Motorie e ho la passione per la poiesa e la scrittura fin dal IV ginnasio. E, boh. Basta. XD
Per quanto riguarda la storia, i più attenti noteranno un cambio tra i trattini e le virgolette nei dialoghi. Sappiate che non sono errori ma è una mia tattica sperimentale, volta a trasmettere al lettore lo stato mentale del personaggio. Chi di voi vorrà recensire, se vorrà potrà farmi il favore di sottolineare se l'esperimento è riuscito o meno. A voi la lettura, e quindi la parola, gente! Buona permanenza a tutti.
   
 
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