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Autore: Red_head    22/08/2014    1 recensioni
« Non si sfiorarono più da quando Robbie aveva preso il menù la prima volta; stettero dai lati opposti dell'ascensore e si guardarono per tutto il tempo, studiandosi. Robert indossava un paio di jeans blu scuro che avevano sopra una patina a modi vernice metallizzata, che sembrava essere stata passata con un rullo da imbianchino. Una t-shirt bianca, semplice, di cotone leggero e un paio di Vans azzurre ai piedi, modello basic. Portava il bicchiere di plastica alla bocca con calma, si sfiorava la barba scura con le dita e sembrava un sacco morbida. Anche le sue labbra sembravano morbide. Distolse lo sguardo e scese dal vano appena arrivarono al piano. Inserì la chiave elettronica nella fessura di lettura e non appena la luce al led diventò verde si sentì spingere dentro la stanza da una mano, che fece pressione sulla sua zona lombare. Non si voltò perché Robbie gli appoggiò il profilo contro la base della nuca, le labbra, leggere e umide, sul collo. Il suo alito sapeva di Delirium Tremens.»
Genere: Commedia, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Erano almeno dieci minuti che fissava il tabellone delle partenze dell'aeroporto. Non aveva mai guardato per così tanto tempo quelle scritte luminose, mai si era soffermato a osservare la destinazione di voli che non fossero il suo: New York, Londra, Parigi, Milano, Bangkok, Mosca, Ginevra … Tokyo.
Ritardo indefinito.
Mai nella storia dei suoi viaggi di lavoro gli era capitato un “ritardo indefinito”.
Sì, era sempre stato particolarmente fortunato probabilmente, tuttavia “ritardo indefinito” era troppo per i suoi nervi, soprattutto lì, in quel posto che non conosceva, in uno Stato che non era quello segnalato sulla copertina de suo passaporto e dove si sentiva completamente a disagio.
Aveva fatto una scenata allucinante al desk della compagnia aerea, ma quello che aveva ottenuto erano informazioni sommarie: “le condizioni meteo non permettono di volare, Mister Bennington”, “siamo spiacenti, tuttavia saremo lieti di offrirle una sistemazione per la notte. Non si deve preoccupare di nulla, penseremo a tutto noi: il suo comfort è la nostra prima preoccupazione”, eccetera. Erano stati dannatamente gentili, cosa che gli rendeva ancora più difficile essere incazzato.
Persino i capi non si erano arrabbiati, dopo tutto un uragano era perfettamente in stagione, un rischio calcolato: gli augurarono una buona notte e un buon viaggio per il giorno dopo. Sempre che fosse riuscito a partire, naturalmente.
Sospirò e si avviò verso l'uscita del Terminal trascinando la sua valigia rigida azzurra: era enorme, ma era in viaggio già da una settimana e avrebbe trascorso i prossimi sette giorni in Giappone, quindi più cambi del solito erano necessari.
Salì sulla navetta interna che l'avrebbe portato all'albergo, un cinque stelle che portava un grande nome: alla reception lo stavano aspettando, pronti con la chiave magnetica di una suite con sopra appiccicato un post-it che arrecava i dati della sua carta d'imbarco. I vantaggi della first class.
Fissò le figure riflesse sul vetro del vagone elettrico: non era l'unico ad essere stato costretto a quella sosta imprevista, ma non si soffermò sulle immagini degli altri passeggeri, bensì sulla propria. Occhiaie scure che gli arrivavano alle caviglie, espressione nervosa, cravatta allentata che non vedeva l'ora di essere gettata per terra, probabilmente sul parquet non-scricchiolante della sua camera per una notte.
Il parquet era scuro, non produceva alcun rumore e la stanza bellissima: vetri insonorizzati per una vista mozzafiato su una delle piste dell'aeroporto internazionale. Vuota, naturalmente, fradicia di una pioggia che sembrava scendere a secchiate direttamente dal paradiso.
Gettò la cravatta viola sul letto, decise di graziarla, sì; sfilò le converse nere con un paio di rapidi movimenti tacco-punta e aprì velocemente la valigia per poter recuperare un paio di pantaloni più comodi di quelli del completo. Aveva calcolato tutto: sarebbe atterrato a Tokyo di lì a poche ore, quindi avrebbe potuto sopportare tranquillamente il cotone pettinato, che non si sarebbe sgualcito. Le scarpe eleganti le aveva imboscate dentro la borsa di cuoio che si era portato come bagaglio a mano e ci avrebbe costretto i piedi poco prima di atterrare in Giappone. La giacca l'avrebbe appesa all'apposito gancio nel suo piccolo scomparto da privilegiato viaggiatore dei cieli prima di sedersi sul comodissimo sedile, quindi non si sarebbe sgualcita.
Tutto sfumato. Tuta, voleva gli anonimi, comodi e iper trash pantaloni di una tuta. Neri, un po' sformati e persino scoloriti, ma se ne sarebbe sbattuto: voleva solo scendere al bar dell'albergo a bere un paio di drink per conciliare il sonno, nulla più. Nessun cliente da incontrare, nessuno su cui dover fare una buona impressione.
Prima di uscire dalla suite lanciò un'occhiata allo specchio dell'ingresso e vide un uomo biondo, stanco, assetato di alcool, che non vedeva assolutamente l'ora di appoggiare le labbra leggermente screpolate sul bordo di un bicchiere ghiacciato. Ma prima tornò indietro per recuperare il burro cacao dal taschino della giacca.


___ « Scotch e soda.»
Si sentiva un sacco figo a ordinare scotch più soda, senza motivo alcuno fra l'altro: la soda rovinava inesorabilmente il sapore dello scotch, il quale tuttavia era un po' troppo forte per i suoi gusti. Buonissimo, ma troppo.
Alla fine dei conti era semplicemente uno sfigato come tanti che in tuta da ginnastica, infradito e t-shirt sformata, beveva drink che insultavano il buon nome dei super alcolici britannici e spiluccava noccioline arrampicato sullo sgabello di un bar aeroportuale.
Ed era anche il terzo che tracannava come se fosse coca-cola: il giorno dopo se ne sarebbe sicuramente pentito. Pace.
___ « Vuole qualcosa da mangiare?»
___ « … mhn, potrebbe essere una buona idea. Avete un menù?»
___ « Certo, Mister.» Il sorriso del vecchio barman lo fece rilassare: afferrò il cartoncino stampato dritto-rovescio e lesse prima il davanti, poi il retro.
Non era male la scelta, poco ampia, ma ottima. Internazionale, forse per far sentire a casa tutti gli sfigati che venivano da parti di mondo che non erano quella.
___ « Okey, proverò le tartine al fois-grois con la composta di fichi.»
___ « Ottima scelta, Mister.»
___ « Ne faccia due porzioni, grazie. E un black mojito, per favore.»
Ruotò appena il capo verso destra, direzione dalla quale era provenuta quella voce maschile e vi trovò due occhi azzurri particolarmente chiari, sottolineati da voragini oscure che le sue, in confronto, parevano una spiaggia bianca di Saint Barth.
___ « Certo, Mister.»
Il barman li liquidò dando loro le spalle, ebbe in mano pestello e fettine di lime in meno di cinque secondi: un mago.
___ « Scusa.» Gli occhi azzurri continuarono a parlargli, o per lo meno il tizio a cui appartenevano.
___ « Per cosa?» Domandò in un filo di voce, non per timidezza, ma perché era davvero stremato e le forze per chiamare a raccolta una voce meno idiota gli mancavano completamente.
___ « Per aver ordinato le tue stesse tartine. Potrebbe essere vista come una violazione della privacy, sai?»
Incrinò un sopracciglio e lo guardò stupito.
___ « Sei inglese.»
___ « Anche tu.»
___ « Comunque non fa niente, insomma, non mi sento violato.»
___ « Ma si sente così tanto il mio accento?»
___ « Più o meno quanto si sente il mio.»
___ « Ahn … allora sono fregato.»
Rise di gusto, di petto, di cuore: quello sconosciuto gli aveva appena detto, in un giro di parole piuttosto efficace, che parlava dimmerda e la cosa lo fece ridere. Un sacco.
___ « Black mojito, Mister.»
___ « Grazie. Ma che ti ridi?»
___ « No! Cioè, niente … insomma! Boh. Sono stanco. E ubriaco … ho fame. Hai un nome?»
___ « Certo che ho un nome.»
___ « E pensi di potermelo dire?»
___ « Certo che penso di potertelo dire.» Ma non lo disse: levò invece il bicchiere di vetro verso di lui e sorrise, con un piccolo ghigno a increspargli la bocca. « Cheers!»
___ « Cheers.»
___ « Le tartine, signori. Gradite altro?»
___ « Avete delle olive?» Chiese occhi-azzurri.
___ « Certo, Mister.»
___ « Allora olive, il mio amico le gradirebbe un sacco.»
___ « What?» Afferrò una tartina con fois-grois e composta di fichi, ci affondò le fauci e si deliziò immediatamente dell'esplosione di sapori che fece ballare la hula alle proprie papille gustative: il pane era caldo e croccante, un po' speziato, il frois-grois … francese, sì. La composta cremosa e pungente.
___ « Beh, uno che beve quella roba, deve mangiare anche olive con uno stuzzicadenti. E' la prassi: hai mai visto un film di James Bond, scusa?»
___ « Hai appena chiesto a un inglese se ha mai visto un film di James Bond?»
___ « E' che sembri un inglese atipico.»
___ « Lo prenderò per un complimento.»
___ « Prendilo un po' come ti pare.»
Bevve un sorso del suo scotch più soda, giusto per rimarcare quanto fosse buono quell'intruglio abominevole e ci impresse un po' di fierezza tirando su le spalle e mettendosi con la schiena ben dritta: fino a qualche attimo prima era tutto curvo, a modi paramecio ubriaco.
___ « Alloggi qui?» Gli chiese occhi-azzurri.
___ « Contro ogni mio volere: sì.»
___ « Dannati uragani.»
___ « L'uomo è andato sulla luna, ma non è ancora riuscito a far decollare un aereo in mezzo a una tromba d'aria.»
___ « Dove dovevi andare?»
___ « Stati Uniti.»
___ « Tanto saranno ancora là pure domani.»
___ « Sempre che un uragano non spazzi via pure gli States.»
Sbuffò una piccola risata e mangiò un'altra tartina prima di ruotare appena il busto verso il suo interlocutore: occhi azzurri lo abbiamo già detto, viso affilato, un accenno di barba scura, capelli sparati a casaccio intorno alla testa, corti.
Si passò una mano nella chioma e così la incasinò ancora di più.
Mangiò la terza tartina e finì di bere il terzo scotch più soda.
___ « Ne vuole un altro, signore?»
___ « No, grazie, o non arriverò in camera.»
___ « Non è che ci devi tornare per forza, in fondo non avresti nemmeno dovuto essere qui.» Intervenì occhi-azzurri, finendo di succhiare il suo black mojito che si era praticamente aspirato in meno di tre minuti.
___ « Logica inoppugnabile.»
___ « Quindi un altro black mojito e un … quell'intruglio che sta bevendo.»
___ « Scotch e soda.»
___ « Ohmmioddio, non dirlo ad alta voce, ti prego: è imbarazzante.»
Rise di nuovo, sempre di gusto, sempre di petto, sempre di cuore e non sarebbe stata l'ultima delle risate di gusto, petto e cuore provocate da quello sconosciuto.
Che sconosciuto non rimase a lungo. Dopo un'oretta sapeva che era inglese, ma non di Londra: veniva da Manchester, difatti l'accento gli sembrava di averlo già sentito. Lui era originario di Liverpool, non stavano tanto lontane le due città. Lavorava nel campo della musica, ma non era un artista. Né un manager. E non sapeva suonare neanche uno strumento musicale: dopo tutto non è un requisito fondamentale per lavorare nel campo della musica, no? Avrebbe dovuto essere a New York: forse il volo dell'American Air Lines di cui aveva letto le coordinate prima, in aeroporto, era quello che avrebbe dovuto portare il suo interlocutore in America.
Avevano la stessa età. Odiava il sushi, per questo aveva preso le tartine al fois-grois quando, probabilmente, chiunque altro avesse letto quel menù internazionale avrebbe optato per il trionfo di sushi arcobaleno proposto poco più su della specialità francese.
___ « Nemmeno a te piace il sushi?»
___ « Non mi dispiace … però con lo stoch mi suonava male. Insomma, se avessi preso il saké probabilmente avrei optato per il sushi.»
___ « Chi diavolo ordina saké nel bar dell'albergo di un aeroporto?»
___ « Forse un giapponese.»
___ « Touché!» E rise anche lui, per la prima volta. Abbastanza di gusto.
___ « Sono le due del mattino, ho la sveglia fra quattro ore.»
___ « Anche io.»
___ « Magari dovremmo andare a dormire.»
___ « Sicuramente dovremmo farlo.»
Ordinarono altri due drink e una porzione di sushi: il suo interlocutore era così ubriaco da sostenere di volerlo capire e per capirlo, doveva assaggiarlo nel bar di un albergo aeroportuale.
___ « Dimmi il tuo nome, sono stufo di pensare a te come allo “sconosciuto”.» Storse le labbra in una smorfia e mimò persino le virgolette a mezz'aria per dare più enfasi alla parola “sconosciuto”.
___ « Robert.»
___ « Oh, è così english.»
___ « E tu?»
___ « Jeremy.»
___ « So american.»
Si strinsero la mano e si guardarono per la prima volta reciprocamente negli occhi: sorrise appena e anche Robert gli sorrise. Ubriaco.
___ « Adesso però è davvero il caso che vada a dormire.»
___ « Sì, anche io.»
___ « Hai un tablet?»
___ « Beh, sì.»
___ « Fammelo vedere.»
___ « E' in camera mia …»
___ « Andiamo.»
Salutarono il barman del turno di notte e non pagarono nulla: era tutto a carico delle compagnie dei rispettivi voli. Salirono in ascensore strascicando entrambi i piedi e notò solo in quel momento che anche Robert era in ciabatte, ma non infradito, proprio ciabatte. La cosa lo fece sorridere.
___ « Che te ne fai del mio tablet?»
___ « Sembri il tipo che si segna sul calendario dell'ipad tutti gli appuntamenti di lavoro, i voli che deve prendere, gli incontri con gli amici, persino.»
___ « E che ne sai che ho l'ipad?»
___ « Hai la faccia da fan sfegatato della apple.»
Le porte dell'ascensore e quella della suite si aprirono accompagnate dall'eco delle sue risate.
___ « Stallì sul comodino, da qualche parte …» Sì buttò sul letto, le braccia incrociate dietro la testa, affondate sui cuscini morbidi coperti dalle federe bianche.
___ « In tutto ciò potrei essere un ladro e mi lasci il tuo prezioso tablet fra le mani così, senza problemi.»
Sentì il peso del corpo di Robert affondare sul bordo del materasso e sorrise, a occhi chiusi.
___ « Tanto ho fatto il backup.»
Il buio gli faceva girare leggermente la testa, in quel modo persino piacevole, che ti concilia il sonno alla perfezione. Sentì il proprio respiro farsi pesante piuttosto in fretta e udì vagamente il saluto di Robert.
___ « Io ho la sveglia alle sette. Good bye, Jeremy.»
Mugugnò una risposta incomprensibile prima di sprofondare completamente nel mondo dei sogni. E dormì benissimo: la combo scotch più soda più fois-grois più sushi, aveva avuto l'effetto di venti gocce di xanax.


Era riuscito a partire ed aveva applicato tutti i principi di comfort travel che aveva studiato per il giorno prima, meno la cravatta: l'aveva arrotolata con cura e ficcata dentro al bagaglio a mano insieme alle scarpe eleganti.
Fissò la punta bianca delle converse e sospirò pesantemente: chiese l'ennesima tazza di caffè alla hostess della first class.
Forse era stato tutto un sogno: si era addormentato prima di scendere al bar dell'albergo e si era immaginato tutto. No, i postumi della sbornia erano dannatamente reali; ingoiò un paio di aspirine americane e pregò che facessero effetto prima dell'atterraggio in Giappone.
___ « Gradisce della spremuta d'arancia fresca, Mister Bennington?»
___ « Sì, assolutamente sì, grazie.»
Vitamina C a manetta.
Mentre beveva il primo sorso, accese il tablet e aprì l'applicazione calendario: non aveva assolutamente ricordo di quanti appuntamenti avrebbe dovuto affrontare durante il suo soggiorno nella terra del sol levante.
Passò l'indice destro sul touch screen con flemma, memorizzare seriamente le parole che leggeva era più difficile di quanto si aspettasse e proprio mentre provava a imprimersi nella mente il nome del primo cliente della giornata, Daisuke Yamamoto, il colore insolito di una stringa infilata in una casella del mese successivo gli saltò all'occhio.
Fucsia, lui non usava mai quel colore.
Aggrottò le sopracciglia appoggiando il bicchiere di spremuta sul tavolino reclinabile e ingrandì la casella: era il primo lunedì del mese. E c'era il fucsia anche nel terzo lunedì del mese. Oltre alla comparsa di quella strana stringa, la cosa che accomunava ogni primo e terzo lunedì dei suoi mesi lavorativi era che fosse costretto a fare sempre lo stesso giro di voli: lunedì mattina decollo alle 6:45 da Londra Heathrow con atterraggio a Berlino. Appuntamento alle 10:00 col primo cliente, pranzo libero. Ore 14:00 appuntamento col secondo cliente e se non c'erano troppi casini coi server, alle 17:00 era libero. Pernottamento nella capitale tedesca in quanto il giorno seguente aveva un aereo alle 6:45 per Ginevra e tornare a Londra rappresentava un'inutile perdita di tempo, inoltre Berlino gli piaceva come città. Era moderna, giovane, carismatica e riusciva sempre a trovare compagnia per la notte.
___ « Il fucsia, il fucsia!» Era stato distratto dal suo turbine di pensieri. Schiacciò la striscia fucsia che non arrecava nessun titolo, ma un memo piuttosto chiaro sì: “Berlino, aeroporto Berlino – Tegel, Hotel Mercure, bar, ore 20:00”.
Incrinò un sopracciglio e selezionò lo spotlight del tablet: digitò il nome “Robert”, ma non ottenne alcuni risultato. “Rob”, nemmeno. Sospirò pesantemente: “Sheraton Hotel”, niente. “Old Boat Bar”: niente. “Robbie” … una nota nel blocco appunti. La aprì e rise appena nel leggere il breve messaggio: “vedi di non tardare, i liverpudliani ritardatari mi fanno incazzare.
Rise di gusto. Di petto e di cuore e gli sembrò che i postumi della sbronza se ne fossero andati come esorcizzati da un incantesimo.
Era il ventidue di settembre, mancavano solo otto giorni alla fine del mese e dieci al lunedì che lo avrebbe portato a Berlino.


___ « Allora hai trovato le note!»
Una pacca sulla spalla, quella voce allegra condita dell'accento di Manchester che non sentiva da una decina di giorni e il sorriso che ampio, e un po' strafottente, percepiva anche senza voltarsi a guardarlo.
Ma si voltò e lo vide: occhi azzurri, viso affilato, barba più lunga rispetto alla prima volta che si erano incontrati, capelli sconvolti.
___ « Vuoi concorrere a una qualche lega pro orsetti?»
___ « E tu che ne sai degli orsetti?»
___ « Sono di Liverpool, so tutto degli orsetti.»
Risero insieme e scelsero un tavolo più appartato rispetto al bancone del bar dell'albergo. Erano uno accanto all'altro, entrambi seduti sulla panca di legno adiacente al tavolino rotondo.
___ « Perché non mi hai lasciato il tuo numero?»
___ « Perché tanto ci saremmo visti qui, no?»
___ « Certo, ma …»
___ « Ma, cosa?» Lo vide sorridere e una volta tanto lo faceva senza sfacciataggine. « Siamo due giramondo per mestiere e ho trovato strabilianti le coincidenze sulla nostra agenda. Quindi perché rovinare tutto con un banale numero di telefono?»
___ « … Questo è vero.» Mormorò allungando le dita della mano destra sul cartoncino plastificato della copertina del menù. Robert fece altrettanto e con una nonchalance da maestro gli sfiorò la punta dei polpastrelli mentre si appropriava della carta rilegata.
___ « Posso ordinare io?»
« Sì, certo.» Acconsentì continuando a guardarlo mentre studiava pietanza e ___bevande facendo scorrere velocemente gli occhi azzurri da destra a sinistra.
___ « Okey.» Richiamò il cameriere. « Due Delirium Tremens, un tagliere di salumi e uno di formaggi. Bretzel, ovviamente.»
___ « Ovviamente in Germania non potevi fare a meno di ordinare bretzel.»
___ « Non c'era il sushi.»
Risero per tutta la sera e alla terza pinta di Delirium Tremens, che fra parentesi fa nove di gradazione alcolica, aveva scoperto diverse cose di lui: Robbie, ormai lo aveva battezzato così, era un cacciatore di teste. Lavorava per una casa discografica con sede principale a Berlino e viaggiava un sacco. Adorava la Germania, ma gli mancava l'Inghilterra dove scappava sempre il prima possibile. Difficilmente viaggiava di lunedì, per questo potevano vedersi in quel dell'aeroporto di Berlin – Tegel.
Quindi era venuto lì apposta per lui.
___ « Perché non viaggi di lunedì?»
___ « Perché nel week end ci sono spesso feste, concerti, cose del genere, quindi il lunedì ce l'ho di riposo. Almeno un giorno di riposo me lo sono fatto concedere, cazzo.»
___ « E lo passi in un aeroporto con me?»
___ « Non vedo perché no. Hai visto il calendario di Ottobre? Siamo contemporaneamente a New York e a Hong Kong. E' troppo assurdo Jeremy, dobbiamo vederci per forza di cose.»
Annuì con vigore prima di chiedere il conto al cameriere. E un paio di Delirium Tremens take-away.
___ « Dove andiamo?»
___ « In camera mia. Tu non hai una stanza, no?»
___ « Beh … no. Ci vivo a Berlino.»
___ « Ecco. Sei troppo sbronzo per guidare fino in città. Sei in macchina?»
___ « Sì.»
___ « Quindi dormi da me. Domani ho il volo alle 6:45, ma tu puoi fare una colazione olimpionica addebitandola alla mia nota spese.»
___ « Ah beh, se la metti così …»
Non si sfiorarono più da quando Robbie aveva preso il menù la prima volta; stettero dai lati opposti dell'ascensore e si guardarono per tutto il tempo, studiandosi. Robert indossava un paio di jeans blu scuro che avevano sopra una patina a modi vernice metallizzata, che sembrava essere stata passata con un rullo da imbianchino. Una t-shirt bianca, semplice, di cotone leggero e un paio di Vans azzurre ai piedi, modello basic. Portava il bicchiere di plastica alla bocca con calma, si sfiorava la barba scura con le dita e sembrava un sacco morbida.
Anche le sue labbra sembravano morbide.
Distolse lo sguardo e scese dal vano appena arrivarono al piano.
Inserì la chiave elettronica nella fessura di lettura e non appena la luce al led diventò verde si sentì spingere dentro la stanza da una mano, che fece pressione sulla sua zona lombare. Non si voltò perché Robbie gli appoggiò il profilo contro la base della nuca, le labbra, leggere e umide, sul collo. Il suo alito sapeva di Delirium Tremens.
___ « Sono troppo ubriaco per non baciarti.»
___ « Non te l'avrei impedito nemmeno se fossi stato sobrio.»
___ « Forse da sobrio non avrei avuto il coraggio di farlo.»
___ « Ma sei serio?»
___ « No.»
Si voltò velocemente e non ebbe nemmeno il tempo di fiatare che il respiro glielo stava rubando Robert. La sua barba era dannatamente morbida e anche le sue labbra. Sapevano di birra, ma anche di menta: doveva essersi messo un burro cacao quando non lo guardava. Stronzo.
___ « Che merda …»
___ « Mhn?»
___ « Sei venuto a colpo sicuro, eh?»
___ « Certo che sì.» Gli infilò le mani sotto l'orlo della maglietta e un brivido gli scosse il corpo mentre gli accarezzava i fianchi, scivolando poi sulla schiena.
___ « E se fossi etero?»
___ « Lo sei?»
___ « Non lo so.»
___ « Ci penseremo la prossima volta a etichettarci. Per ora posso continuare a baciarti? Sono troppo sbronzo per farmi tirare l'uccello, sta tranquillo.»
___ « … Ah sì?» Gli venne tremendamente naturale avvicinare il proprio bacino a quello di lui e persino attraverso la stoffa spessa dei jeans metallizzati poté sentire una certa “allegria” nella zona sud di Robert. « Non mi pare proprio.»
___ « Non volevo essere così scurrile da dire: non ce la faccio a buttartelo al culo, ma se mi costringi, Jeremy, te lo dico.»
Gli afferrò il volto avvolgendogli tempie e orecchie con le proprie mani, lo fissò negli occhi, serio come non mai.
___ « L'hai appena fatto, idiota!»
___ « Pft … sta zitto.»
Non parlarono più, in effetti. Solo baci, un sacco di baci, con un sacco di lingua. E magliette lanciate in giro per la stanza: una finì sopra il televisore ultra piatto, una rovesciò un vaso di fiori che per fortuna erano finti, quindi niente acqua. E il vaso non si ruppe. Ma i suoi freni inibitori sì, andarono a farsi fottere completamente nel momento in cui ebbe la visuale dei capelli scuri e sconvolti di Robert che si abbassavano lungo il proprio torace, mentre la sua bocca morbida che sapeva di birra e mentolo gli baciava la pelle, i suoi denti la mordicchiavano e la sua lingua la leccava. Era dannatamente calda la sua lingua, cazzo. Quando il bottone dei propri pantaloni saltò, credette di venire lì, in quel momento: figura di merda assicurata. Invece no, riuscì a resistere finché quella freschezza leggera data dalla menta del burro cacao gli sfiorò la pelle nuda, l'intimo era andato a fare compagnia alle magliette. E ai pantaloni, ovviamente. L'orgasmo lo travolse e gli risucchiò completamente le energie, lasciandolo spompato e nudo in mezzo al letto matrimoniale che aveva delle lenzuola rosse, perfette per il set di un film porno.
Respirò profondamente per qualche secondo, ma poi raccolse le ultime forze che gli erano rimaste e si mise seduto prima di travolgere Robbie per stenderlo sul letto. Non ricambiò il favore con la bocca, ma lo spogliò con una cura maniacale e una lussuria avventurosa dettata dalla prima volta che si trovava fra le mani un corpo speculare al proprio. Sapeva esattamente cosa fare e come farlo e lo fece bene perché lui venne in meno di un minuto e a pieni polmoni, cosa che lo fece sorridere largamente.
Lo abbracciò, lo baciò, poi chiuse gli occhi e si abbandonò al calore del suo corpo nudo, accaldato dalla specie di sesso che avevano appena fatto, insieme.
Lo sentì alzarsi dopo pochi istanti, ma era troppo stanco e ubriaco e appagato per aprire gli occhi: sentì la porta del bagno aprirsi, la luce accendersi e dopo pochi attimi le sue braccia circondarlo nuovamente.
Dormirono così, a cucchiaio, come i ragazzini e quando il telefono squillò per svegliarlo alle sei del mattino, Robert non fece una piega. Non si mosse nemmeno quando si sfilò dal suo abbraccio, saldo anche mentre dormiva; non ebbe reazioni di sorta neppure quando gli appiccicò un post-it sulla fronte.
Sorrise rileggendo il proprio messaggio e se ne andò così, trascinandosi dietro il suo trolly da cabina.
Ci vediamo fra due settimane. Questa volta all'Hilton. Alle 19.


___ « Lunedì sera ti va di uscire? Volevamo organizzare una cenetta fra colleghi, è il compleanno di Kim.»
Alzò lo sguardo dallo schermo del proprio portatile e sorrise appena.
___ « Sarò a Berlino.»
___ « Ahn! E' vero. Che scema: è il terzo lunedì del mese. Un lunedì sì e uno no te ne vai in giro per l'Europa. Come cavolo fai ad avere una vita sociale, poi?»
Sorrise alla ragazza e liquidò la sua domanda in un'alzata di spalle leggera; lei se ne andò ridacchiando, ormai erano tutti abituati al fatto che non potevano contare su di lui per cene e aperitivi fra colleghi, in primis perché la maggior parte delle volte non era nemmeno a Londra, in seconda istanza … non gliene poteva fregar di meno.
Detestava mescolare lavoro e piacere: i suoi colleghi non dovevano essere suoi amici, bastavano le due chiacchiere e i sorrisi gentili scambiati durante le pause caffè, anzi, erano anche troppo. Tutti in ufficio immaginavano che avesse una fidanzata esigente che lo obbligava a starle appresso le rare volte che non era in giro per il mondo e lui lasciava che la loro fantasia galoppasse in libertà come meglio credevano.
Il cavallo della sua mente, invece, scalpitava e si impennava impazzito ogni volta che si soffermava a pensare a Robert.
L'immagine del suo corpo nudo, quasi interamente tatuato, non riusciva ad abbandonargli il cervello. Era bello, dannatamente sexy e carismatico. Quando rideva i suoi occhi si illuminavano d'immenso. “Occhi-azzurri”, così lo chiamava nella sua testa e probabilmente, se glielo avesse confessato, lo avrebbe preso per il culo.
Sicuramente avrebbe voluto prenderlo per il culo in maniera prettamente fisica, glielo aveva anche pseudo detto, prima di finire stesi sullo stesso letto.
E non gli aveva fatto schifo.
Non era mai stato con un altro uomo, più per mancanza di voglia di crearsi le possibilità, che per reale disinteresse. Il corpo maschile lo intrigava, ma gli veniva molto più semplice rimorchiare una donna.
In realtà con Robert era stato tutto facile. Naturale. Istintivo.
E non si erano più sentiti. Non avevano i reciproci numeri di telefono e volendo potevano decidere di non vedersi mai più senza troppe cerimonie: bastava non presentarsi all'appuntamento all'Hilton e senza incazzature, né lacrime o altre stronzate, avrebbero troncato quella sotto specie di rapporto.
Ma non voleva farlo.
Quel modo di fare di Robbie l'aveva intrigato, era innegabile, quindi dato che erano in ballo … tanto valeva continuare a ballare.
E così fecero.
Nel senso letterale del termine.
Come ogni Hilton, anche quello attiguo all'aeroporto di Berlino offriva determinati comfort, fra cui una piccola discoteca per svagarsi e Robert sembrava essere il maestro degli svaghi.
___ « No! Devi metterci p r i m a lo sciroppo di cioccolato, ci sporchi le pareti del bicchierino, capì? Poi ci versi la vodka fino all'orlo e alla fine la panna. Ecco, sì … okey! Facci un bel cappellino di panna montata. Ora cacao in polvere … bene. E adesso altra vodka, ma sporca anche intorno al bicchiere.» Stava insegnando al barista della discoteca un nuovo shot, a suo dire imperdibile. « Bene. E ora … » Prese l'accendino e diede fuoco alla scia d'alcool. « Flambé! Adesso Jeremy, soffia e poi butta giù tutto d'un fiato!» Il suo sorriso era tremendamente contagioso.
___ « Ma sei scemo? C'è un cappello di panna!»
___ « Spalanca quella bocca deliziosa e trangugia 'sto shot o te la farò pagare.»
___ « Agli ordini.» Soffiò sul fuoco ormai basso, si leccò i polpastrelli delle dita per evitare di ustionarsi col vetro caldo e poi buttò giù tutto. « Wow! Forte!»
___ « Vero? Si chiama “bocchino”.»
Gli andò di traverso in ritardo: tossì forte, piegato in due dagli spasmi e dal ridere.
___ « Animale!»
___ « Lo so. E ti piace.»
___ « Sì.» Risposta idiota, ma che sortì l'effetto desiderato: si ritrovò a respirare il profumo della barba scura di Robbie mentre le sue labbra gli circondavano il labbro inferiore, succhiandolo. Lo morse persino, ridacchiando, poi gli infilò la lingua nella bocca e iniziarono a baciarsi in pubblico, senza vergogna, né pudore: l'avrebbe spogliato volentieri lì davanti al barman, eccitato e interdetto, ma non voleva che altri vedessero i tatuaggi sul suo torace.
___ « Ne vuoi … un altro?» Gli domandò lui mordicchiandogli un lobo. Udì i propri gemiti persino con quella musica house assordante a trapanargli il cervello e si sentì un po' una puttana.
___ « Di bacio o di bocchino?»
___ « Di bacio.»
___ « Veramente preferirei un bocchino.»
___ « Parliamo sempre di shottini?»
___ « Cazzo, no.»
Non voleva alcolizzarsi, voleva mantenere quello status di alticcia allegria senza cadere nel coma catartico portato dall'ubriacatura. Non voleva che finisse come l'ultima volta, desiderava godersi tutto, ogni minimo dettaglio, studiare ogni sensazione che il corpo di Robert era in grado di regalargli, tutto.
Lui lo faceva sentire come un oceano in tempesta, al largo, dove le onde arrivano ai cinquanta metri e tutto diventa blu, profondo e intenso. Fra le braccia di Robert non si sentiva una qualsiasi pozzanghera nel grigio londinese.
Lo guardò dritto negli occhi mentre gli avvolgeva le gambe intorno alla vita: piegò un braccio per poter avvicinare la mano al suo viso e infilò le dita fra i suoi capelli neri, sconvolgendoli ancora di più. Risero insieme, si baciarono e poi quelle sensazioni che si voleva godere con mente pseudo lucida, lo travolsero completamente.
Fu una scopata mondiale, in cui i loro corpi di cercavano reciprocamente in un dare e ricevere continuo, sfrenato, passionale.
Non ebbe grandi problemi, qualche dolore sì, ma niente di insopportabile: la prima volta a quindici anni, con una ragazzina inesperta quanto lui, fu sicuramente più traumatica del suo esordio nel mondo del sesso omosessuale.
E alla fine si infilarono nella vasca da bagno idromassaggio, Robbie era accoccolato fra le sue gambe, appoggiato con la schiena contro il proprio torace e giocava con una spugna naturale, impregnandola d'acqua e strizzandola senza un ritmo preciso.
___ « Cosa stai pensando?» Gli chiese baciandogli una spalla, con le labbra bagnate, laddove era presente uno dei suoi molteplici tatuaggi.
___ « Che mi hai aperto in due come una cozza.» E si sentì arrossire da una tempia all'altra, da bravo coglione. « Sicuro che fosse la tua prima volta con un uomo?»
___ « Beh, la seconda se consideriamo il Mercure …»
___ « E allora hai un fottuto talento naturale.»
Rise forte, in quel modo che gli solleticava il cuore e gli faceva rimbombare il petto, come era successo sin dal primo incontro con lui e gli venne dannatamente spontaneo stringerlo più forte e mordergli dolcemente quel punto di pelle resa più unica e preziosa dall'inchiostro nero.
___ « Sto avendo un ottimo maestro …» Sussurrò senza smettere di torturargli coi denti, le labbra e la lingua, la spalla. Robbie sospirò pesantemente, si abbandonò con la testa all'indietro, contro di lui e nel momento in cui aprì gli occhi per guardarlo, lo vide mordersi un labbro, il viso era il ritratto della goduria più pura. Lo voleva ancora e ancora. « … l'altra volta, quando hai totalmente violato la mia privacy studiandoti la mia agenda, hai detto che siamo contemporaneamente … dove?» New York e Hong Kong, se lo ricordava benissimo, ma non voleva apparire uno sfigato completo.
___ « Mhn … a New York. E da qualche altra parte, ma prima nella cara, vecchia, grande mela.» Robert ruotò appena il viso di modo da potersi guardare negli occhi: le loro bocche erano vicine, poteva sentire il suo respiro infrangerglisi addosso, ma non gli andava insieme la vista per gustarsi il suo viso. La distanza ideale, cazzo: era bravo anche in queste cose. « Io sono lì dal 10 al 18. Forse 19, dipende se mi va di fermarmi anche la domenica e rientrare a Berlino di lunedì.»
___ « Dovrebbe andarti dato che mi vedresti.» Gli venne così spontaneo, che poi spalancò gli occhi decisamente imbarazzato. Idiota. Ma Robert rise di gusto, divertito e poté giurare di percepirlo lusingato.
___ « Vero.»
___ « Io sono lì dal 13 al 18, per lavoro. In realtà pensavo di partire prima per godermi un week end da quelle parti, ma …»
___ « Ma?»
Ma non voglio che tu pensi che lo farei solo per te.
Che poi arrivati a quel punto era vero, ma tempo addietro, quando seppe di quel viaggio, il pensiero l'aveva avuto per altri motivi: Robert ancora non lo conosceva.
___ « Dove alloggi di solito a New York, Jeremy?» Lui cambiò magistralmente discorso, con quel sorriso da schiaffi che gli calzava così bene addosso.
E che glielo faceva tornare duro.
___ « La mia azienda ha qualche appartamento in giro per la city, a me piace particolarmente uno a Soho. E' un piano attico, open space, piccolino, ma davvero accogliente.»
___ « Soho è il top. Mi posso imbucare?»
Lui si faceva duecento seghe mentali per apparire il più disinteressato possibile e non soffocare Robert con la sua smania di avercelo intorno e invece quel dannato mancuniano si proponeva di passare una settimana insieme, sotto lo stesso tetto, così, come se nulla fosse.
Sospirò e annuì appena, andando a baciarlo a occhi chiusi. Leggero.
___ « Se vuoi sì, ma io di giorno lavorerò quasi sempre.»
___ « Non nel week end, giusto? Mi piacerebbe imbucarti a un concerto.»
___ « Se scendo il sabato, ovviamente lo farei per piacere.»
E gli occhi di Robert promettevano un piacere immenso.
Lo guardò sorridergli, enigmatico, si perse in quelle movenze quasi feline che lo portarono a voltarsi fra le sue braccia e a sdraiarsi sopra di lui, torace contro torace, bacino contro bacino, in un sadico gioco di carezze più o meno voluttuose.
___ « Se arrivassi venerdì, con l'ultimo volo da Londra, ti verrei a prendere personalmente al JFK e ti prometto qualcosa che andrà oltre il piacere, Jeremy.»
Schiuse le labbra, interdetto e voleva rispondergli in modo carismatico, sexy, in testa sua si vedeva uno scambio di sguardi e di parole da copione hollywoodiano, ma niente: quando le labbra di Robert si appoggiarono sulla sua mascella, percorrendola tutta, lentamente, esasperatamente, fino alla clavicola per poi risalire dal lato opposto, non poté far altro che sospirare pesantemente e andare ad afferrargli senza troppe cerimonie le natiche. Gli strizzò il culo, sì, ne aveva bisogno in quel momento: se lo spinse addosso, spalmato completamente contro di sé, per riprendere un pochino padronanza della situazione. Giusto un pizzico, cazzo, non era una ragazzina di quindici anni.
___ « Sarà dura senza scambiarci i numeri di cellulare, sai?»
___ « Lo so, ma chi la dura … » Ecco, quella dannata mano che scendeva. « … la vince. Ti fidi di me, Jeremy?»
Ansimò chiudendo gli occhi, abbandonando la testa all'indietro contro il bordo vasca e servendogli così su un piatto d'argento il proprio collo sul quale Robert si avventò come un condor sulla carcassa di una gazzella.
___ « Tragicamente, sì.»


Il venerdì era stato pesante.
Il volo, in compenso, assai rilassante.
New York era splendida, l'adorò dal momento in cui l'hostess lo svegliò per intimarlo a raddrizzare il sedile, annunciandogli l'imminente atterraggio e i suoi occhi scivolarono oltre il finestrino, illuminandosi delle milioni di luci coloratissime che addobbavano la grande mela nemmeno fosse un'immenso albero di natale.
E Robert era stato fantastico sin da subito. Frenetico, esattamente come la grande metropoli americana: non si era fermato un attimo dacché era venuto a prenderlo all'aeroporto, dove si era presentato in completo nero, camicia bianca, cravatta sottile di seta lucida color antracite e Ray-ban modello aviator, con lenti a specchio color acciaio, anche se era notte fonda, naturalmente tenendo in mano un cartello con sopra scritto “Jeremy”.
Si erano abbracciati frettolosamente prima di salire su una limousine nera, da veri vips, che Robert si era fatto prestare dalla sala discografica. Voleva chiedergli con quale scusa era riuscito ad aggiudicarsi quel gioiellino, ma lui non gli diede il tempo di far altro che non fosse gemere contro le sue labbra mentre l'altro lo baciava, schiacciandolo contro i sedili posteriori della limo. Spalancò la bocca in un urlo silenzioso mentre il godimento raggiungeva picchi altissimi, reso tale anche dallo spettacolo prodotto dalle frecce luminose che erano le luci dei grattacieli sfreccianti oltre il tettuccio panoramico.
___ « Dio …» Ansimò, completamente sconvolto.
___ « Puoi chiamarmi Robert.» La voce maliziosa del bastardo richiamò il suo sguardo e quando lo vide mordersi il labbro inferiore, mentre tratteneva una risata, scoppiò a ridere per primo, tremante di piacere.
___ « Testa di - …. cazzo! Mgh... s-santa pace …»
___ « Santa. Pace.» Lo guardò leccarsi il lato del labbro prima di sdraiarsi sopra di sé, languido, ferino, sembrava un enorme gatto. « Sei davvero pessimo, Jeremy. Ma sei così dannatamente sexy che non farei altro che succhiarti il cazzo. Come fai a essere così …» Robbie scosse il capo e sospirò, quasi infastidito. « Non lo so …»
___ « Sexy?» Suggerì, infilando le dita d'entrambe le mani fra i suoi capelli. Lo guardò ridacchiare e lo abbracciò quando lui gli si sdraiò addosso.
Il sesso con Robert era seducente, sapeva essere estremamente sensuale e con lui si sentiva a proprio agio, completamente. Riusciva a lasciarsi andare senza pensare a nulla, nessuna ansia da prestazione, dubbio, niente di niente: boom, erano complici, era tutto facile. Non gli pesava nemmeno la questione del non potersi sentire durante la giornata, quando non erano insieme, nel caso di New York, durante i giorni che separavano i loro appuntamenti nel resto del tempo: era eccitante, nuovo, non c'era alcun pericolo di incazzatura nel vederlo taggato nello status di Facebook di qualche donna super gnocca che gli si strusciava addosso o di chissà quale checca sfranta sbavante. Robert era suo quando erano insieme, non aveva mai mancato un loro incontro e non aveva mai tardato, nemmeno di un minuto, anzi: era sempre in anticipo. E anche lui lo era, così riuscivano a guadagnare del tempo insieme.
Loro esistevano l'uno nell'altro ed era bellissimo.
___ « Non per farmi gli affari tuoi, ma ce l'hai un cognome?»
Erano stati a un concerto, Robert glielo aveva fatto seguire da dietro le quinte e gli aveva anche presentato la band: si era sentito il cuore in gola per tutto il tempo. All'after party si erano divertiti, aveva conosciuto qualche collega di Robbie, altri musicisti, era stato strano perché aveva avuto la netta sensazione di essere insieme a un pezzo grosso: tutti lo conoscevano, quasi tutti lo salutavano e chi non aveva il coraggio per farlo, lo fissava da lontano.
Si sentiva fiero di essere lì con lui, soprattutto quando gli sfiorava distrattamente la schiena mentre chiacchierava animatamente con un gruppo di pseudo punk, abbastanza chic, del genere che sfoggiavano pezzi di Westwood come fossero stracci; si lusingava quando lo vedeva afferrare due bicchieri di champagne dai vassoi portati in giro dai camerieri in smoking e gliene porgeva uno, con un largo sorriso stampato in faccia. Si sentiva morire quando lo spogliava con gli occhi, quegli splendidi occhi azzurri che senza vergogna gli si posavano addosso carichi di lussuria e lo faceva così, all'improvviso, senza che facesse realmente nulla per meritarselo.
___ « … Che domanda scema, Jeremy.»
___ « Sì, lo so, ma mi fa veramente strano stare nudi nello stesso letto e non sapere nemmeno come fai di cognome!» Rise per smorzare un po' la serietà del discorso: gli suonava strano, vero, ma non gli dava fastidio e Robert sembrò capire il suo stato d'animo, difatti gli sorrise.
___ « Capisco.» Prese a disegnare dei circoli sul proprio petto, con la punta delle dita, leggero. « Ho paura di spezzare l'incantesimo, Jeremy.»
Spalancò appena le palpebre.
___ « … Cosa?» Lo guardò annuire, nascondersi dietro i suoi capelli neri, sconvolti, mostrandogli solo quella parte della nuca prima di sospirare pesantemente.
___ « Sto bene con te. Mi piaci, mi fai provare forti emozioni che mi … scuotono.» Alzò appena il viso, cercando quasi timidamente il suo sguardo: era la prima volta che lo vedeva così. « Se facessimo come gli altri, diventerebbe … quello che hanno tutti. A me, invece, piace vivere pensando al momento in cui ti vedrò, pianificare le mie giornate di modo da rispettare alla perfezione la scadenza del nostro appuntamento e provare quei brividi di eccitazione mista ad una leggera ansia prima di incontrarti. E poi mandare quell'ansia affanculo quando ti vedo lì, in aeroporto, a fissarmi con questi cazzo di occhi verdi che ti ritrovi. Cazzo Jeremy, hai degli occhi che sembrano fatti di muschio, te l'hanno mai detto?»
Scosse il capo, interdetto, letteralmente balbo.
___ « … Wow. Ma il muschio non è una muffa?»
___ « No!» Se lo guardò ridere e gli sorrise a sua volta. « Che coglione! La muffa è muffa, il muschio è muschio!»
___ « Vabbeh, comunque grazie.»
___ « No, grazie a te.» E lo baciò, scivolando sulla sua pelle e continuando a sorridere. « Domani lavori, quindi?»
___ « Sì. Anche tu, immagino.»
___ « Sì, ma ho orari più flessibili dei tuoi. Insomma: faccio quel cazzo che mi pare e piace. Riesco a rapirti per pranzo?»
___ « Se sei dalle parti di china-town, sì.»
___ « Ho una voglia matta di cinese. Alle … 13?»
___ « Al Kung Fao. Lo conosci?»
___ « Lo troverò. Sarò lì davanti all'una in punto!»
Ma sapeva che Robert sarebbe stato in anticipo di almeno cinque minuti.


Presero lo stesso volo per Berlino, la domenica: Robert rinunciò all'ultimo giorno a New York per poter passare altro tempo con lui. La cosa era lusinghiera, senza dubbio. Decisero di alloggiare a casa sua e gli piacque un sacco trovarsi in una specie di Hard Rock Café privato: aveva un'intera parete di chitarre, messe in orizzontale, a creare una specie di infinita scalinata. Alcune erano più infossate, altre più in fuori, così creavano un gioco di profondità spettacolare, a onda.
Aveva persino delle sacre reliquie autografate dai grandi della musica rock contemporanea, tutte rigorosamente protette dietro teche di vetro e l'appartamento era dotato di un sistema d'allarme coi contro coglioni.
E lui gli aveva dato la chiave e il codice per disattivarlo, così lunedì sera non avrebbe dovuto aspettarlo qualora avesse finito per primo al lavoro.
Separarsi per prendere il volo con destinazione Ginevra non fu così tragico come pensava inizialmente, forse perché avevano già appuntamento di lì a pochi giorni a Hong Kong. Robert sarebbe arrivato per secondo questa volta, quindi toccava a lui andarlo a prendere all'aeroporto.
Era lì che era iniziato tutto, quindi ci tenevano a quella specie di rito che li vedeva abbracciarsi fuori dall'area ritiro bagagli. Aveva un qualcosa di poetico perché tutti erano seriamente felici quando riabbracciavano qualcuno che usciva da lì. Lieti che l'attesa fosse finita, contenti di poter finalmente vedere il proprio amico, o la fidanzata, i figli, i genitori … tutto era annullato per quel magico istante in cui gli sguardi si incontravano. Non importavano più i piccoli litigi, che probabilmente sarebbero ricominciati di lì a pochi minuti nell'abitacolo di una macchina a noleggio, per quei magici istanti erano tutti contenti.
Ma naturalmente l'idillio doveva avere una fine.
___ « C'è stato qualche problema con i server, Mister Bennington.»
Non gli piaceva affatto quello che vedeva.
___ « Sì, lo vedo.» Tremò tutto e si sentì mancare il respiro. « Ci vorrà … qualche giorno per poterli sistemare.»
___ « Sì, non si preoccupi, abbiamo già predisposto tutto per un alloggio.»
___ « Grazie.»
Ma lui era preoccupato, preoccupato da morire perché sapeva già che cosa gli avrebbe detto il capo, al telefono.
___ « Devi rimanere lì. Manderò Johnson in Cina.»
___ « Capo, non credo che Johnson …»
___ « Oh, non c'è problema! Ha già accettato. E' andato oggi dai soliti clienti a fare il giro di routine così da potersi liberare. Stai in Svizzera e sistema il casino che hanno fatto quei montanari, Bennington e non preoccuparti di nulla.»
Sentì lo stomaco contorcersi e la pressione cadergli sotto i picchi storici all'improvviso. Dio, non poteva rimanere in quel posto, doveva trovare il modo di avvisare Robert, doveva riuscire a fargli dire da qualcuno che non sarebbe potuto essere in Cina, che dovevano rivedersi a Berlino, in un qualche albergo dell'aeroporto o a casa sua. A casa sua, sì: sapeva dove abitava Robert, non era più un problema, no?
Ma non si ricordava il nome della via, cazzo, lui non lo sapeva il tedesco e non conosceva nemmeno il suo fottuto cognome.
Ma quanto erano stati coglioni?
Gli imprevisti nella vita capitano e di solito proprio nei momenti in cui abbassi la guardia, in cui tutto ti sembra perfetto, in cui finalmente credi nella magia del caso, nel karma positivo, inizi persino ad immaginare che potrebbe essere bello … innamorarsi.
E ora era tutto finito. Cazzo.
Si sentiva uno zombie, stava male e i giorni passarono lenti, lentissimi, chiunque gli chiedeva cosa avesse, gli suggerivano intrugli alle erbe e vitamine per recuperare le energie, ma lui voleva solo Robert.
Doveva fare qualcosa: andare a Berlino e spenderci anche tutta la fottuta notte per cercare di trovare quel dannatissimo appartamento. Era questo il piano: atterrare a Berlino, incontrare i clienti e poi passare la notte a cercarlo. E se non l'avesse trovato, avrebbe piantonato tutte le case discografiche della città chiedendo di lui, facendogli l'identikit perché non sapeva nemmeno il suo fottuto cognome.
Vaffanculo. Vaffanculo alle paure, a quel gioco eccitante e perverso che si erano inventati per rendere il loro rapporto esclusivo e piccante. Robert era già unico e lui si sarebbe sforzato di essere un fottuto jalapeno anche se si fossero scambiati il numero. Non gli avrebbe scritto per le stronzate, non lo avrebbe soffocato, non era il tipo, ma voleva un contatto diretto con cui potergli dire che no, non poteva andare a Hong Kong.
Immaginarsi l'espressione di Robert nel non vederlo fuori dall'area ritiro bagagli gli dava la nausea. Non avere il suo corpo caldo stretto a sé, lo faceva tremare di rabbia, gli spasmi gli impedivano di dormire e forse per questo motivo non riuscì nemmeno ad appoggiare le chiappe sul sedile dell'aereo della British Air Lines che si addormentò di colpo, stremato, vinto dalla stanchezza.
Ebbe un sonno senza sogni e quando si svegliò era più stanco di prima: sentiva distintamente i solchi sotto gli occhi e la testa gli faceva così male che il semplice rumore della spia delle cinture di sicurezza gliela fece esplodere.
Era così stremato che si accorse in ritardo che le sue mani erano occupate da qualcosa. Strizzò le palpebre e mise a fuoco la mano sinistra: le dita stringevano un cartoncino a forma di chitarra, nero. Aggrottò la fronte, confuso e lo girò per leggere un numero di telefono scritto in argento.
___ « … Ma che …» Velocemente lo ruotò e quello che lesse gli mandò il cuore in subbuglio. « Robert Kinney.»
Sorrise e appoggiò pesantemente il capo contro lo schienale di pelle e strinse maggiormente il biglietto da visita e le dita che gli stringevano la mano destra.
Non aveva bisogno di aprire gli occhi per sapere a chi appartenesse.
___ « E' un piacere conoscerti …»
___ « Jeremy Bennington. Jeremy James Bennington.»
___ « Robert Kinney.»
Scivolò verso di lui, sempre tenendo le palpebre abbassate e si accoccolò contro la sua spalla. Sorride quando gli si appoggiò sulla testa, fra i ricci biondi.
___ « Stavo venendo a cercarti.»
___ « Lo so. Ma ti ho trovato prima io.»
___ « Sei stato bravo.»
___ « Jeremy James Bennington. Ma lo sai che hai lo stesso cognome del cantante dei Linkin Park?»
___ « Certo che lo so.»
___ « Ho una chitarra autografata da lui.»
___ « So anche questo.»
___ « Mi dai il tuo numero, Jeremy?»
Sorrise, sereno.
___ « Se farai il bravo, sì.»
Lo sentì sbuffare, divertito e la presa delle loro dita divenne più salda.
___ « Robert?»
___ « Mhn?»
___ « Grazie di avermi trovato.»
___ « E' stato un piacere, Jeremy.»










Okey, è stato un piccolo parto, ma ce l'ho fatta. E' una one shot senza pretese, che mi è venuta così. L'ho iniziata prima di partire per una splendida vacanza e l'ho finita dopo questi dieci giorni in giro per l'Europa ... insomma, spero che il lasso temporale di stesura non si faccia sentire. Detto ciò: enjoy!



  
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