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Autore: ale93    21/08/2014    3 recensioni
Il rumore improvviso catturò l’attenzione del bambino e dell’uomo. Haruka annaspò diverse volte, il suo cervello fermo su una sola parola. Un solo nome.
Makoto, Makoto, Makoto.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Avvertimenti (GROSSI QUANTO UNA CASA): Non contiene grossi spoilers sulla seconda stagione, ma uno giga cosmico su High Speed 2. In tal proposito ringrazio la pagina “No, ma Free! lo guardo per la trama, eh” e la bellissima admin che fornisce le traduzioni in italiano dei passi più belli della novel <3 (precisamente ho preso dalla sua traduzione lo scambio di battute segnalato dall’asterisco*)  
Note: Non chiedetemi da dove sia uscita, perché non ne ho idea. Non lapidatemi una volta arrivati alla fine. Chi mi conosce troverà un simpatico riferimento alla mia situazione attuale (ciao ciao a tutti voi che condividete con me la piaga dell’otite recidivante!), d’altronde ho sempre sperato di essere la bimba di Makoto.
Il titolo è il verso della stessa canzone citata all'inizio, Hero dei Nickleback. L'ho scelto sia perchè era adatto al finale, sia perché da sempre le ali delle aquile sono simbolo di libertà.
Disclaimers:
Some rights riserved. © I personaggi di questo racconto non mi appartengono e non sono utilizzati a scopo di lucro.
 
 
 
Now that the world isn’t ending,
it’s love that I’m sending to you.
It isn’t the love of a hero
and that’s why I fear it won’t do.
And they say that a hero could save us,
but I’m not gonna stand here and wait.
[Hero, Nickleback]
 
 
 
 
On the wings of eagles
 
 
 
 
La leggera brezza estiva stava cedendo lentamente il passo ad un vento più secco e fastidioso. Haruka non apprezzava il cambio di temperatura: la prospettiva di esser costretto a nuotare al chiuso lo innervosiva. Distolse lo sguardo dall’oceano e decise di non pensarci troppo a lungo.
Camminando lungo il litorale si ricordò di dover comprare del pesce per un pranzetto veloce, qualcosa che non gli facesse accumulare l’ennesimo ritardo al lavoro.
Svoltò a destra, imboccando la strada del mercato. Troppi suoni, colori e odori lo avevano sempre confuso, ma adorava scegliere il cibo da sé.
Si fermò al banco della verdura con la voce di Gou Matsuoka nella testa, che martellava squillante e autoritaria: ricordati delle fibre, Haruka-senpai.
Si stupì quando si accorse del suo stesso sorriso amaro. Rimanere in quel paesino in cui era nato e cresciuto rifiutando le proposte dei talent scout gli era sembrata l’unica prospettiva che potesse farlo sentire davvero libero di essere se stesso, ma con il passare del tempo aveva dovuto ricredersi.
In un primo momento diventare istruttore del club di nuoto Iwatobi lo aveva reso piuttosto soddisfatto. I bambini erano invadenti, facevano troppe domande, ma una volta in acqua erano concentrati e ben attenti. Seguivano tutto quello che lui faceva e, se non riuscivano, ad Haruka non dispiaceva andare in loro aiuto. Insegnare le tecniche base del nuoto era semplice e spontaneo.
Eppure guardare quei bambini sfidarsi a dare di più, a spingere più forte per un’altra bracciata ancora anche se la stanchezza bruciava nei muscoli, vederli aiutarsi l’un l’altro… tutto lo riportava indietro nel tempo. E così aveva dovuto essere onesto con se stesso, rimproverarsi anche, a volte. Era rimasto incatenato al passato senza riuscire a muovere un solo passo in avanti.
Questa non è mai stata libertà, si disse. È sempre stata paura.
 
Scosse brevemente la testa nel tentativo di non fermarsi ancora a pensare.
Si diresse in fretta verso il banco del pesce che avrebbe potuto raggiungere ad occhi chiusi. Adocchiò sgombri e gamberi e si chinò per odorare il profumo salmastro del pesce fresco.
«Salve Nanase. Sei qui per il solito?»
Haruka annuì appena senza preoccuparsi di ricambiare il saluto del commerciante. Qualche istante dopo gli fu sistemata nelle mani una busta di plastica bianca contenente il suo “solito”, il cibo che preparava ogni giorno a pranzo e a cena da quando era solo un ragazzino: cinque sgombri e quattro gamberi.
Mentre sistemava il sacchetto, un bambino passò tra le sue gambe, urlando di contentezza, con un ghiacciolo stretto tra le mani. Un cagnolino bianco correva a perdifiato dietro di lui, con un ciondolo tintinnante appeso al collo, appena sotto la targhetta di riconoscimento.
Per poco il contenuto delle buste di Haruka non finì per terra.
«Ma cos-»
Si voltò senza sapere bene che dire, ma il bimbo s’era già perso nella confusione di braccia e gambe e Haruka non riusciva più a vederlo.
 
Tornando a casa si fermò per qualche secondo a guardare quella che era stata l’abitazione della signora Tamura per tanti anni. Lanciò uno sguardo ad uno dei vecchi gatti che erano rimasti a far da guardiani a quel posto e respirò a fondo.
Pensò a quanto fosse stato strano essere stata l’unica persona presente al funerale di quell’anziana signora. Lo aveva reso triste pensare che non ci fosse nessuno a salutarla e si sentiva in colpa per non aver mai fatto visita alla sua tomba. Non era compito suo, certo, ma la signora Tamura aveva fatto parte della sua vita in qualche modo.
Chinò il capo in una preghiera breve e silenziosa. «Pace a te, Tamura-san».
Un tintinnio lo distolse velocemente dai suoi pensieri.
«Takao-chan!» sentì urlare «Takao, torna qui, per favore!». Riapparve il bambino che aveva visto al mercato e, qualche metro più avanti di lui, il cagnolino bianco dal muso furbo.
Si affrettò verso la sua casa prima di ritrovarsi a dover aiutare quei due piccoli tornado. Avere a che fare con i bambini in piscina era facile perché erano tutti concentrati a non affogare, a non fare passi falsi, ma fuori dall’acqua era un’altra storia. Una storia che Haruka non voleva conoscere.
 
Fece solo due passi sulla scalinata che lo avrebbe portato a casa. La solita, vecchia casa che non aveva mai abbandonato. Due soli passi, prima che la voce del bambino si spegnesse per permettere a suo padre di parlargli.
«Masaki» Haruka sentì il suo collo, le sue orecchie, tutto il suo corpo tendersi verso quel suono «metti il guinzaglio a Takao. Voglio farti vedere una cosa».
Haruka si fermò sul secondo gradino e restò in attesa. Gli sembrava stupido starsene ad origliare una conversazione tra un padre ed un figlio, eppure ne sentiva il bisogno. «Guarda qui. Questa è la vecchia casa del tuo papà».
Riuscì a sentire il bimbo che tratteneva il fiato e si scoprì a fare lo stesso. «Vivevi qui con zio Ren e zia Ran?»
«E con i tuoi nonni, sì».
Haruka lasciò inavvertitamente la presa sui sacchetti della spesa. Sgombri e gamberi finirono per terra, le verdure e la frutta rotolarono giù per la strada.
C’erano diversi aspetti della sua vita che Haruka non riusciva a capire, piccoli tasselli che da qualche anno non riusciva più a mettere in ordine. E tutto aveva preso semplicemente a rotolare in avanti per inerzia, come la sua spesa sull’acciottolato.
Ingoiò aria a vuoto prendendo dei grossi respiri, qualcosa era rimasto incastrato nella sua gola e riuscì a sputarlo fuori a fatica. «Ma-Makoto».
 
Il rumore improvviso catturò l’attenzione del bambino e dell’uomo. Haruka annaspò diverse volte, il suo cervello fermo su una sola parola. Un solo nome.
Makoto, Makoto, Makoto.
Il suo viso era esattamente lo stesso di tanti anni prima, con qualche segno del tempo a sottolinearne la dolcezza e qualche filo grigio sulle tempie. Gli occhi verdi e limpidi che necessitavano ormai degli occhiali a tempo pieno. E, più in basso, un tuffo al cuore, un viso familiare ma non uguale a quello impresso nei ricordi di bambino di Haruka: Masaki Tachibana. Un bambino di cinque anni all’incirca con gli occhi scuri e vivaci e la stessa espressione amabile di suo padre.
Makoto, Makoto, Makoto. Makoto e suo figlio.
Il suo viso si colorò di stupore, sorpresa e qualcos’altro che Haruka non riusciva bene ad identificare. Si guardarono a lungo, da un capo all’altro della strada, prima che Takao iniziasse ad abbaiare festoso.
Masaki guardò in alto verso suo padre con l’espressione più buffa che Haruka avesse mai visto. «Papà,» si aggrappò al suo braccio «papà chi è quel signore?»
Gli occhi di Makoto parvero farsi più grandi dietro le lenti spesse. «Haru…» bisbigliò senza fiato.
E allora Haruka seppe di aver sorriso per la prima volta dopo quindici anni esatti.
 
*
 
«Questa casa è sempre la stessa» sorrise Makoto sfilando le scarpe a suo figlio.
Haruka restò addossato allo stipite della porta, guardandoli. Makoto toccava e parlava a suo figlio con sicurezza e amore, in un modo che pungeva il petto di Haruka in un punto pericolosamente vicino al suo cuore.
«Haru-san» chiamò il piccolo Masaki con lo sguardo pieno di ammirazione «nuoti ancora? Papà mi ha raccontato tante storie su di te!»
Makoto si passò una mano sul viso sorridendo con rassegnazione, il suo collo arrossato riportò Haruka indietro nel tempo. «Masaki… non essere così invadente» disse guardando il pavimento.
«No,» rispose Haruka accigliandosi «non proprio. Adesso insegno agli altri come si nuota».
Makoto sollevò lentamente su di lui uno sguardo attento e concentrato, come se le parole che aveva appena pronunciato gli fossero suonate incomprensibili.
Haruka continuava a studiarlo. Era tutto così diverso dai tempi delle superiori, eppure gli appariva tutto così spaventosamente uguale.
Non riusciva a comprendere bene quello che accadeva nella sua testa al momento e, come gli era capitato almeno un milione di altre volte, desiderò di avere il vecchio Makoto al suo fianco. Quello che avrebbe saputo sbloccare gli ingranaggi nella sua mente comunicando come lui non aveva mai saputo fare.
 
Masaki restò nel giardino a giocare con Takao. Cane e bambino rimasero a lungo a fissare la piccola croce di legno sotto cui Haruka aveva sepolto il pesce rosso che gli era stato regalato da ragazzo.
Makoto non riuscì a controllare una piccola risata quando sentì suo figlio urlare: «Haru-san, il tuo pesciolino si chiamava Maccarello?».
«E così» iniziò Makoto sorseggiando appena il suo tè d’orzo «adesso sei istruttore di nuoto?»
Haruka annuì senza guardarlo direttamente. Era difficile incontrare il suo sguardo. «Sì, al Club Iwatobi. Sasabe-san aveva bisogno di aiuto».
Le dita di Makoto tamburellavano sul tavolo cercando di rendere più casuale e rilassata l’intera situazione, ma il modo in cui battevano ripetutamente sul legno, come dei piccoli martelli, era un sintomo chiaro di disagio. Di agitazione, forse.
«Io non ho un lavoro fisso» Makoto sorrise amaramente «a Tokyo sono stato un cameriere, un pescatore, per un bel periodo ho cercato di proseguire con il mio progetto di diventare maestro. Poi…» guardò verso la finestra che dava sul giardino in cui Masaki correva felice.
«Non c’è bisogno che mi racconti ogni cosa, Makoto-»
«Sua madre è andata via. Ci ha semplicemente lasciati indietro. Ogni tanto chiama per sapere come sta il piccolo. Un paio di volte l’anno, credo. Sono qui perché Masaki stia in compagnia dei suoi nonni… non l’avevo mai portato a casa».
Haruka restò in silenzio, non aveva molto da aggiungere. Poteva quasi sentire una punta di fastidio pungolargli le costole come un dolore reale.
Makoto era diventato adulto, aveva avuto un matrimonio e un bambino; forse non se la passava bene, ma aveva una vita, una storia tutta sua, solo sua.
Haruka cos’aveva, al momento? Una piscina in cui recarsi ogni giorno alla stessa ora, dei bambini che lo guardavano pieni di speranza, come se fosse il loro eroe, come se da un momento potesse mostrare loro la potenza di quel ragazzino prodigio che era stato una volta, tanto tempo prima. Aveva la stessa casa di sempre, mangiava le stesse cose di sempre e la sua testa era bloccata in un limbo lontano.
«Forse è ora di andare» sospirò Makoto, lasciando improvvisamente la tazza da cui aveva fatto finta di bere per tutto il tempo. «Avrai da fare, non è così, Haru?»
Haruka annuì, meravigliato: Makoto sapeva ancora leggere i suoi stati d’animo in modo naturale e spontaneo. Non lo credeva possibile, non dopo tutto quel tempo.
Richiamò Masaki e Takao, cercò di scusarsi per il disturbo evitando accuratamente di guardarlo e, mentre indossava di nuovo le sue scarpe, con gli occhi inchiodati sui lacci, bisbigliò: «E’ stato bello rivederti. Ti ringrazio per l’ospitalità che ci hai dimostrato».
Masaki lo salutò inchinandosi appena, in modo un po’ goffo. Era allampanato esattamente com’era suo padre alla sua età.
Quando la porta si richiuse alle loro spalle, Haruka si sentì svuotato di ogni cosa. Guardò la tazza ancora piena che Makoto aveva abbandonato sul tavolo e poi il giardino in cui suo figlio e il cane avevano scavato qualche buca.
Non avrebbe pranzato quel giorno.
 
*
 
«Ikeda Yuki! Smettila di agitare le braccia come un mulinello!»
Sasabe fischiò a lungo dal bordo vasca, richiamando l’attenzione del ragazzino, ed Haruka trasalì. «Sei distratto, Nanase. Non posso tenere d’occhio tutti questi marmocchi da solo».
Haruka annuì, accovacciandosi accanto alla scaletta e dando istruzioni al piccolo Yuki che cercava da settimane d’imparare a nuotare a farfalla.
Il turno pomeridiano del corso di nuoto si concluse con una breve gara sui cinquanta metri stile libero. Haruka rimase a guardare i ragazzini sfidarsi, seduto su una sedia di plastica. Era tempo di dare il fischio di fine, ma si disse che non sarebbe morto nessuno se li avesse lasciati divertire ancora per cinque minuti.
«Makoto è in città» esordì Sasabe, prendendo posto accanto a lui e abbandonando sul tavolino accanto alla sedia un plico di nuove richieste d’iscrizione alla scuola nuoto. «Perché ho l’impressione che il tuo umore ancora più cupo del solito abbia a che fare con questo?»
Haruka fissò le ultime bracciate di un ragazzino particolarmente veloce e aspettò la frazione di secondo in cui la sua mano toccò il bordo per rispondere. «Ci siamo incontrati questa mattina, per caso» esitò per qualche secondo e poi aggiunse «era con suo figlio».
Sasabe non sembrò stupito. Allungò un braccio sulla testa e si stiracchiò prima di fischiare la fine della lezione di nuoto.
La piscina si riempì all’istante delle urla dei bambini che correvano verso gli spogliatoi spintonandosi e rincorrendosi. Haruka non si alzò dalla sua sedia.
«Pensi di vederlo ancora, prima che riparta per Tokyo?»
Guardò dritto dinnanzi a sé e strinse i pugni. «Non lo so. Puoi lasciare aperto l’edificio? Voglio nuotare».
 
L’accettazione e il silenzio che da sempre l’acqua sapeva offrirgli nei suoi momenti più confusi, non riuscì a calmarlo quel giorno. Haruka nuotò con lentezza, lasciandosi scivolare nei varchi che le sue mani aprivano, ma la sua testa continuava ad alzare il volume sui suoi pensieri ed Haruka finiva per lasciarsi distrarre da se stesso.
Non aveva senso cercare di zittire la curiosità e la voglia di sapere chi fosse diventato quello che una volta era stato il suo migliore amico, la persona più affine a se stesso che avesse mai incontrato. Completò trentaquattro vasche e, a metà della trentacinquesima, capì che avrebbe dovuto parlare ancora con Makoto per lasciare definitivamente andare il fantasma del suo passato.
Si issò sul bordo della vasca meccanicamente. Qualche attimo dopo guardò il blocco di partenza e si ritrovò a chiedersi quanto gli fosse costato dimenticare di aver avuto una mano calda e sicura a risollevarlo per tanto tempo.
 
Non fece neppure una doccia, si asciugò brevemente e infilò la tuta. Corse verso casa Tachibana, con l’odore del cloro ancora addosso e il cuore che martellava nel petto.
Il borsone continuava a rimbalzare sulla sua gamba e, ad ogni tonfo, lo colpiva incessantemente lo stesso pensiero di quella mattina. Un’unica parola, un unico nome.
Arrivò all’abitazione con il fiato corto e i capelli ancora umidi. Suonò il campanello con insistenza senza tener conto che fosse ora di cena. Continuò a tenere il tempo con il piede destro, contando i secondi che ci avrebbero messo per aprire la dannata porta.
Fu la signora Tachibana a pararglisi davanti. «Haru-chan…»
Si erano incontrati in paese un’infinità di volte, ma Haruka cercava sempre di scappare via in fretta, di parlare il meno possibile. Lasciarsi dare poche informazioni.
In tutti quegli anni non aveva mai più bussato alla loro porta, era sempre rimasto seduto sulla scalinata che divideva quella casa dalla sua. Aveva guardato da lontano le luci dietro le finestre, aveva immaginato i signori Tachibana parlare al telefono con i loro tre figli, tutti ormai lontani. A volte aveva comprato un ghiacciolo e non lo aveva mangiato. Lo lasciava semplicemente a sciogliersi per terra.
«Makoto, vieni qui! Haruka è venuto a trovarti!» urlò la signora Tachibana invitandolo ad entrare. Haruka sfilò velocemente le scarpe e attese che Makoto si affacciasse dall’ingresso, con le sopracciglia arcuate in un’espressione gioiosa.
La ricordava così bene.
«Vieni pure, Haru».
Entrare nella camera di Makoto fu come lasciarsi sopraffare dai ricordi. Masaki saltellava da un angolo all’altro della stanza, indicando i posters sulle pareti e i vecchi quaderni di suo padre, lasciati sulla scrivania nell’eterno disordine del Makoto diciottenne.
Masaki non si stupì di trovare due futon nella camera. «Tu dormivi su questo qui, Haru-san?»
«Sì» rispose Haruka, guardando Makoto «ma penso che questa notte prenderai tu quel posto».
 
Haruka restò per cena, guardò per la prima volta come i signori Tachibana viziavano il loro nipotino e si sorprese a fissare più volte Masaki. Quel bambino gli piaceva, era troppo allegro e loquace, ma nascondeva una timidezza di fondo che glielo faceva sentire vicino.
Non poteva dirsi a suo agio, lì in mezzo, ma non si sentiva neppure tagliato fuori. C’era una strana sensazione di calore che gli si scioglieva nello stomaco, stando in quella casa. Nostalgia, probabilmente. Non ne era troppo sicuro.
I signori Tachibana subito dopo cena si scusarono e si dissero troppo stanchi per intrattenere ancora l’ospite. Si allontanarono verso la camera da letto dopo aver dato un bacio sulla fronte a Masaki e una stretta di mano ad Haruka.
Makoto finalmente lo guardò in viso con un misto di gratitudine e incertezza negli occhi. Lo invitò ad accomodarsi in camera sua.
«Com’è andata la giornata di lavoro, Haru?» chiese cordialmente, mentre Masaki giocava ad aggrapparsi alle sue spalle.
«Come al solito» rispose distrattamente.
Parlarono di come Sasabe avesse ampliato la struttura del club e di quante iscrizioni stessero registrando. Mentre parlava si accorse di come si fosse addolcito lo sguardo negli occhi di Makoto. Si voltò appena e vide Masaki addormentato sul futon, ancora vestito.
«Forse è meglio che vada» si schiarì la voce Haruka. Si rendeva conto di non aver posto rimedio a nessuno dei suoi dubbi, a nessuna delle sue domande, ma di questo passo non avrebbe mai potuto farcela, neppure se avesse avuto settimane a disposizione.
Fece per rialzarsi, ma Makoto gli sfiorò il polso. «Non essere stupido, Haru. Resta ancora un po’, è da tanto che non ci vediamo».
 
Non sapeva come, Haruka si ritrovò ad inserire un videogame nella vecchia console di Makoto, mentre lui rimboccava le coperte a suo figlio. Fu strano vederlo pregare in silenzio per lui, ma Haruka sentì che essere padre doveva avere a che fare anche con questo. Chiedere protezione per il proprio bambino e provare a costruire per lui una vita serena.
«E’ da un’eternità che non prendo in mano uno di questi aggeggi» sorrise Makoto, prendendo un gamepad.
Giocarono per più di un’ora, Makoto perse miseramente nella simulazione di gare d’auto e Haruka non si rese conto di aver iniziato a ridere fino a quando il suo migliore amico si zittì all’istante e lo guardò meravigliato.
«Scusa» disse Haruka, mollando la presa sul gamepad «sono più allenato di te. Tu hai… altro di cui occuparti».
Makoto si schiarì la voce. «Perché non sei venuto al mio matrimonio?» chiese come se fosse una domanda del tutto casuale, priva d’implicazioni.
«Non mi sembrava il caso, Makoto».
«Perché avevamo litigato prima che partissi per Tokyo?»
Masaki fece uno sbuffo nel sonno e si rigirò su se stesso.
«Perché non ci siamo più rivolti la parola».
Makoto scrollò le spalle con un’espressione lontana e irriconoscibile. «Ma certo» disse con un sorriso finto «certo, non ci siamo più rivolti la parola. Vuoi sapere una cosa buffa Haru? Io non ricordo più il perché». Haruka lo fissò a lungo, la rabbia e i vecchi rancori che riaffioravano velocemente nella sua testa. «Mi hai odiato perché avevo deciso di andare a Tokyo, ma ti sei rifiutato di frequentare la mia stessa università. Credevo che lo facessi per una buona causa, Haru. Credevo che stessi inseguendo un sogno».
Haruka strinse i pugni e prese grandi boccate d’aria. Anche lui credeva d’inseguire qualcosa allora. Credeva che staccarsi dai suoi amici, forzarsi a vivere lontano da Makoto, lo avrebbe reso finalmente libero. Svincolato da quei sentimenti che non capiva, dalla paura di perdere qualcuno d’importante, dall’ansia per il futuro, libero da quella gelosia e da quella confusione che lo tradivano in ogni momento.
Ricordava le parole del Makoto di un’altra vita, un Makoto poco più grande di Masaki.
 
«Ho pensato di voler andare in un posto in cui Haru non c’è»
«Perché?»
«Volevo essere sicuro che starei bene anche se Haru non fosse qui. Haru starebbe bene anche se io non fossi qui, no?»*
 
Se solo fosse stato meno testardo e orgoglioso, se solo avesse avuto la forza di tirare fuori quello che pensava senza remore, senza sentirsi vulnerabile o stupido, se solo fosse stato un po’ meno Haruka, avrebbe spiegato a Makoto che aveva cercato di fare esattamente la stessa cosa. Voleva dimostrare a se stesso che avrebbe potuto farcela da solo. Voleva stare bene senza dipendere da Makoto.
Ma forse, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto che Makoto lo trovasse, prima di andare avanti con la sua vita.
«Io- io non…» chiuse gli occhi, sperando di riuscire a tirar fuori qualcosa dalla sua testa.
«Sai, Haru, sono stato male per tanto tempo. Mi sono sforzato di non chiamarti, di non correre qui ogni volta che mia madre mi diceva di averti visto triste e cupo, come su un altro pianeta. Volevi spazio e io questo l’ho sempre saputo… pensavo ne avessi bisogno per realizzarti. Ma non è così, Haru, e io non capisco… perché non mi hai più voluto?»
Haruka si portò le mani agli occhi e strizzò forte le palpebre. Cosa gli stava chiedendo Makoto? Cosa voleva lui da Makoto?
Perché non potevano semplicemente passare un po’ di tempo insieme come vecchi amici? lo aveva visto fare a tanta gente e nessuno gli era mai sembrato così ferito, così sofferente, dopo quegli incontri.
«Penso… penso di essermi spaventato, a quel tempo. Avevi dei progetti e io no».
Makoto spalancò i suoi occhi, gli occhiali scivolarono appena lungo il suo naso. «Io… io ti stavo aspettando, Haruka! Avevo deciso di restare in città e frequentare l’università più vicina! Tu-» sorrise incredulo «tu avevi detto di voler essere libero».
«Ma hai avuto una vita, giusto? Ti sei sposato, hai avuto un figlio. Non hai motivo di pensare ancora a queste cose».
La luce di un lampione entrava dalla finestra illuminando il profilo di Makoto, le sue mani tremule e le sue spalle sempre così larghe. Sulla bocca aveva la stessa espressione triste che Haruka aveva visto poche volte nel corso della sua vita. E tutte quelle occasioni erano state dolorose.
 
Masaki intanto cominciò a lamentarsi nel sonno, si rannicchiò più volte e sul suo viso apparve una piccola smorfia. Makoto guardò Haruka e poi suo figlio con apprensione. Il bambino toccava insistentemente il suo orecchio.
«Masaki, ehi» Makoto si accovacciò accanto a lui, prendendolo in braccio e baciandogli la fronte «non piangere, non è nulla. È l’orecchio che ti fa male, passa subito».
Sollevò appena lo sguardo verso Haruka e lo fissò con il panico mal nascosto dietro le lenti degli occhiali. «L’ho portato in spiaggia, oggi» sussurrò a mo’ di spiegazione.
Haruka raccolse la sua giacca e si affrettò verso l’uscita. «Scrivi un biglietto ai tuoi. Andiamo in ospedale a farci dare qualcosa».
Haruka guidò con le mani talmente strette al volante da farsi diventar pallide le nocche. Di tanto in tanto osservava Makoto e suo figlio con la coda dell’occhio. Lo vedeva cullare Masaki, bisbigliargli parole di conforto all’orecchio e asciugargli il sudore dalla fronte. Ripensò alle volte in cui Makoto si era preso cura di lui, a quelle notti che aveva trascorso sveglio al suo fianco per assicurarsi che la solita febbre di aprile –che si procurava con la testardaggine di voler fare un bagno all’aperto anche se faceva ancora troppo freddo- non salisse mai oltre i trentotto gradi. Ripensò alla mano che trovava a bordo vasca, agli incoraggiamenti dopo ogni compito in classe fallito e ai complimenti per i bei voti.
Spinse più forte sull’acceleratore per evitare di sentirsi male.
 
In ospedale diedero dell’antibiotico a Masaki e si congratularono con lui per aver contratto una bell’otite del nuotatore. Il ragazzino rise a lungo e sembrò illuminarsi d’orgoglio.
«E’ come la ferita di un soldato» disse la dottoressa, scompigliandogli i capelli.
Si stabilì che Masaki restasse in ospedale per un paio d’ore, per tenere sotto controllo la febbre. Masaki si addormentò poco dopo su una sedia in sala d’aspetto, un’infermiera continuava a tenerlo sott’occhio  dall’altro capo del corridoio.
Makoto si sedette per terra, col viso affondato tra le ginocchia e le braccia sulla testa. Se stava piangendo, Haruka non avrebbe voluto o dovuto vederlo.
«Dov’è sua madre?» chiese improvvisamente, come se si fosse ricordato solo in quel momento del particolare fondamentale, del tassello mancante o danneggiato.
«Se n’è andata, Haru, te l’ho detto» bisbigliò stancamente Makoto. Non piangeva, ma la sua voce era spenta… stanca.
«Sì, ma perché?»
Makoto sollevò appena il viso, ma non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi. «Tu credi veramente che io ti abbia messo da parte. Dimenticato in uno stipetto nella mia testa. Non è così, Haru».
Haruka aprì la bocca, cercando di replicare, ma Makoto si alzò in piedi e prese in braccio Masaki. «Ne parleremo un’altra volta, ora devo occuparmi di mio figlio».
 
*
 
«Pronto».
«Haruka-senpai! Finalmente mi rispondi!»
«Gou».
Una risata breve e acuta dall’altra parte della cornetta. «Sì, sono io. Ho saputo che Makoto è in città. Vi siete già incontrati? Molto probabilmente Nagisa-kun e Rei-kun saranno di ritorno dal loro viaggio la prossima settimana… potrei venire in paese anch’io! Sarebbe bello rivedervi tutti!»
Gou Matsuoka era una tempesta e il mal di testa che Haruka avvertiva dopo una notte intera passata tra litigi velati e corse in ospedale non gli permetteva di sopportarla. «Gou, parla piano, non ho capito niente!»
«Avanti, avanti, dimmi come sta Makoto!»
«Lui sta… sta bene. È qui con suo figlio».
«Sì, questo lo so, Haruka-senpai! Me l’ha detto al telefono! Sii più specifico, nuota ancora? È molto cambiato?»
«Questo io-io non lo so. Non so se nuota. Ed è solo cresciuto, come tutti».
«E tu, tu come stai? È stato difficile rivederlo?»
«E’ stato strano».
«Penso dobbiate dirvi delle cose. Cerca di trattenerlo in città finché non saremo tornati anche noi».
«Ok, Gou. Ciao».
Si sedette in cucina con la testa tra le mani. L’entusiasmo per il ritorno di Makoto cominciava ad irritarlo in diversi modi.
Si aspettavano tutti che ricominciassero da dove avevano interrotto il loro rapporto, ma mai come la sera precedente questa gli era sembrata una prospettiva irrealizzabile.
Sospirò, trascinandosi svogliatamente verso il bagno. Quel giorno avrebbe avuto solo un turno di un paio d’ore al club Iwatobi e non avrebbe potuto avere giornata peggiore. Desiderava solo impegnare la mente, tenersi lontano dal pensiero di Makoto il più possibile e due ore non sarebbero mai bastate.
 
Si preparò con lentezza e uscì di casa con la testa pesante. L’aria di fine estate era fresca e piacevole a quell’ora. Imboccò la strada che lo avrebbe portato alla scuola nuoto e si fermò improvvisamente davanti all’abitazione dei Tachibana.
Da lontano poteva solo vedere il riflesso dei primi raggi di sole sulla finestra della vecchia camera di Makoto. Restò a fissare in silenzio quella casa.
Che cosa sarebbe successo se avesse lasciato partire Makoto senza aver chiarito le parole della notte precedente? Che cosa sarebbe successo se tanti anni prima lo avesse chiamato anche solo una volta?
I suoi piedi lo guidarono ancora una volta davanti a quella porta. Strinse le mani l’una nell’altra con forza, perso nell’indecisione. Si toccò la fronte, perché improvvisamente si sentiva accaldato ed agitato come non gli accadeva da tanto tempo.
«Makoto… io… ho cercato di liberarmi. E non ci sono riuscito…» bisbigliò alla porta chiusa. Vi posò sopra il pugno e singhiozzò.
 
Un istante dopo la porta si schiuse, la mano di Haruka ricadde sul fianco come morta e Makoto gli fu accanto, accigliato.
«Ti ho visto qui fuori dalla finestra» spiegò. «Che ci fai qui?»
«Che significa quello che mi hai detto ieri sera? Tu non mi hai messo da parte?» Il collo di Makoto avvampò e Haruka si sforzò di guardarlo dritto negli occhi.
«Non farci caso. Ero stanco e preoccupato per Masaki…»
Sbatté una mano sul petto dell’altro, il cuore che correva veloce nella sua gola. «Che significa, Makoto?»
Makoto strinse le dita attorno al suo polso, Haruka si chiese se stesse cercando di allontanarlo da lui. Lo sguardo nei suoi occhi era vivido e acceso.
«Significa che… non sono andato avanti senza di te. Significa che non ho mai accettato che mi avessi messo fuori dalla tua vita. E che mia moglie ha sempre pensato che io avessi un’altra, fino a quando non ha capito che non c’era nessuna. Che-» s’interruppe singhiozzando.
Haruka spalancò gli occhi, strinse forte i pugni e tentò d’ingoiare tutto il panico che stava risalendo velocemente dal suo stomaco.
«Non c’era nessun’altra. C’eri solo tu, Haruka. Sempre e solo tu, anche se non ti vedevo da tredici anni. Se n’è andata e l’unica cosa che riuscivo a pensare era “povero Masaki”. Non mi sono mai disperato per lei. Non ci riuscivo, non ci riesco».
Makoto continuò a guardare oltre la sua spalla, la luce del sole illuminava le sue ciglia chiare, il suo naso sciocco, il profilo che Haruka aveva miseramente cercato per tutto quel tempo. «Una volta» disse chiudendo gli occhi «mi hai detto che volevi andare in un posto in cui io non potessi arrivare solo per sapere se avresti potuto star bene senza di me. E poi… poi hai dato per scontato che io stessi bene senza di te. E per questo avresti dovuto imparare anche tu a starmi lontano».
Haruka riaprì lentamente gli occhi e con incertezza guardò verso Makoto. Doveva aver capito. «Io non avevo piani, senza di te. Non stavo bene».
Per un attimo una grossa nuvola oscurò il cielo, gettando una lunga ombra sull’intera via. Senza il calore del sole, il vento fresco di poco prima sembrava gelido e cattivo, entrava sin dentro le ossa. «Però abbiamo imparato qualcosa» bisbigliò Haruka.
Makoto annuì con un sorriso tremulo.
 
C’è una vecchia storia che racconta di un’aquila anziana a cui si era annebbiata la vista. Essa una volta volò in cielo e bruciò le sue ali e il velo che le copriva gli occhi al calore del sole. Poi scese di nuovo in terra, s’immerse in una fonte e ne uscì giovane e vigorosa.
Siamo come quell’aquila, pensò Haruka stringendo la maglia di Makoto tra le dita. Non vedevamo, ma se non ci fossimo bruciati, non avremmo potuto rinascere.
Makoto lo abbracciò con forza, con la bocca premuta contro il suo collo. La nuvola si ritirò in fretta e i raggi del sole li illuminarono ancora.
Haruka ebbe un attimo per guardare in terra le loro ombre unite in un’unica sagoma, prima che Makoto lo baciasse.
   
 
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