Capitolo
2°
Sei
anni.
Aveva dovuto far passare sei lunghi anni per trovare il coraggio di
ritornare
nel suo paese.
Sei anni per dare una svolta alla sua vita.
Per costruirsi un futuro e una personalità forti.
Per diventare uno dei migliori giocatori di basket dell’NBA.
Per chiudere il suo cuore in una scatola a tenuta stagno e gettarla
insieme
alla chiave nelle profondità di se stesso, perché tanto non gli sarebbe
servito
mai più.
Sei lunghi anni trascorsi a studiare in un’università
straniera.
Ad allenarsi.
A giocare e vincere.
Per cosa?
Per tornare a casa, ritrovare gli amici del liceo, e farsi sbattere in
faccia
che ogni suo più piccolo sforzo di cominciare daccapo senza crepe o
ferite
nell’anima era stato uno spreco di tempo e di energie?
- Non ho capito!- Ammise Akira, allontanando dalle labbra il brik del
latte che
aveva appena prelevato dal frigo.
Tre paia d’occhi fissarono Hisashi e il suo compagno, seduti sul divano
del
salone.
Akira avanzò, varcando la porta della cucina e fermandosi accanto alla
poltrona
su cui Hisa era seduto a bere la sua tazza di tè.
Nella stanza calò un silenzio colmo di disagio.
Il giovane alzò lo sguardo e l’espressione sul suo volto non sembrò
delle più
felici.
- Scusa Akira…- Provò a dire, maledicendosi per non essersi assicurato
che
l’amico non fosse nei paraggi.
Non si era accorto che era sceso e si fosse diretto in cucina.
Nessuno
se ne era
accorto.
Doveva
essere passato
per la scala di servizio.
Non
c’era altra
spiegazione.
- Puoi ripetere, per favore?- Gli chiese quelli senza tradire la minima
emozione.
Hisashi sulle prime non seppe cosa dire.
Avrebbe tanto voluto tornare indietro nel tempo e la consapevolezza che
il suo
sarebbe rimasto un pio desiderio non lo fece sentire affatto bene.
E Kimi, seduto sul bracciolo della poltrona, dovette sentirsi nel
medesimo modo
dal momento che chinò il capo e spostò una mano timidamente sul braccio
del
compagno come a cercarvi rifugio.
Privo di parole adeguate.
Di una frase qualsiasi che in altre occasioni il suo carattere sempre
così
conciliante avrebbe certamente trovato.
Anche Hana e Kaede, seduti sul divano, erano ammutoliti, l’abbraccio
del primo
che si serrava intorno al corpo del secondo in un gesto
disorientato.
Lo sguardo blu cupo di Akira si spostò su ognuno di loro,
interrogativo e
vagamente irritato da quella inspiegabile reticenza.
Che avevano tutti e quattro?
Ci voleva tanto a rispondere a una domanda tanto semplice come quella
di
ripetere quello che stavano dicendo prima che lui arrivasse?
- Insomma, vi siete ingoiati la lingua tutti nello stesso momento?-
Sbottò.-
Non posso sapere anch’io che ne è stato dei nostri compagni ai tempi
del
liceo?... Stavate parlando di Koshino, no?-
Aveva sperato che pronunciare quel nome non sarebbe stato così
devastante.
Se lo era ripetuto per tutto il viaggio da Los Angeles a
Kanagawa.
Ma si era mentito.
Per sei lunghi, dannati, anni non aveva fatto altro che mentirsi.
Adesso lo sapeva con certezza e non poté che disprezzarsi per la
propria
inutile debolezza.
Il coltello che era rimasto fermo all’interno di una ferita mai
risanata adesso
stava dando uno scatto e si rigirava, come animato di vita propria.
Dolore.
Un dolore sordo!
Che
gli stracciava la
pelle.
- Si.- Ammise Hana, appena udibile, sfiorando i capelli scuri di Kaede
con un
bacio.
- Aki, non…-
- Che c’è, Kaede?- Lo interruppe lui di colpo, stufo.
Non era riuscito ad afferrare tutte le loro parole mentre era ancora in
cucina,
ma aveva sentito qualcosa a proposito del lavoro del suo compagno
d’infanzia e
poi avevano smesso accorgendosi di lui.
- Niente!- Fece l’amico, scuotendo la testa dispiaciuto.
- Tanto lo verresti a sapere lo stesso.- Completò Hana rassegnato.
Akira non seppe spiegarselo, ma all’improvviso gli venne su l’impulso
di
ridere.
E lo fece.
Ma fu una risata nervosa, inquieta, quella che gli uscì dalla bocca.
- Andiamo, è diventato forse un criminale?- Buttò là per gioco.
Eppure le facce che si contrirono gli fecero tremare il cuore tanto da
farlo
pentire di aver pronunciato quelle parole.
Tornò a fissare Hisashi quasi incredulo di aver detto qualcosa di anche
solo
vagamente sensato.
- No!- Rispose infine Kimi, al posto del compagno.
Trovò il coraggio di alzare la testa e di guardarlo, mentre
aggiungeva:-
… E’ all’università di S. Si è iscritto a scienze della comunicazione e
gioca
nella squadra di basket.-
Per un momento rincuorato, Akira annuì affatto sorpreso.
- E’ sempre stato il suo progetto quello di iscriversi a quella
facoltà.-
Confermò, ricordando tutte le volte che, negli anni passati, si erano
ritrovati
a parlare di quello che avrebbero voluto fare dopo il liceo.
- E’ andato via di casa circa sei anni fa.- Proseguì Hisashi, dimentico
della
tazza di tè che aveva ancora nelle mani, ormai freddo.
- Ah, che strano, alla fine i suoi lo hanno accontentato mantenendolo
fuori
casa!-
- No… Si mantiene da solo. Ha trovato un lavoro e si paga gli studi.-
Una sensazione di leggero orgoglio si impadronì di Akira.
Era contento malgrado tutto.
Ma perché quell’aria da funerale persisteva nella stanza e sulle facce
di quei
quattro allora?
C’era qualcosa che non andava?
Sembravano così strani!
All’inizio aveva pensato che si fossero dispiaciuti per lui che li
aveva
sentiti parlare di Hiroaki.
Sapevano
come era
finita tra loro sei anni prima.
E sapevano che non si erano più né visti né sentiti in tutto quel tempo.
Allora lui aveva avvertito la necessità di confidarsi e loro erano
stati gli
amici solleciti ad ascoltarlo e a offrirgli delle spalle su cui
piangere quando
aveva rischiato di perdersi.
Cosa c’era dunque?
- Beh?- Esordì impaziente.
Parlare di Hiro gli faceva male anche a distanza di tanti
anni.
E probabilmente si vedeva benissimo anche se stava cercando in ogni
modo di
apparire il più distaccato possibile.
Ma non gliene importava niente.
Di solito era un muro invalicabile con tutti.
Sorridente e gentile come lo era sempre stato, ma era solo la maschera
che
ormai aveva imparato a sfoggiare davanti a chiunque per tener lontani i
curiosi.
Ma con loro non doveva preoccuparsi di indossare alcuno schermo.
Certo, non avevano più parlato di quella storia morta e sepolta dopo i
primi
tempi.
Né
con Kaede e Hana,
che vivevano con lui a LA.
Né
con Kimi e Hisashi
che, si erano stabiliti invece a San Francisco.
Ma
probabilmente lo
conoscevano abbastanza bene per capire quel che ne era stato di quel
brutto
periodo.
Hisashi raccolse un profondo sospiro, si sarebbe detto sofferto, e
infine si
decise.
- Lavora in un locale da quando vive da solo…- Dannazione perché era
così
complicato dirlo? Imprecò Hisa contro se stesso, sentendosi soffocare.
Ma perché diavolo era toccato a lui trovarsi a dire quelle cose a uno
dei suoi
più cari amici.
Perché lui e non un estraneo?
- Che locale?-
- Un locale per… accompagnatori per soli uomini.- Disse Kimi
cautamente.
A
voce bassa.
- Fa la puttana, dannazione!!- Imprecò Hisashi al limite, scattando in
piedi e
facendo sussultare tutti per la sorpresa. – E’ inutile girarci
intorno!!-
A che serviva darsi la pena di trovare termini ricercati se il
significato
finale non cambiava?
Che senso aveva indorare la pillola se poi si sarebbe rivelata
ugualmente
amara?
E dopo tutto se non glielo avessero detto loro, sarebbe comunque venuto
a
saperlo da qualcun altro al ricevimento che Hana e Kaede avrebbero dato
da lì a
qualche settimana.
E forse era meglio così: venirlo a sapere da estranei avrebbe potuto
essere
molto più duro che detto da lui.
Trascorse qualche momento in cui Akira credette davvero di non aver
capito né
l’espressione, né la reazione di Hisashi.
Lo seguì mentre cominciava a camminare per la stanza avanti e indietro
come se
improvvisamente dentro di lui fosse scoppiata una tempesta.
Vide Kiminobu andargli vicino e tentare di calmarlo con una carezza, e
quelli
reagire con stizza, come infastidito.
In
verità soltanto
addolorato.
Registrò appena Kaede che si scioglieva dall’abbraccio del marito per
alzarsi e
raggiungerlo, togliergli con un gesto gentile il brik del latte dalle
mani, che
stavano perdendo la presa man mano che il senso di quel che la mente
aveva
ascoltato, andava facendosi strada in quella parte di sé che provava a
tradurne
il significato.
D’un tratto una fragorosa risata proruppe dalla sua gola, squarciando
il
silenzio come un tuono in pieno cielo estivo.
Quattro paia d’occhi gli si appuntarono addosso esterrefatti.
Hana scattò dal divano con il cuore in gola, artigliando la mano di
Kaede,
spaventato: perché Akira si era messo a ridere?
Inspiegabile.
Cosa c’era da ridere in una notizia del genere?
Ma non trovò alcuna risposta né nello sguardo del proprio compagno, né
in
quelli degli amici, rimasti inchiodati a pochi metri da loro,
altrettanto
inebetiti.
- Akira?- Kaede si riprese per primo.
- Questa è bella, non trovi?- Esordì di colpo il giovane, guardandolo
dritto in
faccia.
Non c’era ilarità nei suoi occhi, anche se il riso ancora gli incurvava
in viso
e gli incrinava la voce.
Una voce quasi non sua.
- Akira, senti…-
Nel sentirsi chiamare di nuovo, così com’era apparsa, la voglia di
ridere sparì
e Akira sentì una curiosa, fastidiosa, agitazione pizzicargli la
pelle.:
l’adrenalina, simile a quella che gli mandava il sangue a mille quando
era in
partita, adesso gli si propagava nel corpo e gli stava avvelenando ogni
fibra.
Ecco cos’era quella sensazione di orticaria.
- Perché?- Chiese senza fissare nessuno in particolare.
Hisashi scrollò le spalle.
- Non lo so! Non lo sa nessuno, anche perché lo vedono abbastanza di
rado da
quando il liceo è finito.-
- Hiroaki studia e lavora a Tokyo.- S’intromise Kimi.- Quasi nessuno sa
del
suo… lavoro. Secondo noi nemmeno i suoi genitori. Abbiamo pensato che
sia per
questo che si è spostato nella capitale.-
- Io sono venuto a saperlo non perché lo abbia detto lui, ma perché un
mio
amico frequenta quel locale e un giorno che ci siamo incontrati, me ne
ha
parlato. Mi ha detto che è un club privé molto esclusivo e che… Hiro è
uno dei
ragazzi più ricercati là dentro! Che per farsi fissare un appuntamento
con lui
è necessario mettersi in lista d’attesa.-
- Allora deve guadagnare parecchio!- Osservò Akira quasi casuale. In
realtà
piuttosto disorientato.-… E bravo il ragazzo!-
- Mi spiace che tu sia venuto a saperlo!-
- E perché, Hisa? E’ padronissimo di fare quel che gli pare della sua
vita. Non
sono affari miei.-
- E’ stata una… sorpresa anche per noi!- Ammise Kimi sempre più a
disagio.
- Sorpresa?!- Gli fece eco lui, e di nuovo gli venne da ridere.- Mi
sembra un
eufemismo. Mah… fatti suoi!... Io vado di sopra, scusate!-
E così dicendo si riprese il brik dalle mani di Kaede con un gesto
neanche
troppo gentile, e se ne andò senza degnarlo di uno sguardo.
-
Mi dispiace!- Disse
Hisashi dopo diversi minuti di silenzio, la voce soltanto un sussurro.
- Non te la prendere, amore, tanto glielo avrebbe detto sicuramente
qualcun
altro. Non c’era modo di tenerglielo nascosto una volta tornato a
Kanagawa.-
- Kimi ha ragione!- Replicò Hanamichi scorato, e si gettò di peso sul
divano,
portandosi le mani nei capelli ramati.- Oddio che situazione
incredibile, mi
sembra impossibile!!-
- A chi lo dici! Quando quest’amico di Hisa ce lo ha detto,
siamo rimasti
senza parole per almeno mezz’ora. Hiro è stato sempre un ragazzo di
buona
famiglia. Una persona schiva, con un caratteraccio scorbutico e un po’
chiuso,
ma questo di certo non ce lo aspettavamo.-
- E lui non ve ne ha mai parlato personalmente?- Chiese Kaede.
- No. Te l’ho detto, quando torniamo qui, lo vediamo poco e quasi
sempre per
caso. Ci si scambia qualche parola, niente di più. Noi non gli abbiamo
chiesto
niente. Non vogliamo creargli imbarazzi o fastidi. Credo… che sia una
situazione delicata!-
- Ahhh!!- Hana gettò fuori in un urlo di rabbia la propria
frustrazione.-
Questo è un casino, non c’è proprio niente di delicato, maledizione!...
Perché
non ce lo avete detto, avremmo provato a impedire ad Akira di tornare
in
Giappone almeno!-
- Non dire stupidaggini, Hana, come credi che avremmo potuto
impedirglielo
senza una ragione?-
- Kitsune, tu appoggio zero, eh?-
- Hn!-
- Ecco, appunto! Cheppalleee!!!!-