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Autore: The_Silent_Wave    24/08/2014    2 recensioni
Klaine in versione "Non sapevo di essere incinta", storico programma di Real Time.
WARNING: Male!Pregnant.
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Aveva riflettuto spesso sull’idea tangibile di avere dei figli un giorno, un giorno parecchio lontano.
Blaine adorava i bambini e per qualche strana alchimia i bambini adoravano lui; quando era con loro, era come se fosse stato immesso di nuovo nel suo habitat naturale, originario. « Forse perché siamo della stessa altezza» ironizzava sempre Blaine.
Con un fidanzato del genere, non poteva almeno considerare la remota ipotesi di fare un bambino. Ebbene sì, fare. Kurt era uno dei pochi esseri umani di sesso maschile che poteva rimanere incinto.
Uno scherzo della natura si potrebbe pensare, ma invece più che uno scherzo era piuttosto un prodigio della natura.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Burt Hummel, Finn Hudson, Kurt Hummel, Rachel Berry | Coppie: Blaine/Kurt, Finn/Rachel
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Mpreg
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Salve!
L’idea di una Male!Preg non è mia, ma di una persona che non è più presente nella mia vita, e non voglio prendermene il merito. Però tutto l’impianto tra intreccio e registro stilistico e linguistico è mio. Ovviamente, come si capisce dal titolo, mi sono ispirato ad uno dei programmi più trash della storia di Real Time come trama.
 
Ah, dimenticavo, Tanti auguri! Spero che passerai un buon compleanno.”
 
 
 
 
 
 
 
I didn’t know I was pregnant
 
 
 
Il sole era sorto.
Attraversava con i suoi raggi dorati ora timido, ora più deciso, tutte piastrelle di vetro della finestra, da quelle trasparenti a quelle colorate, creando così dei giochi di luci dalle mille tonalità.
Man mano che s’intensificava, si diffondeva a macchia d’olio sulle aste che dividevano le piastrelle, lasciando come segno del proprio passaggio una patina rossa, arancio, violetta, che, sovrapponendosi alla cromatura neutra, dava l’illusione che tutta la finestra si fosse tinta magicamente di quei colori.
Quella sfera di fuoco però si stava alzando: non era più coricata a dardeggiare occhiate agli imponenti palazzi e grattacieli della città, ma anzi li guardava sempre più dritta.
La luce dalla finestra si spingeva sempre giù in avanti, e ciò che pian piano toccava veniva dotato di un nuovo e fanatico aspetto. Lo specchio, la scrivania disordinata, la lampada ritta, i vestiti pieni di pieghe disseminati per la stanza,  ora emergevano come se fossero stati sommersi sott’acqua e affioravano alla superficie coperti dalla stessa patina opaca che ricopriva precedentemente solo la finestra.
Ogni cosa stava cominciando a prendere volume e definire nettamente i propri contorni.
E mentre la luce progrediva sempre più, sconfiggendo ancora una volta il buio, cacciava tutte le ombre, che si avviluppavano tra di loro sullo sfondo.
 
Ora sfiorava anche il viso di Kurt, che si stava accendendo come metallo al sole.
Si sentì disturbato e pressoché violato da quei raggi, che gli pizzicavano sadici il volto, costringendolo a svegliarsi ad un’ora improponibile, considerando la notte brava, che aveva trascorso.
Aprì un occhio, ma la luce lo infastidì e lo richiuse nel giro di pochi attimi.
Alzò il busto e si sedette sul letto, facendo il minimo rumore: non voleva svegliare Blaine, che dormiva supino e russava, a giudicare da versi che emetteva.
Riaprì un occhio e poi l’altro, cercando di abituarsi gradualmente alla luminosità dell’ambiente.
Poi mettendolo a fuoco si rese conto di non aver tirato la tenda, ancora raggrinzita su stessa vicino alla scrivania.
Si alzò, provocando un lieve cigolio, causato dalle vecchie assi del parquet; si avvicinò alla tenda e una volta raggiuntala, la tirò poco alla volta, riportando sull’intera stanza un buio, interrotto da qualche sprazzo di luce, che filtrava impavido dalle parti delle piastrelle, rimaste scoperte.
 
Era parecchio indolenzito: ogni suo muscolo sembrava essere stato appena sottoposto a mille sforzi a cui il suo corpo non aveva potuto porre rimedio.
Sarà stato tutto quell’alcool, pensò.
Di certo festeggiare la Vigilia del Ringraziamento tra locali gay del Greewich Village in fiumi di drink alcolici non aveva certo giovato al suo stato fisico.
A pensarci bene, era qualche tempo che Kurt si sentiva come un tempo.
Erano mesi che lamentata una sorpresa stanchezza, ma la imputava al fatto che era al suo ultimo anno di College e le lezioni erano davvero pesanti.
Così non fece caso neanche alle caviglie gonfie, causate, a detta sua, dalle terribili master class di Cassandra, o al mal di schiena, attribuito al fatto che Blaine gli avesse regalato il Kamasutra omosessuale e che esigesse di provarlo tutto senza esclusioni di colpi…o di posizioni, o al fatto che lavorasse troppo, sfacchinando vestiti e accessori da un’ala all’altra di quel palazzo alla 44esima. 
Era un periodo stressante, ma d’altra parte lui non poteva allentare la presa.
Aveva tutto quello che aveva sempre desiderato: si stava laureando nel College dei suoi sogni, abitava insieme alla sua migliore amica e la sua relazione andava a gonfie vele.
Adesso spettava a lui lavorare sodo per fare progredire tutto nel verso giusto.
Non era stato certo facile per lui raggiungere tutti quei traguardi, in particolare la sua relazione con Blaine.
Il primo anno in cui Kurt si trasferì a NYC fu una grande prova per il loro rapporto: tutti sanno che la distanza non aiuta a mantenere i rapporti saldi, considerando anche il fatto che loro due si vedevano ogni giorno a scuola, si incontravano al Glee Club e trascorrevano la maggior parte del loro tempo insieme, risultò ancora più duro del previsto.
Difatti con la ripartita di Kurt quella relazione così stabile cominciò ad incrinarsi.
Blaine si sentì molto solo; si sentì trascurato.
Ma ne parlò con la sua metà; fu forte, sebbene in quel momento la sua fonte di forza non era accanto a lui.
Così interrogandosi trovarono una soluzione: si ripromisero di vedersi almeno una volta a settimana.
Certo era Blaine a sposarsi con più frequenza: era agevolato dalla carta Millemiglia del padre, una sorta di carta di credito, che si ricaricava in base al numero di viaggi effettuati e, in base ai punti ottenuti, offriva o forti sconti o addirittura biglietti premio.
Malgrado tutti gli impegni entrambi a loro modo riuscivano sempre a ritagliarsi un piccolo spazio che si dedicavano l’uno l’altro.
Kurt era pienamente conscio che una relazione costa devozione e sacrificio e che l’amore, senza queste altre due componenti, purtroppo non è sufficiente.
Tuttavia col passare del primo anno e con il diploma di Blaine, la situazione migliorò di netto. Blaine vagliò diverse ipotesi per il suo futuro accademico e, tra la NYADA e la Tish, optò per quest’ultima solo per fare restare Kurt come l’alunno più promettente della scuola.
Vivere nella stessa città cambiò tutto in positivo: si vedevano ogni giorno e, benché non convivessero sotto lo stesso tetto (Kurt voleva una proposta formale con almeno un engagement ring di due carati), di tanto in tanto quando Rachel tornava a Lima per stare con Finn(era tornati insieme da poco), loro facevano, come le chiamava Kurt, “delle prove di convivenza”.
Insomma se la sua vita al liceo era stata un inferno, ora era tutto diverso: si sentiva in parte ripagato di tutte le sofferenze che aveva subito, perché ora aveva tutto.
E quel tutto era dannatamente perfetto; niente poteva macchiare quel quadro dipinto con tanti sforzi, a maggior ragione un po’ di stanchezza, che era sicuro che quei giorni di vacanza di sicuro avrebbero risanato.
 
Eppure c’è sempre qualcosa di impossibilmente calcolabile, qualcosa che sfugge a ogni rigor di logica, a ogni qualsivoglia controllo umano, qualcosa che sconvolge , seppur in maniera impercettibile dapprima, ogni azione successiva, che sia importante o una minima facezia non importante, perché sarà quell’azione a cambiare il corso di un’intera vita.  
 
Kurt si voltò tremolante per tornare a letto e continuare a dormire, visto che ne aveva proprio bisogno.
Mentre fece quei pochi passi tra la tenda e il letto, vide Blaine in dormiveglia o proprio dormiente, che allungava il braccio destro a tentoni, tentando di trovarlo nell’altra sponda del letto. 
Nonostante avesse gli occhi ancora velati dal sonno, quella scena si configurò chiarissima nella sua mente: si fermò infatti un attimo per osservarlo meglio.
Sorrise per quel gesto così spontaneo e ingenuo: quello era indistintamente il suo modo di fare, un modo di fare che gli ricordava sempre quanto per Blaine fosse indispensabile, unico e insostituibile. Si era sempre sentito per scontato e superfluo, messo da parte, seduto nelle sedie di un’aula piuttosto che protagonista su un palco, mentre per una volta qualcuno, qualcuno che aveva sempre sognato, lo aveva fatto sentire in maniera completamente opposta. Ogni volta che lo sfiorava o lo guardava semplicemente, poteva cogliere in quello sguardo o in quel tocco il bisogno profondo e chimico di averlo sempre proprio nella stessa identica misura in cui Kurt reciprocamente volesse sentirsi per lui. E in quell’istante tra il letto e la finestra, realizzò quanto amasse quel modo di fare, quei piccoli gesti, che ormai erano entrati nella loro quotidianità, quanto amasse quella stessa quotidianità- come il brunch da Pastice la domenica o il giovedì rannicchiati sul letto del dormitorio di Blaine a vedere vecchi film -, quel loro micro-mondo che mattone dopo mattone stavano costruendo, quella famiglia che pian piano stavano formando e chissà magari un giorno, quando entrambi sarebbero stati pronti, avrebbero allargato.
Si infilò nel letto e si sistemò accovacciandosi accanto a lui, spostando il braccio del fidanzato, che lo voleva rintracciare, in modo tale da tenerlo stretto a sé.
E in quel tocco percepì una sorta di carica elettrica, un brivido: il fatto che Blaine fosse certo di essere al sicuro.
Nulla avrebbe rovinato quel weekend solo per loro.
 
 
*****
 
Blaine fissò il suo riflesso sullo specchio con un’attenzione pressoché maniacale. Si aggiustò nervoso per bene la cintura dei pantaloni, il farfallino annodato accuratamente al collo della camicia e infine si sfilò l’ultimo bottone del cardigan. Un vero gentleman lo fa.
Poi assicurandosi ancora di non aver nient’altro fuori posto si rivolse al fidanzato.
 
 « Sei pronto? »
 
Mentre udì quelle parole Kurt era seduto sul letto e si stava allacciando le scarpe. Di solito era sempre il primo ad essere pronto. Dio solo sa quanto tempo Blaine impiegasse ad acconciarsi i capelli con tanti tipi strani di prodotti tra cui l’immancabile gel, i quali neanche Kurt, grandissimo estimatore delle lacche naturali e di ogni qualsivoglia prodotto di bellezza, avrebbe mai considerato. Nell’attimo in cui tentò di alzarsi, una fortissima e rapida fitta gli premette sulla schiena.
 
« Allora? »
 
«  Ouch...»
 
Non avendo una risposta se non un rantolo doloroso, Blaine si diresse verso la camera del letto e vide Kurt con un’espressione dolorante in volto e una mano sulla schiena e l’altra sulla pancia, curvo su stesso.
 
« Stai male? » Disse con tono preoccupato quanto ansioso come una madre iperprotettiva appena avverte nel figlio un minimo cenno di un raffreddore.
 
« No, sto bene. È stata solo una fitta…» tentò di minimizzare Kurt, nonostante l’espressione del suo volto non avesse nessun segno di benessere, anzi ne aveva assunto una dolorante e contratta.
 
« Mhm…il treno è parecchio stancante; magari restiamo a casa a guardarla in tv? »
 
« No, ti ho detto che sto bene. » Provò a tranquillizzarlo senza risultato. « Ora su, andiamo, ché quarantacinque minuti di strada solo parecchi e non voglio stare dietro quei grassoni del New Yersey! »
Mentre cercava ancora di convincerlo, Kurt si alzò dal letto, assunse una posizione eretta e quanto meno normale ricacciando, via dalla sua espressione ogni malessere.
 
 
E in quell’istante si fissarono dritti negli occhi.
Ci fu una leggera quanto profonda esitazione senza però essere imbarazzante, anzi era carica di una forte complicità. Perché lo sguardo di Blaine diceva “Sono consapevole che sai quanto tenga a vedere la parata insieme sotto il cielo plumbeo di New York mentre la strada si dipinge di mille colori e i bambini urlano di gioia, quanto tenga a questa nostra tradizione. Ma rinuncerei a tutto per te, perché la tradizione senza di te non più tale. »
 
E Kurt rispose a quello sguardo, sussurrando con le pupille fisse su quelle del partner: « Nulla mi potrebbe impedire di rinunciarci. Nulla mi può impedire di renderti felice. »
 
Questi sguardi parlanti durano sì e no una frazione di secondo. Sarebbe stato impossibile esprimere quei concetti a voce in quel breve lasso di tempo, eppure loro, usando altri canali comunicativi, c’erano riusciti.
Era questo ciò che più adoravano del loro rapporto: il non dovere mai parlare troppo, perché si capivano, si parlavano, si spiegavano solo con un sguardo, solo con gesto, solo con un sorriso senza neanche doversi sforzarsi.
 
Difatti Blaine sorrise, dopo aver intuito quel lasciapassare, abbassò gli occhi con un qualcosa di timido e pudico, come era solito fare da sempre, mordendosi il labbro inferiore.
 
E lì Kurt capì che l’aveva convinto.
 
*****
 
 
Per tutto il viaggio in treno Kurt stette bene; insomma niente fitte, dolori costanti alle articolari o muscoli tesi e contratti. E giunti a destinazione, facendosi largo tra la folla di vario genere: zitelle sole e agghindate a festa dall’aria però sempre sciatta, uomini di mezze età con mogli troppo giovani e belle e famiglie esuberanti sia di numero che di fatto quanto una mezza dozzina di una squadra di calcio, non poté non interrogarsi sul perché tutte quelle persone andassero a un evento simile.
Vagliando le diverse ipotesi -la zitella non ha altro fare, gli uomini con la sindrome di Peter Pan devono percepirsi sempre giovani così prendendo sempre l’iniziativa e le famiglie per riaccendere tutti insieme quel focolare, che molto spesso arde per pochi componenti alla volta- arrivò alla più probabile quanto sciocche delle ipotesi: tradizione.
Era proprio questa parola a non volersi più scrollare dalla sua mente e ora che aveva questa mera intuizione, voleva scavarne più a fondo.
Ci rimuginò su, mentre Blaine spingeva la gente per avere un posto in prima fila, non badava neanche a bambini o ai genitori da tanto che era preso da quell’affannosa ricerca; d’altronde nessuno avrebbe saputo dire con certezza se fosse più infantile, ingenuo o sovraeccitato lui o quei nanerottoli urlanti, a cui assomiglia parecchio da lontano tra l’altro, almeno come altezza.
Tuttavia non gli vennero in mente grandi esempi di trasmissione come il linguaggio, la scrittura o più banalmente l’insieme d’usi e costumi di grandi popoli o nazioni dalle vesti troppo colorate e dai gioielli troppo vistosi; non volle entrare nei panni di un esperto antropologo per analizzare scientificamente ogni minimo dettaglio sparso che lo riconducesse infine a un percorso unitario, si mantenne basso, umile, considerando –solamente- la quotidianità di ognuno.
Prima di tutto si chiese a cosa serva ripetere un’azione dopo un determinato intervallo tempo; perché si tende a crearne una o più? Quale scopo avrà mai?
Le persone tendenzialmente non vogliono ripetersi mai: amano stupire ed essere stupire, adorano le sorprese e i colpi di scene, insomma tutto ciò che sfocia nell’ambito dell’inaspettato. Lo cercano ovunque nell’imprevedibilità di un lavoro, nell’imponderabilità di una scelta, nell’ennesimo flirt col tipo/tipa misterioso di cui si conosce a male pena il nome, lamentandosi quindi ogni singolo giorno di quanto la loro vita sovraccaricata di routine -forse la cugina sottovaluta e maltrattata della tradizione?- sia terribilmente monotona e per niente eccitante.
Ciononostante non c’è famiglia che non abbia una tradizione, anche minima, tipo il sedersi sempre allo stesso posto a tavola o trascorrere le vacanze sempre nello stesso luogo.
Perché molto spesso non c’è una persona che, in fin dei conti, non vorrebbe qualcosa di consolidato, qualcosa di certo. Sì, rammentò Kurt, una certezza minuscola, ma pure sempre una certezza in un mondo dove ogni cosa è sospesa nel vuoto.
È vero l’incertezza eccita, l’abisso affascina e spaventa al tempo stesso, rende inermi e indifesi. E mentre si è così alla mercè, mentre tutto ha la possibilità di svanire, chi non vorrebbe avere una certezza, da cui essere protetto?
E per quanto mal trattiamo quella cugina, è lei la nostra unica ancora che ci rassicura dall’abisso del nulla.
Per Blaine era quello ciò che lo faceva stare meglio, ciò che faceva sentire protetto e al sicuro, ciò oscurava per un attimo il vacuo e incerto futuro, era quello che aveva creato pian piano con Kurt. Una sorta di insieme di usanze, di avvenimenti da celebrare sempre nello stesso posto, di tradizioni appunto, che un giorno avrebbe sperato di consegnare a piene mane come un qualcosa di salutare e prezioso a suoi figli.
Non importa chi la comincia, se è consolidata da generazioni o se è invece qualcosa di verdeggiante e nuovo, si ha il sentore di avere creata nell’esatto instante in cui la si rispetta.
E proprio nell’istante in cui Blaine indicò un tacchino dalla fattezza comiche come rubato a qualche cartone animato, che col becco spalancato sembrava urlare di non voler essere mangiato, Kurt ebbe il sentore che ne stavano creando una. Insieme. 
 
Mentre ormai persino la coloratissima copertura del pennuto stava scomparendo e Blaine stava osservando tanto intensamente il Babbo Natale successivo, un vento sempre più fastidioso si stava alzando sulla città e, sebbene nelle prime ore della mattina il sole era molto forte, ora sembrava essersi nascosto in quel cielo plumbeo.
 
L’attenzione di Kurt, tuttavia, al posto di posarsi sul quel defilè che gli stavano proponendo venne rapita dalla bambina che a fianco a loro teneva stretta la mano del papà.
 
Non appena Kurt si voltò per osservarla meglio, senza dare nell’occhio ovviamente, le parve la bambina più bella che avesse mai visto. Poteva avere approssimativamente 5 o 6 anni; aveva dei riccioli castani con riflessi dorati che scendevano fino alle spalle, nascosti sulla testa da un basco rosso di merinos,  che accarezzavano dolcemente il cappottino blu navy di lana cotta, degli occhi di un colore indefinito approssimativamente celeste sempre più chiaro man che si avvicinano all’iride, contornato da filamenti verdi, dorati, nocciola.
Ma ciò che colpì Kurt non fu solamente il suo aspetto, ma piuttosto l’atteggiamento.
Nell’altra mano stringeva la bambola con determinazione, come se fosse stato un bottino conquistato dopo una lunga ed estenuante guerra; si rivolgeva di tanto in tanto al padre sempre interrogando su ogni minima facezia. In quelle domande c’erano una bambina ansiosa di scoprire il mondo, ma non in maniera sterile o faziosa, non voleva solo vedere una faccia del mondo, ma le più plurime, non importa quanto quel mondo potesse essere spietato o insensato, lei avrebbe voluto osservare e capirne i meccanismi. Avrebbe creduto sì creduto alla bontà e all’ingenuità della gente- perché  faceva parte del suo carattere- ma avrebbe sempre considerato la cattiveria e la grettezza, perché la conosceva, l’aveva osservate da lontano come un’attenta sociologa.  
Se avesse potuto immaginare come sarebbe sua figlia, l’avrebbe immaginata esattamente in quel modo di fare, con quell’ingenua arguzia e quella pacata eleganza.
Aveva riflettuto spesso sull’idea tangibile di avere dei figli un giorno, un giorno parecchio lontano.
Blaine adorava i bambini e per qualche strana alchimia i bambini adoravano lui; quando era con loro, era come se fosse stato immesso di nuovo nel suo habitat naturale, originario. « Forse perché siamo della stessa altezza » ironizzava sempre Blaine.
Con un fidanzato del genere, non poteva almeno considerare la remota ipotesi di fare un bambino.  Ebbene sì, fare. Kurt era uno dei pochi esseri umani di sesso maschile che poteva rimanere incinto.
Uno scherzo della natura si potrebbe pensare, ma invece più che uno scherzo era piuttosto un prodigio della natura.
Quando era adolescente in una banale visita si accorsero che il suo livello di testosterone era lievemente basso.
« Non c’è da preoccuparsi. » Disse il dottore con un tono saccente a Burt. Ma non appena lo stimato specialista lesse il livello degli altri ormoni  il suo volto si contrasse una smorfia sghemba sul volto. Concluse il discorso frettolosamente, sostenendo ancora una volta che non c’era da preoccuparsi, ma doveva sostenere altre analisi per controllarne la fertilità.
Dopo innumerevoli analisi del sangue e dello sperma(almeno qua non gli conficcavano niente nel braccio), furono mandati dall’endocrinologo più brillante dell’Ohio.
Esaminò con accortezza la sua cartella clinica, poi di scatto lo guardò dritto negli occhi con un’espressione interrogativa e aggiustandosi gli occhialini che stavano per penzolare sul naso,  esordì con voce squillate ed esaltata:
« Sei un miracolo della natura. »
Kurt a quell’affermazione ebbe un po’ di paura mista ad incertezza. Che significato avevano quelle parole?
« Devo farti un’ecografia, ma penso di sapere cosa hai. »
Da quell’ecografia ne ebbero la certezza: Kurt possedeva le ovaie, anzi per la precisione un’ovaia posizionata al di sotto della prostata.
Ebbene lui poteva rimanere incinto.
Si chiamava Sindrome di Pleifter-Berger, l’unica condizione in cui l’intersessualità del soggetto risulta non solo essere fertile in uno dei sue sessi, ma addirittura in entrambi.
Gli avevano spiegato anche la maniera in cui i suoi ormoni si coordinassero alla perfezione per potere essere fertile in entrambi i modi, ma nomi come ormone anti-mullierano, follitropina, prolattina e ormone luteinizzante lo avevano fatto confondere , facendolo divagare e riflettere nel secondo successivo su come lui aveva l’unico effetto “collaterale” di cui il sesso maschile è esente. Che sfiga, pensò mentre il dottore ripeteva per l’ennesima miracolo, aggiungendo che c’erano solo cinque casi documentati nell’era moderna.
Appena Burt venne a conoscenza della diagnosi, lo ammonì scherzando-o forse era serio-: « Niente sesso fino ai trent’anni. »
 
Questa sua strana, miracolosa, o come la si voglia chiamare, condizione non gli aveva mai dato dei problemi. Neanche nel rapporto con Blaine.
Aveva ancora memoria del momento in cui glielo confidò.
Era una sera fredda di novembre inoltrato; il vento freddo spirava con una forza innaturale e loro erano rannicchiati l’uno avvinghiato all’altro nel letto di Blaine con una coperta di cashmere che li lambiva, mentre la televisione trasmetteva “la Carica dei 101”.
Non era il suo cartone animato preferito della Disney.
Ovviamente adorava quegli adorabili cagnolini, ma non arrivava mai a percepire sotto la sua pelle la morale, a farla sua; forse perché lui prediligeva nettamente i cartoni con principi e principesse, corte sfarzose o ambientazioni fantastiche e magiche, storie d’amore dolci e struggenti in cui il protagonista dopo mille disavventure riusciva a salvare la persona amata e a coronare i loro sogno di una vita insieme. Lo imputava al suo lato caratteriale romantico e sognatore.
Blaine, invece, non appena finì il cartone, -fu iper-emotivo per tutta la sua durata- disse che era uno dei suoi preferiti. Adorava il modo in cui i cani accoglievano gli altri cuccioli senza alcuna remora, formando una vera, ma nuova famiglia. Perché l’unica cosa che conta nella famiglia è l’amore e non importa da chi sia formata, dal numero dei componenti o il loro sesso, ovunque ci sia, c’è famiglia.
Pronunciava quel discorso con una sorta di luce brillante negli occhi, qualcosa che Kurt non aveva mai visto prima in lui. Poteva scorgere in quelle iridi dorate un’estrema tenerezza e una forte partecipazione, che sì Blaine magari possedeva da sempre ma che ora erano come divampate, manifestandosi con chiarezza, un fuoco mite e dolce che lo illuminava interamente. 
Kurt cavalcò quella tenerezza, afferrò il filo di quella partecipazione e gli domandò se un giorno avesse voluto dei bambini. E sempre con quella lucentezza che emanava sempre più, con quell’ardore che sfavillava, Blaine annuì semplicemente quasi commuovendosi nel credere che un giorno Kurt e lui sarebbero potuti essere una vera famiglia.
Tutto successivamente venne naturale.
Kurt, continuando su quella tenera scia e gli raccontò per filo e segno ogni cosa: la sua intersessualità, la sua condizione e il fatto di poter rimanere.
All’inizio Blaine rimase un po’ perplesso: non aveva mai sentito parlare di quella strana sindrome, neanche in quegli assurdi programmi su Real Time che amava. Ma nell’istante successivo in cui il suo cervello elaborò la notizia, legittimandola quindi, si sentì pervaso da una strana euforia. Quel fuoco prima tenero e mite era mutato di intensità e di caratteristiche: ora gaio e festoso.
E Kurt intese subito il perché: Blaine avrebbe voluto un figlio, tutto loro, più di qualsiasi altra cosa. 
 
Mentre ancora quei pensieri fluivano come mille affluenti nella sua mente ininterrottamente addensandosi tra di loro e contaminandosi  gli uni con gli altri, non si accorse neanche che Blaine, prendendogli la mano, lo stava trascinando vicino alle transenne.
 
« Non era bellissima quella bambina? » Gli domandò mano nella mano. Ma quella domanda celava dell’altro era come se avesse detto « Non era bellissima quella bambina, ho visto che la stavi guardando e so a cosa pensavi. »
 
Kurt annuì semplicemente, puntandogli un’occhiata maliziosa, spia che aveva intuito ciò che non aveva detto il fidanzato. E Blaine, mordendosi il labbro, ricambiò quello sguardo complice.
 
*****
 
La giornata trascorse in maniera normale, ma non monotona. Pranzarono in un ristorante francese con le pareti tappezzate di piccole rose ocra e pannelli di noce scuro nella parte inferiore; poi passeggiarono per Central Park fino ad arrivare alla fontana dell’angelo di Bethesda. Si sedettero e parlarono fino a quando il sole non svanì tra quei mille profili neri e grigi che squarciavano quel cielo dorato, finché le loro sagome sembrarono, per un effetto bizzarro della luce, essere diventante una sola, finché il buio, relegato in qualche posto d’ignota conoscenza, si liberò dalle proprie catene.
Parlarono di quanto i vicini fossero sguaiati e insopportabili, di quanto i prezzi nel discount di fronte casa fossero aumentanti, di come volessero entrambi calcare un parco di Broadway, di come progettare i prossimi mesi e di come forse abitare con Rachel minassero la loro intimità; magari si sarebbero potuti trasferire nell’appartamento, che Blaine aveva visto vicino al suo dormitorio, finalmente al centro di NY per quanto piccolo. Così quelle prove di convivenza che stavano attuando non sarebbero state più tentativi sporadici, ma la loro quotidianità.
 
Tornati a casa decisero di ordinare cinese -il tacchino lo avrebbero mangiato la settimana successiva tutti insieme con Burt e Carole, Kurt poi non si sentiva di cucinarlo- e fare una maratona di film come di loro consueto.
 
« Propongo Judy Garland e la sua triade vincente: “Mago di Oz”, “Meet me in Saint Louis” ed “E’ nata una stella. »
 
« Ma è una nostra tradizione guardare Meet me in Saint la vigilia di Natale, cantando l’intera colonna sonora davanti all’albero di Natale! » ribadì Blaine con un tono di voce sempre più stridulo nel finale.
 
« Tanto domani è il Black Friday, quindi Natale è vicino. » Fece notare con ovvietà, gesticolando mentre teneva in mano le bacchette cinesi comprate in un negozio di China town.
 
« No, io propongo Hepburn, Audrey Hepburn- mettendo molta enfasi nel nome-, Colazione da Tiffany, Quelle due e Funny Face. »

« La mia ultima offerta: sostituiamo Quelle due con “Sabrina.” »

« Ci sto. » Disse, ammiccando con lo sguardo.
Kurt andò a prendere i DVD nella grande parete attrezzata che divideva la zona living dalle camere da letto. 
All’improvviso, quando allungato verso la mensola e le sue dita stavano sfiorando “Colazione da Tiffany”, un dolore acuto gli trapassò la schiena da parte a parte, un dolore talmente forte da farlo crollare a terra.
 
Blaine stava apparecchiando il tavolo da pranzo mentre aspettava il fattorino delle consegne; sentì cadere il DVD e si voltò di scatto, ma non poteva immaginare che Kurt era riverso sulle assi di legno incapace di alzarsi.
 
« KURT! »
 
Dopo quell’urlo si precipitò più veloce di un battito d’ali dal suo ragazzo dolorante. Blaine lo prese per le braccia con la massima cura, come si farebbe a un uccellino ferito, con l’intenzione di volerlo alzare- o almeno così intuì Kurt-, ma quest’ultimo fece segno che le sue gambe non reggevano il suo peso, perché un forte e costante dolore gli trapanava l’osso sacro.
Parlava a stento: quel dolore aveva monopolizzato il suo corpo, rendendolo inabilitato a compiere qualsiasi altra azione. Persino respirare era un atto arduo da compiere e quindi non poteva spiegare pedissequamente i suoi sintomi.
Blaine tentò di non farsi prendere dal panico; prese il telefono e chiamò il 911. Non seppe cosa dire con precisione, balbettava e storpiava le parole. Aveva mille parole in testa, ma il suo cervello non riusciva a ordinarle per dare loro un senso logico. Con la voce spezzata alla cornetta riuscì a stento  ad abbozzare vagamente cosa avesse il suo ragazzo e l’indirizzo. 
L’operatore rispose che tra sette minuti l’ambulanza sarebbe arrivata.
Sette minuti.
Nella sua testa riecheggiavano quelle parole fin a fargli perdere il contatto con la realtà.
Sette minuti.
Cosa avrebbe dovuto fare in quel lasso di tempo? Kurt aveva bisogno di aiuto, non poteva aspettare sette minuti. Era là davanti sul divano davanti alla parete attrezzata, –Blaine era stato in grado, prima di prendere il cellulare, di trasportarlo sul divano- mentre quei setti minuti trascorrevano più lenti che mai.
Sette minuti.
Quel pomeriggio passarono ore e ore tranquilli sotto il sole di Central Park, cullati dal canto degli uccellini, dallo zampillare dell’acqua, lambiti dai teneri raggi del sole; cosa erano in confronto a quei setti minuti?
Sette minuti.
Eppure adesso quelle ore sembrano secondi, piccoli granelli precipitati e dimenticati in fondo al cassetto in confronto a quei pochi terribili sette minuti, i setti minuti più strazianti che aveva trascorso…almeno fin all’ora.
Sette minuti.
Voleva aiutare Kurt, ma non sapeva come esattamente. “Gli tengo la mano -ma forse é meglio se prendo un asciugamano umido- forse ha anche la febbre- suda, ha sicuro la febbre- ora gli sollevo la testa, forse si fa così- Forse? Forse non basta. »
Sette minuti.
Kurt d’altra parte non poteva neanche accarezzarlo con uno sguardo rassicuratore: in lui ogni forza, ogni energia vitale era quasi esaurita e la poca rimasta gli serviva per contrarre il diaframma per respirare, nonostante fosse l’unica cosa che Blaine non capendo ricercava.
E, mentre i minuti trascorrevano tra la confusione e il dolore, la sirena dell’ambulanza frantumò quel silenzio che si era creato loro.
Quei setti minuti erano passati.
Anche quel tempo era diventato un granello di sabbia e man mano che il tempo scorreva, sarebbe precipitato nella loro coscienza, sedimentato a poco a poco per costituire la crosta dei ricordi.
 
Blaine non lasciò mai la mano di Kurt negli attimi successivi. Fotogrammi di paramedici, maschere per l’ossigeno e barelle, si confondevano all’interno del suo campo visivo, baluginanti, fendendo la sua percezione del reale e catapultandolo sicuramente in quello, che a giudicare da ciò che stava succedendo, doveva essere un incubo.
Ricordò prepotentemente ma un po’ sfocate le luci di New York che entravano di soppiatto dai finestrini dell’ambulanza, centinaia di lampioni, migliaia di fanali d’auto, milioni di insegne di negozi, che illuminano quel disperato cammino all’ospedale.
E quando vide Kurt esalare un respiro sempre più flebile del precedente, si domandò persino se quei lampioni, fanali, quelle insegne o anche solo le persone che camminavano per quelle strade tranquillamente sentissero tutta l’angoscia, che stava piombando su di lui come un falco rapace. Pian piano senza farsi sentire, dall’alto era precipitata senza lasciargli la possibilità di difesa. Era davvero così indifeso senza Kurt?
 
Arrivati all’ospedale, i paramedici dissero agli altri medici accorsi frasi senza senso per lui e portando Kurt in sale dove a lui non era consentito entrare.
Non aveva lasciato la mano di Kurt, ma nell’istante in cui la barella con un forte colpo spalancò la porta d’accesso alla sala emergenza, le loro mani si scollarono, le loro dita intrecciate tra di loro si sganciarono e proprio in quell’istante un brivido percorse la sua schiena.
Si sentì così attonito, quasi sconfitto, solo e a tratti colpevole. Sentì come se quelle mani non fossero solo di Kurt, come se non stesse lasciando solo delle mani, bensì qualcosa di più assoluto e indefinito, qualcosa di più solenne e brutale, come se avesse lasciato la mano alla vita. Come se ora, circondato solo dal bianco più asettico, da persone che non conosceva e che non si curano di lui, a cui lui non interessa per niente, avesse abbandonato tutto ciò che lo proteggeva dalla solitudine, da tutte le sue paure.
O meglio più drammaticamente era stato lui abbondato dalla vita in quel punto, rigettato con una violenza silenziosa su quel pavimento in balia delle sue paure, in balia di se stesso.
E mentre altri infermieri gli dicevano molto gentilmente di spostarsi da lì dal punto del suo abbandono, mentre lo sfioravano, udì in un luogo lontano dove aveva accesso solo lui, una rottura, una frattura e un successivo crollo, nel quale ora poteva passare qualsiasi cosa –che per lui vista la situazione poteva essere solo negativa- ogni malattia, ogni virus, ogni mania o ossessione poteva attraversare il suo torace, salire su fin sopra il cervello e incunearsi là, vicino alla fonte dei pensieri, infettarli così da inquinare tutto il suo corpo dall’interno, finché ogni parte di lui sarebbe perita e infine putrefatta.
Quel senso di abbandono, di nudità improvvisa, lo fece trasalire; si coprì alzando le spalle per rannicchiarsi quasi su stesso in un infantile gesto.
Nudo e solo in una città di quasi dieci milioni di persone, perché l’unica che lo copriva e lo proteggeva era in un lettino in balia tra la vita e la morte.
No, non poteva neanche pensare una cosa del genere. Eppure quella paura -non era più angoscia- saliva sempre di più, cresceva, si nutriva dei suoi respiri affannosi, dei suoi battiti accelerati e ora che non aveva più barriere o protezioni poteva pellegrinare indisturbata dentro di lui.
 
Si sedette in una sedia, non tanto lontana dalla sala emergenze, al centro della stanza, incurvandosi sempre più se stesso. 
Era stato sì abbandonato da ogni forma di vita, da ogni genere di speranza, ma qualcos’altro l’aveva puntato, braccato fino a raggiungerlo, qualcosa l’altro l’aveva abbracciato con una stretta cupa, quasi asfittica: un senso d’inadeguatezza al mondo, l’infantile terrore che ogni cosa potesse crollare su di lui e lui non potesse sostenere quel crollare e si abbandonasse ad esso, morisse a causa di esso, il senso che non solo Kurt, ma anche lui stesso, su quella sedia, potesse smettere di respirare da un momento all’altro.
E ripensò alla felicità, a ogni momento in cui sentiva la felicità percorrergli la pelle, a tutto quello che gli era stato concesso fin ora e si domandò se fosse stato fin troppo. Se la vita fosse stata troppo benevola e ora, resasi conto di dover adempire a una sorta di, seppur minima, giustizia, l’avesse abbandonato in questo modo per un equo motivo.
Ecco cosa era quel senso di colpa, quella colpevolezza-ora non era più a tratti- quel complesso di colpa ora si stavano ergendo in lui quasi in lacrime su quella scomoda sedia.
Si chiese come mai non se ne fosse accorto prima e dunque si fosse preparato anche all’impossibile -quell’impossibile ora era il suo “reale”-, perché si fosse crogiolato in quella routine di felicità, che lo aveva accecato, fatto perdere la bussola del dolore, la cognizione del reale. 
Ma ci si può davvero preparare al dolore? Si può vivere con il continuo presagio che possa accadere qualcosa di nefasto solo perché la vita una volta dà e una volta toglie?
Ma subitaneamente dopo nella testa Blaine balenò un’idea ancora più insana e spietata, un’idea feroce che però lo rassicurò, seppur in minima parte, da quel dolore corrosivo, che sembrò riscaldarlo da quei continui spiragli di vento che spiravano a causa della continua apertura delle porte.
Davvero esiste una distribuzione vitale equa e giusta? Esiste una ricompensa o una punizione per le nostre azioni? O forse tutto in balia dell’insensatezza; se togliesse e desse senza ragioni profonde?
Perché Kurt si era forse meritato questo? O forse lui si era meritato quei pensieri di morte che ora lo stavano schiacciato?
Per quanto nichilista, ora si sentiva rassicurato. Aveva trovato una spiegazione sebbene vacua, ma quella vacua spiegazione non bastava per fare alzare Kurt dal lettino, farlo camminare verso di lui, stringerlo nelle sue braccia e dirgli che starà bene, che tutto andrà per il verso giusto.
Ogni motivazione, spiegazione, senso, principio non è sufficiente per salvarci dalla morte, o semplicemente, per accettarla.
 
*****
 
Per quanto era assoggettato dal dolore, Kurt era ancora quasi cosciente; si trovava in uno stato di semicoscienza, come ci si trova prima di dormire, in cui i pensieri, le suggestioni del momento, che a breve prenderanno una consistenza più “nitida” ma onirica, volano, si aggrappano tra di loro, si intersecano, traballano danzanti sul filo della mente, cercando ancora di voler trovare all’altro capo di quel sottilissimo filo una sorta di lucidità, che man mano ci si assopisce viene meno.
Perciò sentiva le parole degli infermieri e dei medici attorno a lui, non indistintamente certo, ma il suo cervello riusciva ad accalappiare quelle parole, le intrappolava in una rete celebrale e, visto che era ridotto in semicoscienza, combatteva affinché non gli sfuggissero, mentre esse provavano a svincolarsi e fuggire via per svanire poi nell’aria; dopo una volta esauste, arresesi a quella cattura, le elaborava una a una ordinatamente per conferirgli un senso compiuto.
Certo era un processo più lungo del normale, ma ugualmente efficace.
Per questo quando Kurt intuì la parola “ecografia”, sentì immediatamente un liquido freddo sulla sua pancia e un oggetto con l’estremità sferica muoversi abilmente alla ricerca di qualcosa.
Chissà perché stanno facendo un’ecografia, si interrogò. Forse cercano un blocco intestinale, si rispose, ma proprio nel momento che formulò quella risposta, sentì una specie di ticchettio.
Poteva essere un orologio? Sì, ma dove proveniva?
Aveva un orologio nella pancia? Era questo che causava il blocco intestinale? Era nel cibo cinese? Doveva essere nei noodles, ne era certo. Non c’è da fidarsi di nessun ristorante asiatico. Lo aveva detto a Blaine che dovevano mangiare solo in quelli recensiti da suoi alcuni amici di alcuni suoi colleghi di Vogue. D’altronde la signora che prendeva le ordinazioni non era neanche asiatica, magari i cuochi avevano capito che Kurt volesse dei noodles alla salsa di orologio funzionante. O forse era caduto al fattorino del ristorante nel mentre che li ispezionava -ma perché si ispezionano? Che schifo, pensò-.
Un orologio mi sta causando un blocco intestinale, sicuramente sarà così, rimuginò.
Ma dopo si ricordò che ancora il fattorino non era arrivato e quindi che lui non aveva mangiato niente.
Dunque non era un blocco intestinale, non aveva ingerito un orologio, anche perché quel ticchettio non era meccanico e sordo come quello di un orologio.
Scartò quest’ipotesi e cominciò a considerarne un’altra, cioè che quello non era un ticchettio, ma un battito, il battito di un cuore.
A dargliene conferma fu la tipologia di suono: profondo, umano, regolare ma non freddo.
Ovviamente pensò che il cuore in questione doveva essere per forza di cose -era lui il paziente- il suo. Di chi altro poteva essere?
Ciononostante quel battito era lento e pesante, forte e deciso, narrava qualcosa di disperato e angosciante, ma allo stesso tempo carico di vita, traboccante di energia, gli sembrava che sorridesse –come fa un battito a sorridere?- esattamente l’opposto di come si sentiva lui.
Ma se non era il suo di chi altro poteva essere?
E poi gli stavano esaminando la pancia, il cuore, da quel che ricordava dalle videocassette di “Esplorando il corpo umano” era nella gabbia toracica, dunque un po’ più su.
Allora di chi era?
Qual era l’unica condizione necessaria per cui potesse avere un cuore nella pancia?

No.
No.
Non poteva essere.
 
Non fece neanche in tempo di vagliare quella spaventosa e impossibile supposizione che udì « Sala parto, cesareo d’urgenza!” e dei numeri; al tre quella semicoscienza era svanita e lui era piombato in un sonno profondo, il più profondo di cui avesse mai avuto memoria.
 
*****
 
 
Dopo essersi tormentato e aver tormentato qualunque infermiera fosse presente, Blaine si acquietò, più o meno, guardando la porta della sala emergenze con due valenze che per quanto opposte si mescolavano: ci vide la salvezza, la salvezza della conoscenza-sapere come sta e cosa avesse Kurt- e dall’altra la sua probabile e conseguente dannazione –nel caso non stesse bene-. Per questo si acquietò per la salvezza e per questo aveva ancora l’intenzione ancestrale e autoconservatrice di chiedere ancora notizie sul suo ragazzo, per non essere provvisto davanti alla dannazione.
In mezzo a questa ambivalenza tra dannazione e salvezza, si muovevano come rami che ondeggiavano prima a destra e poi a sinistra, mossi dal vento tutti i suoi gesti: il tremolio della sua gamba destra, il fatto che si stesse mangiando le unghie, l’assenza di gel e la successiva increspatura dei suoi capelli. Quell’ambivalenza lo aveva reso un casino e non solo al livello emotivo: il suo aspetto era diventato specchio del suo conflitto interiore.
Eppure sembrava non fregagliene niente; se fosse stato in quello in un giorno comune, sarebbe sicuramente corso a casa e avrebbe fatto ricorso alle sue doti da “stylist prima&dopo” .
Quando sembrò quasi ridere del suo aspetto e della situazione, bisogna capire che quella risata abortita era il segno che a breve sarebbe crollando psicologicamente, che era sul bivio della pazzia, che aveva bisogno che la sua ambivalenza fosse sciolta, che la sua dannazione o salvezza si trasformassero in sollievo, un dottore si stava avvicinando con passo rapido ma calmo a lui.
 
« Lei è un parente stretto? »
 
« Sono il suo fidanzato. » Se Kurt l’avesse sentito avrebbe chiesto: « E allora dove l’anello di due carati? » (*)
 
E lo fissò con uno sguardo che parlava da sé, che sussurrava disperatamente il fatto che era l’unica persona che aveva a NY, che entrambi erano soli senza l’altro, ma che insieme erano tutto, tutto ciò che fosse sufficiente per sopravvivere, per vivere. 
 
Il dottore capì quello sguardo disperato, capì la loro condizione e senza abbattere ciglio, di un fiato sbottò: «  è in sala parto, ha appena partorito una femmina. Sapeva che fosse incinto? Sapeva che fosse intersessuale? »
 
La mente di Blaine in quell’istante andò in tilt. Annuì debolmente ma non con piena cognizione.
 
« Sa di che mese era? »
 
Scosse la testa, abbassandolo verso il basso, spiegando leggermente la bocca.
 
Il dottore si rese conto che era completamente ignaro della vicenda e forse lo era anche l’altro ragazzo. Per quanto fosse suo obbligo andare a fondo, non si sentì di vessare con altre domande quel povero ragazzo, così ridotto.
Si rese conto del suo attonimento -quanti anni poteva avere 20 al massimo?-della sua precedente angoscia, della sua solitudine e del suo precario stato mentale.
Non sapeva bene cosa fare, ma gli sembrò consono o almeno professionale fargli un’ultima domanda, di cui si servì solamente per alleviare –forse- i dilemmi di quel ragazzo.
 
« È lei il padre della bambina? –non gli diede anche tempo per rispondere che aggiunse- l’infermiera la condurrà in neonatologia. »
 
E mentre le sue gambe seguivano quelle di un’infermiera afroamericana in soprappeso, il suo cervello cominciò a tornare in sesto: i mille pensieri che aveva creato prima e che in precedenza erano talmente tanti da confondersi, da litigare tra di loro, da annullarsi a vicenda, creando così talmente tanto disordine che il processo per elaborarli diventava pressoché inefficace.
Adesso li sentiva passare dal setaccio celebrale uno per uno e il primo che si palesò, che fu convalidato e innalzato a pensiero di senso compiuto fu: « Sono padre. »
 « È lei il padre? »  « Sì. »
Ora era padre. Padre di una bambina.
Come poteva essere possibile?
Da un ventenne spensierato studente si ritrovava essere padre con un’altra persona a carico.
Le varie opzioni d’azione si agitarono nel cervello.
Eppure tutte avevano un comune denominatore: lui voleva più di ogni altra cosa essere padre.
Ma non ora?
Forse no. Ma d’altro canto si chiese chi siamo noi per poter decidere il quando e il come. Aveva sognato di fidanzarsi con un ragazzo alto, biondo platino dagli occhi marroni come la terra bagnata, più grande di lui di almeno 5 anni e invece si era innamorato di un castano chiaro dai riflessi biondi con due occhi di ghiaccio, almeno era sì più grande (non di due anni) e più alto(non che ci volesse tanto). Aveva desiderato da piccolo diventare uno dei medici più affermati dell’Ohio, prima di capire che la musica per lui non era solo un hobby o solo una passione, ma la missione della sua vita.
Allora si inquisì ulteriormente sulla vita, sulle relative aspettative e suoi sogni e capì che tutto ciò che ci viene costruito attorno, che l’amore, l’avere una famiglia fedele, un lavoro perfetto, non sono step obbligatori, da adempire, ma puri avvenimenti, casuali per giunta.
Capì inoltre che tutte le aspettative che si ergono a preservare e conservare ogni singola idea di quegli step sono puramente e candidamente effimeri, inconsistenti, che sono pressoché inutili e che non proteggono quell’idea, bensì con lo scorrere del tempo, ingigantendosi possono soffocare e far perire non solo quell’idea, ma qualcosa di più sacro e unico, ancorato nella parte più intima della coscienza: la loro essenza. Eppure non era questo che lo scarto.
Quell’essenza così insostituibile, una volta appassita, non ricrescerà più, cosicché quando quegli step, qualora dovessero accadere, non verranno più riconosciuti come tali, verranno invece ignorati e distrutti senza neppure rendersene conto più di tanto, sacrificato inconsciamente a un idolo nichilista.
Ecco perché la gente perde fiducia nella vita perché dà fiducia e non mantiene, incanta e distrugge, perché toglie e non dà e se dà lo fa al momento in cui non siamo pronti.
Ma quant’arroganza, quante pretese, quante finzioni e chi poi ne farà conti?
È davvero così?
La vita non promette niente, non dà niente e non toglie niente, non elargisce e non ci deruba, perché non si decanta da sola, è ciò che ci aspettiamo da lei che ci lusinga, che ci illude e ci fa fantasticare; poi chi incolpiamo? Le nostre illusioni, noi stessi, seducenti millantatori e decantatori e della vita o lei stessa nel suo essere più profondo, nella sua essenza più radicata?
Eccolo lo scarto.
Blaine non sarebbe così arrogante da puntarle il dito e accusarla: « Oh vita, la bambina l’avrei desiderata verso i trentanni con una carriera già avviata e un matrimonio di fiamma, riprenditela per ora, grazie lo stesso!”
 
Eccola tutt’alterigia e la presunzione della gente, eccolo il mondo piagnucolare e fare i capricci, esigere doni che non merita, che non riconosce come tali e che infetterà del proprio egoismo.
Ecco il mondo di cui lui è stufo, il mondo che lo disgusta, il mondo del senza grazie, il mondo dei sorrisi di facciata, il mondo dei saluti e delle vacue conversazioni di circostanza, il mondo degli sguardi accusatori e giudicatori, il mondo falso e ipocrita, il mondo che uccide e che si nasconde dietro se stesso per non incolparsi.
No, lui non sarebbe stato così. Lui non avrebbe alimentato quel mondo; lui non avrebbe ucciso la vita. 
Lui l’avrebbe abbracciata e l’avrebbe detto sotto voce all’orecchio: « Grazie. »
E quando arrivò a destinazione e tra il vetro gli indicarono la bambina, dicendo che dopo alcuni  controlli di routine, pareva in perfetta salute, l’avrebbe potuto prenderla in braccio, fu sempre più sicuro di quel “grazie” e avrebbe aggiunto ora: « grazie…di tutto. »
 
******
 
Dopo una notte e pure parte del giorno successivo Kurt sentì venire meno quel torpore che lo costringeva inconsciamente a dormire. Quando aprì agli occhi trovò accanto a sé Blaine, arrotolato ad una coperta-chissà dove l’ha presa, si chiese- disteso scompostamente su una poltrona piuttosto scomoda a giudicare dalla sua posizione.
Stava dormendo profondamente. Immaginava che avesse passato una notte d’inferno; non volle svegliarlo.
Guardando attorno a sé, si rese conto che era attaccato a mille tubicini e, appena sentì un bip che rompeva imperioso quel silenzio, la sua mente andò a ripescare come un oggetto smarrito di cui ignora l’esistenza, un altro bip riconducibile ad un battito.
Si agitò un attimo; cercando di calmarsi però, vide che al suo polso era attaccato un bracciale con un numero.
Non seppe come fece a ricollegare tutto, ma si agitò ancora di più perché capì che quelle ipotesi fatte la sera precedente non erano semplici fantasticherie da verificare: erano la realtà già accaduta.
Non c’era più niente di cui accertarsi, niente da confutare o da scongiurare: lui aveva partorito.
Prese con fretta e furia il pulsante per chiamare l’infermiera e si meravigliò del fatto che non fece rumore nella stanza, così almeno il sonno di Blaine fu preservato.
Benché tutte quelle accortezze, quando l’infermiera entrò con un sonoro buon pomeriggio, Blaine scattò dalla sedia ridestato dal suo sonno e in questo modo la delicatezza di Kurt fu totalmente spezzate da quel rumoroso saluto, totalmente vituperata.
 
« Ops…credevo fosse sveglio. »
 
Gli occhi del moro non appena vide la sua corrispettiva metà sveglia, si illuminarono di tenerezza, di stupore, di serenità.
Gli strinse la mano e disse con un pianissimo tono di voce–decisamente strano per acut!Blaine-
 
« Di ricordi qualcosa di ieri sera? »


Kurt annuì, serrando la bocca in un’espressione ermeneutica. 
 
« Hai…-esitò un instante- partorito. Una bambina. Non puoi alzarti a causa del cesareo, ma se lo desideri ti porteranno qua la bambina. È in perfetta salute. » Si voltò verso l’infermiera per avere il suo consenso, che ebbe tramite un cenno deciso della testa.
 
Kurt si limitò ad annuire una seconda volta con un’espressione ancora più ermeneutica di prima. Non si capiva che se era contento di vedere la figlia, se la volesse vedere per poi non volerla mai più, se non volesse nemmeno toccarla o prendere in braccia.
Per quanto Blaine conoscesse bene, non avrebbe saputo prevedere la sua futura reazione: c’è sempre quel margine d’incomunicabilità, inaccessibile a chiunque, quello scrigno nascosto di cui solo noi stessi abbiamo la chiave e che nessun passpourt creato da altri ad hoc per le aprire i nostri canali comunicativi può far scattare la serratura.
Quello ero lo scrigno di Kurt; l’imponderabile si stava presentato agli occhi di Blaine e di certo non era per lui qualcosa a cui era abituato.
 
Eppure neanche Kurt sapeva cosa fare, forse quell’imponderabile lo era anche per lui stesso, quello scrigno che stava man mano aprendo, non sapeva neanche lui cosa contenesse.
Appena l’infermiera andò a prendere la bambina, Kurt fu assalito senza resistere da un forte complesso di colpa che si stava ergendo su di lui.
Se solo avesse saputo che era incinto, non si sarebbe comportato così: non avrebbe bevuto, non si sarebbe affaticato, avrebbe fatto visite regolari e avrebbe preso tutte le vitamine prenatali.
Ma lui lo ignorava.
Che stupido, che sciocco.
Si sentì quasi come un assassino.
Se non fosse stata in saluta, se fosse stata mal sviluppata a causa sua?
“A causa sua” perché la colpa sarebbe stata sua, non della natura, non di un’entità astratta e maligna o di un caso distratto e punitore. Sua. Solo sua.
Eccolo il senso di colpa, ecco la beffa: lui ha dato la vita a quella creatura eppure avrebbe potuto al contempo ucciderla. Questo potere incontrollato, quest’immane responsabilità oscillante tra la vita e la morte, una responsabilità che non volere mai avuto, lo schiacciava nella sfilza di innumerevoli possibilità, che proprio perché infinite, sentiva una a una sulle sue spalle, percepiva il peso di una vita umana, delle strade che avrebbe percorso, delle scelte che avrebbe fatto, delle responsabilità che a sua volta avrebbe avuto; percepì dentro di sé tutto il destino umano e si sentì quasi una parca che con i suoi comportamenti avrebbe potuto tagliare un filo di quel destino con una facilità che lo fece quasi inorridire. Alzò un po’ il busto dal letto. 
La facilità con cui poteva uccidere un’innocente, che al tempo aveva plasmato, lo disarmò d’ogni corazza, di ogni margine di incomunicabilità che aveva in quel momento col mondo e volle piangere, a dirotto, finché le sue lacrime, solidificate per il freddo delle sue azioni, avrebbe risanato. quel filo.
Però si ricordò che quel filo era ancora saldo; per fortuna le sue forbici, le sue azioni sconsiderate, non l’avevano tagliato con efferatezza. Il senso di colpa d’altro canto non era comparso, anzi si era ingigantito.
Si interrogò sulla facilità e sulla superficialità del comportamento umano, che incessantemente ondeggia tra vita e morte e di come ognuno ignora questo ondeggiare, anzi ne ignori solo un capo: la morte. 
Che stupido che sono stato.
Ma la stupidità era forse un’attenuante o un aggravante? Non lo sapeva in assoluto, ma nel suo caso lo percepiva come un aggravante.
Che sciocco sono stato, ho giocato con la vita umana, che infantile.
Allora subito il suo pensiero si collocò su un altro piano parallelo: come posso crescere un bambino se io stesso sono così superficiale e stupido?
Ciononostante all’idea che quella bambina fosse qualcosa che lui aveva creato, a cui aveva dato la vita(seppure tutto senza intenzione o cura), mutò lo stato della sua aggravante, facendo diventare la sua stupidità, ignoranza, la sua superficialità delle attenuanti al fatto di crescere un bambino.
Come poteva essere possibile?
Semplice non gli interessavano più: a quella colpa non c’era più collegato una condanna, ma un dono; quello con cui si martoriava così duramente era germogliato in qualcosa di positivo: la gratitudine per un qualcosa che non aveva né curato, né aspettavo, né desiderato.
E quando vide l’infermiera con la bambina in braccio, Blaine che non sapeva dove guardare -sempre con la mano stretta alla sua- con gli occhi lucidi, si sentì morire e rinascere in un mondo dove erano solo lui, Blaine e la loro figlia, Claire.
Sì, si chiamerà Claire, ne fu certo solamente nell’instante in cui fece un sorriso che fece illuminare quel mondo, dove erano solo loro.
Perché ora quella bambina sarebbe stata tutto il suo universo, che sembrava contenere perfettamente all’interno dei propri enormi occhi.
 
*****
 
A contrario dei protagonisti della vicenda, a cui il sentimento di stupore non era stato concesso o anzi meglio era stato sopraffatto da sentimenti più soverchianti, tutti rimasero di stucco a quella notizia.
La leggenda vuole che Burt appena seppe la notizia, perse i sensi per tre minuti abbondanti. Prese il primo volo per NYC-era a Washington per questioni di lavoro- e si precipitò all’ospedale, il giorno successivo alla nascita di Claire.
Sebbene si fosse preparato mille sermoni parecchio intimidatori per il figlio e avesse una vaga -poi non tanto- di castrare il suo futuro genero, quando arrivò all’ospedale, anzi quando vide Kurt con la bambina, si sciolse come neve al sole, recitando al posto dei sermoni delle vocine piuttosto ridicole che si fanno di solito ai bambini.
Il giorno successivo arrivarono Finn e Rachel con la compagnia Mercedes, anche loro stupiti da quell’improvvisa nascita. La cosa invece che sorprese Kurt fu l’alchimia tra la bambina e Finn: ogni volta che Rachel la prendeva in braccio, Claire piangeva come se fosse stata cullata anzi torturata a uno strumento medievale, mentre si calmava di botto nelle grandi braccia di Finn.
 
E’ sveglia: ha già capito le personalità di tutti, ha già capito che befana è quella.” Commentò divertita Mercedes.
 
« Ti ho sentita Mercedes! » sputò indispettita Rachel.
 
Il giorno dopo di sera uscirono dall’ospedale. Credevano di non avere niente per il bambino, ma in quel giorno Rachel e Carole con il finanziamento di Burt e i genitori di Blaine, si intende, comprano tutto ciò che sarebbe servito a un bambino.
 
Rachel ritenne più opportuno trasferirsi di sotto in un appartamento più piccolo che si era liberato, dove Finn stava due giorni no e cinque sì. Disse che delle braccia in più avrebbe aiutato il nuovo entourage familiare e che Claire lo adorava e lui adorava lei.
Inoltre Blaine una settimana dopo che a Kurt fu tolta la medicazione e parte dei punti, cominciò a organizzare qualcosa di strano. Fu abbastanza misterioso: faceva i turni di notte con Claire –odiava farlo, per questo Kurt si stranì-, era sempre al telefono e faceva scale vocali nel mentre puliva i pavimenti.
 
Una mattina Kurt trovò dei biglietti per Lima. Facendo finta di non averli visti, salutò Blaine che si era appena alzato, il quale gli chiese se volesse andare a Lima per mostrargli una cosa.
 
« E la bambina? A New York hanno tutto. Non puoi mostrarmela qui? »
 
Rispose che sarebbe stato solo un giorno e che la bambina sarebbe con Carole, Finn.
Sebbene fosse perplesso, accettò con qualche riserva, visto l’insistenza di Blaine.
Non si sarebbe mai aspettato che Blaine aveva organizzato con dovizia di particolari una proposta di matrimonio in piena regola alla Dalton: serenata e anello da due carati e mezzo. 
 
« Ci siamo incontrati proprio qui per la prima volta. Ho preso la mano di questo uomo e abbiamo corso per quel corridoio. Tutti quelli che mi conoscono bene sanno che non ho l’abitudine di prendere per mano le persone che ho appena incontrato, ma penso che la mia anima sapesse qualcosa che la mia mente e il mio corpo non sapevano ancora. Sapeva che le nostre mani erano destinate ad intrecciarsi e stringersi a vicenda, senza paura e per sempre. Per questo non ti ho mai percepito come se ti conoscessi da sempre. Era, anzi, come se mi ricordassi tutto di te per un qualcosa di anteriore. Come se in ogni vita che abbiamo vissuto, avessimo scelto di tornare indietro e di ritrovarci e di innamoraci di nuovo, ancora e ancora, per tutta l’eternità. Mi sento davvero così fortunato ad averti trovato così presto in questa vita perché tutto ciò che voglio fare e che ho voluto fare è trascorrere la mia vita amandoti. Kurt Hummel, mio meraviglioso amico, mio unico vero amore, vuoi sposarmi? »
 
A quelle parole -ma anche all’anello di Tiffany- Kurt abbozzò solo un tenero ma deciso sì. La vita della novella coppia di sposi- si sposarono a maggio- trascorreva tranquilla, con qualche sprazzo di isterismo e incomprensione, a cui d’altra parte l’affetto era in grado di porre subito rimedio. In quel micromondo stavano creando man mano sempre più tradizioni, le quali ognuno di loro rispettava devotamente perché ora avevano qualcuno a cui consegnarle per non farle morire mai: una figlia, che anche lei avrebbe tramandato di generazione in generazione. Cosicché l'amore di Kurt e Blaine, divenuto tradizione e leggenda, sarebbe rimasto imperituro nel tempo.
 
 
 FINE
 
 
 
 
 
L’antro dell’autore
 
Volevo solo chiarire qualche passaggio e mi dileguo. Essendo una "What’s if " in piena regola, i Klaine non si sono mai lasciati, la 4x04 non è mai esistita per nessuna delle coppie. Inoltre ho voluto, a mio modo, rendere un omaggio al personaggio di Finn in onore di Cory. Gli ho dato un happy ending, ciò che meritava indipendentemente dalla sua scomparsa prematura.
Il nome della bambina ha un significato, so bene che le figlie dei Klaine si chiameranno Tracy e Hepburn lol 
Non ho inventato nessun termine medico, a parte il nome della patologia di Kurt: gli ormoni citati esistono veramente, ringrazio Real time per la mia formazione medica <3 lol
 
Adieu!
 
(*) In inglese c’è differenza tra “fiancé” e “boyfriend”. In teoria “fiancé” sottintende un fidanzamento nella propria originale semantica, cioè finalizzato al matrimonio. Non so perché, ma in italiano parlato facciamo davvero un uso improprio della parola "fidanzato/a", anzi lo immagino e rabbridisco. Ecco qua Blaine usa proprio questo termine, sebbene a Kurt non abbia chiesto ancora di sposarlo.
   
 
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