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Autore: voiangel    23/08/2014    2 recensioni
"E Jace non poté far a meno di pensare che avrebbe dimenticato la bambina dai capelli rossi, che lei non l'avrebbe più visto, non lo avrebbe più guardato.
Ma ce ne saranno altre come lei, pensò, quando sarò grande avrò tante donne più belle di lei.
E sebbene quell'idea non gli sembrasse tanto inverosimile, seguì Maryse a malincuore."
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Clarissa, Jace Lightwood, Magnus Bane
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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—Simon! Simon fermati. Dai, per favore...—
Simon continuava a camminare a passo spedito, tenendo Clary per un braccio mentre spingeva le persone, sgomitando e annaspando per raggiungere la prima postazione di fronte al negozio di video games più all'avanguardia di New York. 
— Clary, lo sai che se non arriviamo primi gli altri lo prendono e noi no— disse lui, aveva il fiato corto per la corsa — e io lo voglio. Ho risparmiato un sacco di soldi per prenderlo—. 
Clary lo guardò di traverso anche se Simon, davanti a lei, non poteva vederla e approfittandone gli fece una linguaccia. Mentre lui la trascinava, Clary vide con la coda dell'occhio un grosso edificio che non aveva mai visto prima benché avesse percorso quella strada migliaia di volte per andare a scuola, all'All Games o semplicemente a fare una passeggiata. Era grande e bellissimo e le ricordava una chiesa, di quelle che aveva appena studiato a scuola, del genere gotico. Più alto della maggior parte degli edifici, con alte volute che finivano con un arco appuntito. Un cancello grandissimo sopra al quale c'era scritto "Istituto" e un simbolo strano. Linee che formavano una specie di rombo e continuavano con altre linee, come le antenne di una coccinella. Simon si girò frustrato mentre la sua amica continuava a guardare quella grossa struttura. 
—Clary, ti prego, manca poco! Stanno per aprire!— il suo tono era agitato. 
Clary ignorò quello che aveva appena detto l'amico —tu hai mai visto questo... coso?—. 
Simon si abbassò gli occhialoni grandi sul naso e la guardò esasperato. 
—Smettila di prendermi in giro, Clary Fray!— disse, e prendendola per un braccio iniziò a tirarla nuovamente. Mentre Clary lo stava per seguire, una luce azzurra iniziò a brillare sulla fiancata dell'edificio, facendosi sempre più larga, fino a formare un grande cerchio azzurro con piccole scintille bianche. Lei fissò ancora i piedi in terra e strattonò Simon indicando quello che i suoi occhi stavano vedendo —Guarda Simon!— sussurrò. Sentiva il cuore in gola e una strana sensazione di familiarità le pervase il corpo insieme a pura adrenalina. Lo stupore era evidente sul suo viso, tanto che Simon per un attimo credette che potesse esserci qualcosa oltre ad una topaia grigia e in rovina che una volta, pensò lui, sarebbe stato un ospedale disorganizzato risalente all'epoca del Nazismo. Lui le lasciò il polso e disse: —Okay, ho capito, non ci vuoi venire. Allora ci vado io e se vuoi tengo il posto per entrambi—. 
Clary annuì facendo svolazzare la sua chioma rossa davanti al viso e Simon, rivolgendole un sorriso spazientito, scomparve tra la calca newyorchese. Era incredibilmente minuto, pensò Clary, per avere nove anni, eppure era anche velocissimo. 
Appena si rigirò verso l'Istituto il cerchio azzurro era scomparso e la fiancata era tornata normale. Ora c'erano due persone sull'erba di fronte all'edificio: una donna vestita di nero, pantaloni, maglia e stivali dello stesso colore. E, di fianco a lei, un bambino vestito allo stesso modo. I capelli erano di un biondo che rasentava l'oro e gli occhi di una tonalità più scura, così risoluti e seri che sembravano gli occhi di un adulto e allo stesso tempo erano bellissimi. 
Sembrava così sicuro di sé, col suo portamento elegante, le spalle dritte e le movenze di un felino. Aveva un fisico snello, alto, anche se dal viso dimostrava dieci, undici anni massimo. 
Clary rimase in piedi a guardarlo mentre procedeva di fianco alla donna. Dal grosso portone uscirono due bambini. Entrambi mori e molto simili, probabilmente fratelli. Lui con gli occhi azzurri e lei con occhi neri, entrambi eleganti e aggraziati come il bambino biondo, ma più... bambini. Il bambino più grande, quello dagli occhi azzurri, sorrise gioioso e allungò la mano verso l'altro che, senza la minima ombra di un'emozione, la strinse. Poi fece lo stesso con la bambina. Probabilmente si presentarono, ma Clary non riuscì a sentire i loro nomi a causa della distanza. Ora il bambino biondo le dava le spalle. La donna con la quale era arrivata gli mise una mano sulla schiena. Lui si girò e Clary lo ebbe di fronte. La stava guardando e per la prima volta vide il suo viso assumere un'espressione, abbandonando la totale indifferenza. Sembrava stupito e divertito al tempo stesso e lei sentì le guance andarle a fuoco tanto era arrossita, ma non distaccò lo sguardo. Il bambino sorrise e affondò il viso nei capelli neri della donna. Per un momento Clary credette che la stesse abbracciando, poi notò che invece le stava sussurrando qualcosa. Appena lui si staccò dal suo orecchio, la donna balzò in piedi e si girò verso di lei, con fare esterrefatto. Clary, ora che l'aveva di fronte, poteva vederla bene. Gli occhi azzurri come quelli del bambino sul portone del grande edificio e i lineamenti della bambina di fronte a lui. Probabilmente dovevano essere i suoi figli, pensò Clary. I due fratelli guardarono verso la bambina e la femmina alzò un dito, sbigottita, verso la rossa e gridò —Una mondana! Una mondana ci sta fissando!— e Clary, paralizzata per la paura, fissò gli occhi sul biondo che a sua volta guardò la bambina che aveva appena gridato ed esclamò —Isabelle, per l'Angelo sta' zitta!—. Ora parlavano a voce talmente alta che Clary li sentiva perfettamente. —Alec! Alec la vedi anche tu?— il bambino di fianco a lei annuì con fare assente. Gli occhi spalancati e la mascella serrata. —Alexander falla stare zitta!— disse ancora il biondo con fare brusco. Alexander puntò i suoi occhi azzurri sull'altro bambino, guardandolo severo. Dovevano avere entrambi più o meno dieci o undici anni. 
—Jonathan, se parli ancora così a mia sorella giuro che...— fece per dire, ma la voce squillante della donna sovrastò le voci dei tre bambini —Basta! Tutti e tre, smettetela. Di certo sta osservando qualcos'altro!—. 
Jonathan continuava a guardare Clary con fare assente, come se non ci fosse, come se stesse osservando un punto nel vuoto, poi alzò la mano e, scuotendola da destra a sinistra, la salutò. 
Clary si sentì come in una di quelle scene nei film, quando il personaggio è sulla porta, di fronte ad un corridoio, e lo spazio tra lui e qualcosa si restringe anche se niente e nessuno si muove. 
All'improvviso le sembrò di essere di fronte a quel bambino con gli occhi del colore dell'oro, dalle movenze troppo eleganti per appartenergli, dal fare troppo serio per non essere un adulto. Mentre sentiva il cuore batterle forte, la sua mano si alzò quasi come se avesse vita propria e lo salutò. Jonathan sorrise appena, poi scosse la testa guardando la donna dai capelli neri. Velocemente lo sguardo di lei si spostò da Clary per andare a vagare tra i passanti sul marciapiede. Clary seguì il suo sguardo, curiosa, e vide sua madre correrle affianco. 
Jocelyn si fermò a qualche passo da lei, rallentando la sua folle corsa e poi bloccandosi come se qualcuno l'avesse spinta, tanto violentemente che i boccoli rossi le ricaddero sul volto. Gli occhi talmente spalancati da sembrare palle da baseball. Clary notò che sua madre aveva due segni neri, uno sulla mano destra e uno sul braccio. Le sembravano simili a quelli che ricoprivano l'intero corpo della donna vestita di nero dall'altra parte della strada. Poco a poco l'espressione di Jocelyn si rilassò e alzò una mano in segno di saluto. 
—Ciao Maryse— disse e l'altra annuì, formando il suo nome con le labbra. Clary non seppe dire se lo avesse detto o semplicemente mimato, ma di certo diceva Jocelyn. Le due donne si guardarono per qualche istante, poi Jocelyn le mise una mano sulla schiena e la spinse via. Clary la seguì solo dopo aver lanciato un'ultima occhiata a Jonathan, che ricambiava lo sguardo con sincera curiosità, poi, dopo aver rischiato di inciampare più volte, si voltò. 
—Mamma, chi erano? E quello là... Istituto c'era scritto. Cos'è?— chiese la bambina non appena furono a distanza. Sua madre non le rispose ma iniziò a camminare più velocemente tra la calca. 
—Mamma, ho lasciato Simon a fare la fila!— provò ancora Clary. Sua madre la guardò di sottecchi. 
—Lo so, ho chiamato la sua mamma— disse col suo solito tono autoritario e dopo aver squadrato meglio sua figlia aggiunse —Quella era una mia vecchia amica e i due bambini coi capelli neri sono i suoi figli— disse —si chiamano...—
—Alexander e Isabelle, lo so, li ho sentiti— la precedette Clary —e il bambino biondo, quello che si chiama Jonathan, lui chi è?— Jocelyn non appena sentì il suo nome s'irrigidì, poi, dopo aver esitato un po', rispose —Non lo so, credo sia un amico di Isabelle e Alexander— 
—E l'Istituto? E come mai credevano che non potessi vederli? E poi cosa sono quei segni, mamma? Cos'è un mondano?— Jocelyn sbuffò esasperata mentre, trascinando Clary per la mano, giravano in un vicolo buio. Aveva percorso quella strada tante di quelle volte che l'avrebbe potuta percorrere ad occhi chiusi senza inciampare in nessun ostacolo, nemmeno nei gradini dei marciapiedi o nell'immondizia fuori dai cassonetti, eppure alla sensazione di disagio che la pervadeva quando portava Clary da Magnus non si era mai abituata. Era come privarla della propria identità, della propria storia, del proprio essere e del proprio destino, ma non voleva che le succedesse niente di male, e Jocelyn aveva vissuto con i Nephilim abbastanza da saper quanto pericolosi fossero. —L'Istituto è la loro casa, un po' come un collegio dove vanno dei bambini speciali per imparare a fare cose speciali. I bambini speciali, quando crescono devono farsi dei segni per essere più... bravi. Un po' come un porta fortuna. Io me lo sono disegnato così sono più brava a dipingere. Un mondano è un bambino normale, come Simon per esempio, e Simon è tuo amico, non i bambini speciali. Non so perché erano convinti che tu non li potessi vedere, probabilmente era un gioco, come quando tu e Simon giocate ad essere dei fantasmi... Eccoci, siamo arrivate.— disse Jocelyn. 
Lei e Clary si erano fermate davanti ad un grande portone marrone intarsiato con foglie d'oro, mezze lune e stelle, sulla targhetta del citofono c'era scritto "Magnus Bane: Sommo Stregone di Brooklyn". Clary guardò confusa il grande edificio mentre l'ennesima sensazione di familiarità le riscaldava il petto e le faceva girare la testa. 
—Chi è Magnus Bane?— 
—È un mio carissimo amico, volevo fartelo conoscere— disse Jocelyn bussando. 
Le due aspettarono pochi secondi sui gradini fuori dall'appartamento prima che una voce gutturale gridasse dall'altra parte —Chi è?— 
—Sono Jocelyn Fairchild— disse Jocelyn, e Clary la guardò stranita. Lei si chiamava Fray, non Fairchild. —E con me c'è Clarissa Morgenstern—. La porta si aprì e un uomo sui vent'anni apparì davanti a loro. Clary dimenticò come sua madre l'aveva chiamata e sbiancò quando lo vide. Un ragazzo dalla pelle scura, gli occhi a mandorla e i capelli neri cosparsi di gel la stava guardando da dentro il suo appartamento. Aveva gli occhi gialli come quelli di un gatto e un ombretto viola scintillante li faceva risaltare da sotto le lunghe ciglia. Indossava dei pantaloni argento glitterati e sopra, più sobria, una maglietta grigia con un disegno di stelle oro, piccole, sulla spalla. Le braccia nude presentavano dei tatuaggi che non avevano niente a che vedere coi segni di Jocelyn e Maryse, ma le erano comunque sconosciuti. 
—Jocelyn, Clary, entrate— disse quello che doveva essere Magnus, sorridendo. 
Appena entrata nell'abitazione di Magnus, Clary quasi si dimenticò che fuori il sole splendeva alto nel cielo e che una calda giornata di luglio era pronta ad essere vissuta. Le pareti del locale erano dipinte di rosso e il parquet era lustro e immacolato. C'era un divano in pelle marrone attaccato alla parete di fronte la porta, e di fianco ad essa c'era un camino acceso, le fiamme blu, arancio e rosse danzavano vivaci sulla legna. Clary pensò che dovesse far caldo a luglio col camino acceso, invece la temperatura era mite e le fiamme conferivano al tutto un qualcosa di confortevole. Verso destra c'era una piccola tavola marrone scura rotonda e due sedie poste una di fronte all'altra, dietro uno stretto corridoio portava ad altre stanze. 
—Beh, molto diverso dall'ultima volta ma sempre... originale— disse Jocelyn e Magnus le sorrise orgoglioso —Avevo un po' nostalgia del Natale— si giustificò, indicando una collana di foglie di pino attaccata alla parete dietro la porta. Jocelyn rise, poi si accomodò su una delle due sedie al tavolo. Magnus la imitò e Clary rimase a guardarli, chiedendosi se non fosse il caso di chiudere la porta e avvicinarsi alla madre. Alla fine lo fece. 
Si mise dietro Jocelyn, tenendole le mani sulle spalle mentre Magnus la guardava. 
—Ti vuoi sedere anche tu?— chiese lui. Clary scosse la testa e disse —no, grazie, sto bene così— 
Magnus rise —Ma non dire sciocchezze. E comunque anche se lo volessi davvero io tratto gli ospiti con classe...— così dicendo schioccò le dita, producendo una fiammella blu. Clary trattene il fiato. Ad un tratto dal nulla comparve una sedia, diversa dalle altre due. Si posizionò proprio tra Magnus e sua madre. Clary trattenne un risolino nervoso mentre sentiva un sorriso allargarsi sul suo viso. Sentiva come tante piccolissime scosse in tutto il corpo. Magnus rise in modo triste —Ti fa sempre quest'effetto vedermi all'opera—. 
Clary si sedette sulla sedia appena comparsa e prima che potesse fare qualcosa, Magnus l'anticipò —Scusa, non sono abbinate ma le avevano finite— lanciò un'occhiata a Jocelyn —ora puoi chiedermi tutto quello che vuoi, Clary— 
Clary, senza nemmeno pensarci, iniziò a parlare come se le parole uscissero da sole dalla propria bocca, una dopo l'altra, disordinate, strascicate e veloci. Domande non terminate, conclusioni affrettate, deduzioni errate le navigarono nella testa nello stesso istante in cui apriva bocca. Magnus stava zitto e sembrava amareggiato, quasi triste, mentre sua madre non la guardava e si fissava le mani come fossero quelle di una sconosciuta. Clary cominciò a parlare e gli sembrò una scena di un film visto e rivisto più volte ma del quale non riusciva mai a ricordarsi il titolo. Era tutto un lunghissimo déjà vu, tutto così familiare, come se si fosse trovata in quella situazione migliaia di volte. Magnus seduto alla sua destra e sua madre alla sua sinistra, lei che gli parlava di cose che non avevano senso per se stessa ma sembravano averne per gli altri due. Le sembrava familiare persino il gatto acciambellato sul divano nero. Sapeva che di Magnus poteva fidarsi benché non lo conoscesse affatto, ma lo sentiva, sentiva che qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe stata per lei o sua madre, che non avrebbe mai voluto farle del male e che a loro ci teneva più di quanto non volesse darlo a vedere. Le sembrava di conoscere sua madre e quell'estraneo meglio di chiunque altro, le sembrava che lei li conoscesse meglio di quanto un'altra persona avesse mai potuto conoscerli anche se sapeva quanto la cosa fosse impossibile e improbabile. E non si stupì di come Magnus fosse sincero con lei, raccontandole di cose che non aveva mai sentito prima eppure era come se gliele avesse ripetute più e più volte. E nonostante Jocelyn continuava a dirgli che andava bene, che era troppo, Magnus continuava a raccontarle di un tale di nome Valentine, di suo fratello morto in una guerra. Le raccontava di demoni, di simboli chiamati rune, di Istituti e Clary cominciava a familiarizzare con tutto questo anche se le sembrava tutto così orribile e magnifico allo stesso tempo. Lui le raccontava di essere uno stregone, un Nascosto. Molto potente. E più lo stregone parlava di quella che sarebbe stata la sua vita, più Clary sentiva ribollire un senso di disgusto nei confronti di Jocelyn, misto a rabbia e risentimento e gli occhi della madre erano pieni di apprensione mentre si ispezionava i palmi delle mani. A Clary ricordò quelle scene quando un killer uccide qualcuno, cade in ginocchio guardandosi i palmi aperti, inizia a piangere e a chiedersi che cos'ha fatto, che persona orribile può essere. E Jocelyn pareva avere lo stesso aspetto: l'aspetto di una persona che si disgusta, che non si capacita di quello che ha fatto e che non può più fermare. 
E poi Magnus che ogni tanto inteneriva la sua espressione sussurrando un "hai sempre questa reazione" ogni qualvolta Clary sobbalzava o rideva o arrossiva per la rabbia. Le spiegò dell'incantesimo che le aveva fatto appena nata per bloccare i suoi poteri, per farle dimenticare il mondo invisibile e le disse come mai era riuscita a vedere i bambini di fronte all'Istituto. E Clary si sentì grande come probabilmente, pensò, si dovevano sentire i bambini Nephilim alla sua età. Pensò anche che per aver solo nove anni avesse molte cose da sapere su di lei, sulla sua famiglia. Pensò che Magnus non aveva mai accennato a Simon parlando di un'eventuale vita vissuta da Shadowhunters e questo a Clary non andò bene per niente e all'improvviso si sentì grata a sua madre per averle fatto vivere una vita normale, per averle dato la possibilità di avere Luke che in realtà era un lupo mannaro, di avere sua madre, fuggiasca ma sempre forte, al suo fianco. E di avere Simon con sé. Era un pensiero così maturo che non poté che sentirsi orgogliosa di se stessa e quando Magnus le chiese se fosse pronta per l'incantesimo, se fosse pronta a dimenticare tutto per l'ennesima volta, Clary annuì senza pensarci due volte e Magnus sussurrò —Hai questa reazione tutte le volte...—. Alla bambina parve di vedere un luccichio negli occhi dello stregone, ma forse doveva essere solo un'illusione data dai suoi occhi da gatto. 
Lui lanciò un ultimo sguardo che la diceva lunga a Jocelyn e lei portò il suo sguardo il più lontano possibile da Magnus. Lo stregone appoggiò gli indici sulle tempie di Clary e senza mai staccare i suoi occhi felini da quelli verdi della bambina, iniziò a sussurrare parole in quella che probabilmente era un'altra lingua. Clary chiuse gli occhi e uno scenario bianco le inondò le palpebre. Si sentì leggera, come se stesse galleggiando sull'acqua, ma più fluida, come fosse più setosa... 

—Jace!— tuonò la voce acuta di Isabelle. 
—Per l'Angelo, smetti di chiamarmi così, mi chiamo Jonathan— rispose il bambino brusco. 
Isabelle scrollò le spalle e fece fluttuare i capelli neri davanti al suo visino pallido. Aveva l'aria forte e vivace e il suo comportamento era lontano anni luci da quello che era stato impartito a Jace dal padre. —Jonathan è troppo lungo. Tu, smetti di stare alla finestra e vieni a giocare con me e Alec—
—Cos'è? Un ordine? Se avessi voluto ricevere ordini sarei rimasto a casa mia a ubbidire al fantasma di mio padre— disse e il suo tono atono sorprese lui per primo. Sentì Isabelle trattenere il fiato, poi si girò sui piccoli tacchetti dei suoi stivali neri e se ne andò dalla stanza non senza prima aver sussurrato un "Cinico" sprezzante.
Jace non si voltò per assicurarsi che se ne fosse andata, non le rifilò una battuta tagliente, non fece niente. Rimase in attesa che qualcuno passasse per strada, alzasse lo sguardo verso la finestra dove alloggiava e lo guardasse come lo aveva guardato la ragazzina dai capelli rossi, con quel misto di curiosità, gioia e confusione che Jace provò una morsa allo stomaco e per una frazione di secondo pensò che quella era la sensazione che provavano gli adulti quando facevano gli stupidi con un'altra persona. E Jace stesso si sentiva stupido perché della bambina dai capelli rossa conosceva solo il nome e il viso, ma quegli occhi erano marchiati a fuoco nella sua memoria, persino nelle palpebre, tanto che ogni volta che chiudeva gli occhi la vedeva pimpante rivolgergli l'ultima occhiata prima di allontanarsi con la madre. 
Il bambino pensò che magari sarebbe stato meglio staccarsi dalla finestra, convincendosi che ormai lei fosse chissà dove con chissà chi e doveva essere così. Sarebbe andato a conoscere Alexander e Isabelle che d'ora in poi sarebbero stati la sua famiglia, e se non la sua famiglia i suoi coinquilini. E proprio mentre stava staccando gli occhi dalla strada intravide una chioma rossa e balzellante, correre dietro ad un'altra dello stesso colore. Jocelyn, o almeno così l'aveva chiamata Maryse, prese qualcosa in mano e lo avvicinò all'orecchio. 
—Quello è un cellulare— la voce di Alec lo fece sobbalzare e il moro rise. 
—Quello che sta prendendo la mamma della bambina si chiama cellulare. Si usa quando...— Alec non fece in tempo a finire la frase che Jace lo stava zittendo con la mano con fare annoiato —So cos'è un cellulare. Sono orfano, non scemo— Alec sorrise suo malgrado. 
Jace notò che indossava una maglietta rossa a maniche corte, semplice e lineare, consunta e bucata sulle spalle e non poté impedirsi di pensare che lui e il figlio di Maryse non sarebbero mai andati d'accordo. Jace tornò a guardare alla finestra: Jocelyn non aveva più in mano il cellulare, ma di fianco a lei c'era un'altra persona. L'aveva visto strattonare Clary per andare a fare la fila da qualche parte. "Simon", lo aveva chiamato. Il bambino con gli occhialoni troppo grandi per il suo viso minuto se ne stava vicino a Clary, tenendole la mano stretta come quando a scuola ti chiedono di metterti in fila col tuo migliore amico. Jocelyn gli accarezzò la schiena e gli disse qualcosa che fece arrossire Clary, che a sua volta disse -o meglio, urlò dato che persino da dentro l'Istituto Jace l'aveva sentita- che era capace ad attraversare, che sapeva prendersi cura di sé stessa anche senza Simon. Jace sorrise e appena vide il suo riflesso nello specchio riassunse l'aria seria e distaccata di sempre, vergognandosi tremendamente. 
Mentre Simon e Clary si allontanavano, mano nella mano -e Jace avvertì una fitta di gelosia infantile-, Jocelyn, guardandosi furtivamente intorno, attraversò la strada. 
Il campanello dell'Istituto trillò e Jace, senza ricordarsi di averlo deciso, scattò in piedi e scese di corsa le scale, arrivando persino prima di Maryse nonostante lei fosse nella biblioteca a pian terreno. Aprì il grosso portone, ritrovandosi di fronte alla figura snella e alta della madre di Clary, che gli sorrideva dall'alto. 
—C'è Maryse?— chiese. Il bambino annuì e facendo segno di aspettare, andò a chiamare la custode dell'Istituto. Quando Jace disse a Maryse che l'altra donna aveva bussato al campanello ed ora era dentro all'Istituto, sembrò scossa e si precipitò subito da lei. 
In un istante furono l'una di fronte a l'altra e Jace si sentì a disagio. Era sempre stato circondato da gente più grande, Shadowhunters forti e muscolosi che cenavano con suo padre, veniva trascinato ad Alicante tra i Nephilim più addestrati e vecchi che gli avevano sempre ricordato dei grossi mammut, eppure non si era mai sentito a disagio, non si era mai sentito più piccolo del dovuto per presenziare ad un loro incontro, non si era mai sentito in dovere di abbassare lo sguardo davanti ad una combutta tra due Cacciatori. Eppure con due donne all'apparenza esili e molto più basse della media di altezza indetta da Jace, si sentì a disagio. I loro sguardi incrociati sembravano lanciare scintille ovunque e la tensione era quasi palpabile attorno a loro. Jace si sentì fuori posto, come se stesse partecipando ad una questione troppo intima e grande per un bambino di dieci anni. Ma restò lì, ad osservare e ascoltare, silenzioso e paziente. 
Quando la mora parlò, lo fece con la sua solita vena d'autorità nella voce, ma, notò Jace, le tremava. —Jocelyn Fairchild. Credevamo fossi morta e tu, da un giorno all'altro, ti presenti alle porte del mio Istituto— quelle parole lasciarono Jace di sasso. 
—È un piacere anche per me, Maryse. Come sta Robert? E i bambini?— chiese la rossa come se l'altra non avesse parlato con un tono aspro e sprezzante. Come se non le avesse appena detto che la credevano morta. Jace sentì la testa girargli. Appena si stabilizzò vide che Maryse teneva le i pugni serrati lungo i fianchi, la fronte corrugata in un'espressione severa. 
—Tu sai benissimo come stanno le cose, Jocelyn!— sbraitò. Jocelyn abbassò lo sguardo, mordicchiandosi il labbro con un'espressione mortificata in volto. 
—Mi dispiace, scusa. Bene, volevo chiederti... un favore enorme, Maryse— 
Maryse rise sonoramente —E sentiamo, cosa dovrei fare? Prendere tua figlia sotto la mia ala protettiva mentre continui a fuggire dal Conclave perché ti sei accorta che, guarda un po', è una Shadowhunters e vede cose che gli altri non vedono? Che il suo amichetto mondano non vede?— chiese. Rilassò i muscoli del viso in un'espressione stanca —Jocelyn cosa stai facendo?— 
—Sto proteggendo mia figlia! La sto tutelando da Valentine! Sai che io e lei saremmo le prime persone che cercherebbe se fosse vivo e non venirmi a dire che è morto, Maryse, perché Valentine non è morto, mio marito è ancora vivo, là fuori!— benché la notizia avesse lasciato Jace boccheggiante in cerca d'aria, Maryse si limitò a sostenere lo sguardo di Jocelyn.
Jace aveva già sentito il nome di Valentine anche se non ricordava bene dove o in che contesto. Probabilmente ad Alicante durante una manifestazione. Aveva chiesto ad una donna chi fosse e cosa avesse fatto di tanto terribile per essere così odiato e temuto e lei gli aveva risposto con quanto più disprezzo fosse possibile che Valentine era un assassino, un uomo subdolo e dagli ideali contorti che voleva ammazzare tutti i Nascosti, far nascere nuovi Shadowhunters facendo bere mondani dalla Coppa Mortale, infischiandosene dei rischi. E altre cose che non riusciva a ricordare bene, ma che sapeva erano tutte cose malvagie e contorte. 
—Ti giuro che se farai questa cosa non ti ricorderai nemmeno di questo incontro, né di mia figlia. E nemmeno i tuoi ragazzi se ne ricorderanno. Ti prego, Maryse. Scomparirò dalla tua vita— la implorò —Se non vuoi farlo per me, fallo per Clarissa. Lei non c'entra niente con tutto questo— 
Maryse rise arcigna —Lei non c'entra niente? Lei è una di noi e tu la stai crescendo come una qualsiasi mondana! Mi chiedo come tu faccia a tenere a bada la sua Vista...—
—Magnus Bane— rispose Jocelyn con voce ferma. Il suo corpo era rigido e i suoi occhi verdi terribilmente seri luccicavano di speranza. —Da quando è nata, Clary viene sottoposta ad incantesimi per reprimere la sua Vista, si dimentica di tutto ciò che ha a che fare con gli Shadowhunters nello stesso istante in cui lo vede. Ti chiedo solo di andarci per una volta, per dimenticare di questo incontro e poi tornerà tutto normale. Sai che Magnus è in gamba...— 
Maryse esitò, senza mai staccare lo sguardo da Jocelyn. Gli occhi ridotti a due fessure. 
—Lo so, è il Sommo Stregone di Brooklyn. E io e i ragazzi ci andremo, per dimenticare della vostra visita— indugiò un secondo —ma ciò non toglie nulla al fatto che quello che stai facendo a tua figlia è spregevole. Ora puoi andare, Jocelyn.— e la donna, ringraziando Maryse, si girò e uscì dall'Istituto. Jace era allibito. Il padre di Clary era Valentine, marito di sua madre. Sua madre la portava da uno stregone per farle reprimere la Vista. Jocelyn scappava dal Conclave. Nascondeva qualcosa a Valentine che era vivo. Qualcosa che Valentine voleva. 
—Izzy! Alec! Scendete dobbiamo andare in un posto!— gridò Maryse, continuando a fissare la porta. —Jace, so che hai sentito tutto. Dimmi, hai capito tutto?— gli chiese inginocchiandosi  di fronte al bambino. Ora la sua espressione era dolce e curiosa come può esserla quella di una madre. Jace sentì lo stomaco concersi in una morsa famelica. —Sì, credo.—  rispose. — E tu... hai capito cosa ci farà lo stregone? Sei disposto a farlo?— Jace annuì, sapendo di non poter far altro, sapendo che anche se non avrebbe voluto sottoporsi al trattamento dello stregone ci sarebbe andato ugualmente, per il bene di tutti. 
Isabelle e Alec scesero le scale di gran carriera. Isabelle indossava un vestito rosa pesca, che le metteva in risalto il candore della pelle e i capelli neri. Le iridi marroni talmente scure da confondersi con le pupille. Indossava i suoi stivali con quei tacchetti rumorosi e fastidiosi. Alec non poteva essere più diverso con la sua maglia rossa consunta e i jeans neri. Aveva dei bei occhi, pensò. 
—Dove andiamo?— chiese Isabelle. 
—Oggi vi faccio conoscere il Sommo Stregone di Brooklyn— dichiarò Maryse con naturalezza.
Gli occhi azzurri di Alec si illuminarono —Wow che bello!— esclamò. 
E Jace non poté far a meno di pensare che avrebbe dimenticato la bambina dai capelli rossi, che lei non l'avrebbe più visto, non lo avrebbe più guardato. 
Ma ce ne saranno altre come lei, pensò, quando sarò grande avrò tante donne più belle di lei. 
E sebbene quell'idea non gli sembrasse tanto inverosimile, seguì Maryse a malincuore. 
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Okay, sono perfettamente consapevole che ciò che ho scritto non potrebbe mai essere successo davvero e che probabilmente ho descritto le emozioni di Jace in un modo troppo adulto per un bambino di dieci anni, ma si sa che Hace Herondale/Morgenstern/Lightwood/Wayland è sempre stato speciale a modo suo. Comunque, l'immaginazione è una cosa fantastica e io ho dato libero sfogo alla mia anche se devo ammettere di non essere molto soddisfatta del risultato. Ma considerando che l'ho scritto alle cinque di mattina potrebbe essere leggibile, spero. Buona lettura. 
  
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