Storie originali > Favola
Ricorda la storia  |      
Autore: DonnaInRosso    26/08/2014    1 recensioni
Una paura nata da un trauma infantile e l'incontro con un mondo magico.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



Non ho mai avuto una paura dell’altezza. Non una vera è propria paura paralizzante, almeno, come quando ti pietrifichi al centro esatto della strada mentre i due enormi occhi di un tir ti stanno per trapassare il petto, ma piuttosto come un fremito continuo che parte dal fondoschiena e si arrampica fin su alla base del collo, e tu lo senti scivolare nelle ossa, sempre più in profondità fin nelle viscere. Affrontare la gravità mi dava uno strano senso di nausea e vertigini che scalpitava nelle vene e mi spingeva a sfidare ancor più il cielo.
Da piccola mi arrampicavo dappertutto. Mi piaceva vedere il mondo da un punto di vista molto più alto del mio. La prospettiva che si ha del mondo a sette anni è ben diversa da quella dell’occhio velato dell’età adulta. Ricordo che la mamma mi faceva sempre una bella lavata di capo prima di mandarmi dritta di filato a letto, mentre di notte sgattaiolava in punta di piedi fino al mio letto e mi baciava teneramente la fronte. Io trattenevo il respiro e restavo immobile, ma quando la mamma richiudeva adagio la porta di camera alle sua spalle, prendevo a strofinare la fronte forsennatamente, cancellando quel segno d’affetto dato così celatamente.
Papà invece era come me, un eterno bambino, narratore di mille imprese epiche e fantasioso avventuriere. Amava viaggiare e vedere posti nuovi, e quando tornava da uno dei suoi strambi viaggi, mi portava sempre un oggetto bizzarro e decolorato e prendeva a raccontare di quanti colori diversi possono essere le piume di un pappagallo arlecchino o del fascino delle mille lanterne volanti che si alzano alte nel cielo il 15 gennaio, per la festa della Primavera, in Cina.
Mi ha insegnato a “saper cadere” dagli alberi, che nella vita non bisogna mai guardarsi indietro e anche che “un bicchiere di vino fa sangue, ma due fan girar la testa”.
Ho amato l’altezza e il brivido che se ne ricava giusto il tempo della mia tenera fanciullezza. Poi un giorno tutto è cambiato.
Ricordo l’aeroporto e ricordo la paura che mi montò nel petto quando sentii i motori dell’aereo avviarsi. La mamma mi strinse forte e si raccomandò con la nonna che non facessi stupidaggini e che mangiassi tanta frutta. Papà mi diede un buffetto sulla guancia e mi fece segno di non piangere, che sarebbero tornati presto e questa volta mi avrebbe portato in dono un bell’aquilone. “Prometto che per il prossimo viaggio a scegliere la meta sarai tu e partiremo tutti insieme.”
Due giorni dopo qualcuno con l’aria affranta ma composta ha bussato alla nostra porta e ci ha portato i loro oggetti personali. Avevo dieci anni, una nonna addolorata per famiglia, una scatola di ciarpame dove era rinchiuso il mio passato e due bare di noce sulle quali disperarmi.
Ho passato i restanti sette lunghissimi anni in una casa vuota, con un essere fatto di tristezza e pezzi di ossa e cartilagine tenuti insieme con vesti di cotone nero, che di notte guaiva i suoi lamenti come uno spirito in pena. Mi sentivo come una grande ranocchia in uno stagno troppo piccolo, avevo bisogno di spazio in cui perdermi, un posto dove dimenticare e ricominciare.
Così nel giorno del mio diciassettesimo non-più-compleanno ho fatto fagotto e sono salita su un bus diretto a Las Vegas, in Nevada.
Non mi sono più voltata indietro papà, e mamma non mangio frutta più di una volta a settimana. Gli alberi sono diventati solo la dimora degli uccelli in primavera e un buon riparo dal sole in estate.
 
 
Sei mesi dopo …
Il Terrace Pointe café serve le migliori crȇpes della Strip, ma la lobster benedict è certamente la specialità del posto. Uova sode, un grosso pezzo di aragosta, patate, cremosa salsa olandese e strisce di bacon che la rendono la colazione, qui a L.A.
Non so bene perché abbia scelto proprio Las Vegas come punto di partenza per la mia nuova vita; presto la città può stancare, sia per la sua natura un po’ esagerata e innaturale, sia per il caldo e il continuo rimbombo sonoro e visivo a cui si viene sottoposti, ma proprio quelle luci rendono le notti meno cupe e il gran vociare della gente mi fa sentire meno sola. Ingranare non è stato facile, ma poi ti ci abitui.
La giornata tipo consiste nel fare colazione con cibo spazzatura di vario genere, passeggiare sulla Las Vegas Boulevard fino ad arrivare al Rainstorm and Fountains per lo spettacolo delle undici, crogiolarsi nel giardino botanico al Bellagio, e scalpitare febbricitante in attesa della vera attrazione serale: il Circus Circus Las Vegas.
 
Il tendone stabile mostra tutta la sua imponenza e al suo interno racchiude un mondo magico. Puoi vedere e credere che la magia esiste. Aggraziate figure si librano in volo con una leggiadria tale da lasciarti senza fiato. Puoi dimenticare i tuoi dispiaceri e lasciarti attraversare da una gag comica, dal naso rosso di un clown scalmanato, rinunciare alle leggi della fisica newtoniana e contemplare come la forza può anche essere bellezza e sincizio.
La prima volta che misi piede in quel luogo oltre il tempo, ciò che mi colpì dritta al cuore fu la figura dell’equilibrista.
L'equilibrista è una persona che ha completamente fiducia in se stesso. O è così, oppure è un folle. Affronta la vita sospeso in aria senza punti di appoggio salvo la sua stabilità interna. Percorre piccoli passi, adagio, cercando in ognuno di questi la certezza e la chiarezza dei movimenti. Egli sente il vuoto intorno a sé, ma questo non lo scalfisce, anzi, lo spinge ad andare avanti. Mai può voltarsi indietro perché perderebbe l'equilibrio e cadrebbe. Può solo volgere il suo sguardo davanti a sé, verso la propria meta. Lì potrà esser cosciente di avere affrontato se stesso, la vita e di esserne uscito vincitore. Abbraccia la sua fune che, come la vita stessa, è la sua croce e la sua delizia.
Si chiamava Lucas. Attendevo con ansia la sua esibizione e restavo estasiata da quel mix di sicurezza e totale libertà. Nonostante fosse molto bravo nel suo lavoro, la sua certezza non arrivava mai ad illuminargli gli occhi, come se su quella corda sospesa a sessanta metri nel vuoto, ci fosse un automa e non un essere vulnerabile che sfida ogni volta la sorte e spinge sui propri limiti umani. Mai un sorriso si apriva sul suo volto una volta raggiunta la solida base all’altro capo del filo, mai un tentennamento o anche solo un pizzico di paura. Lucas, salito in alto nel cielo, stupiva il pubblico con la sua performance e poi spariva dietro i lunghi drappi scarlatti del Circus. Una sera decisi di voler attraversare quel sipario, spinta da una curiosità crescente che mi montava nel petto da mesi e approfittando dell’ambiente soffuso e dell’aiuto – sebbene involontario – di Louisa, la contorsionista, che attirava tutti gli sguardi su di sé, sgattaiolai dietro le quinte del grande Circo.
Costumi di scena paillettati, orlati di lustrini e veli, pendevano da ogni dove; ballerine seminude correvano su e giù in cerca di un copricapo piumato o per un ultimo ritocco al trucco. Alfonse il domatore di leoni, era intento ad incollarsi dei baffi finti arricciati all’insù e Sidone la donna cannone era in un angolo a mangiar pasticcini. Dal fondo emerse Rocco, con la faccia dipinta per metà e una cascata di riccioli arancioni in una mano, gridando “qualcuno ha visto il mio naso rosso e la bombetta?” Ero così presa da quel vortice chiassoso che non notai subito l’assenza di Lucas. Fu lui infatti a notare me.
« Ehi, chi sei tu? Non puoi stare qui, è riservato agli artisti. »  era comparso dal nulla proprio alle mie spalle cogliendomi in fallo. Cosi mi affrettai a dire: « Sono nuova. Sostituisco quella infortunata. » Pregai che ci fosse davvero qualcuno infortunato.
« Ah sei il rimpiazzo di Sheila. Vieni con me ti faccio vedere dove puoi allenarti. »
Seguii Lucas in un tendone adiacente ai camerini e ci ritrovammo in una specie di palestra mal assortita e ripostiglio per gli attrezzi di scena.
« Qui è dove ci alleniamo. Tutti i giorni, per almeno otto ore. E lì – e con un ampio gesto del braccio indicò il punto più distante del tendone – c’è il tuo attrezzo: il trapezio. »
Il sangue mi si raggelò nelle vene. Avevo evitato di affrontare quella che un tempo era la mia più grande passione per così tanto tempo, e adesso la vita mi riproponeva un doloroso tuffo nel passato. Nel mio petto sentii un peso opprimente, quasi asfissiante, che interpretai subito come panico.
« Avanti, prova. »
Con il cuore che batteva all’impazzata mi arrampicai su per la scaletta di metallo e quando fui in cima usai tutta la forza che mi era rimasta per ricacciare nelle viscere un conato di vomito. Afferrai l’asta di metallo che mi penzolava di fronte e rimasi immobile per un tempo che mi parve infinito.
«  Come hai detto che ti chiami? »
La sua voce mi riportò alla realtà e risposi con un secondo di ritardo: « Non l’ho detto! »  Abbassai lo sguardo, era un mezzo sorriso quello?
Inavvertitamente mi sporsi in avanti e la base su cui poggiavo sparì facendomi perdere l’equilibrio. Strinsi forte l’asta di metallo e mi librai nell’aria per la lunghezza di un semicerchio invisibile, poi la presa cedette e mi ritrovai a cadere nel vuoto.
“ Rilassa il corpo, piega le ginocchia e proteggi la testa.”
In un attimo ci fu solo la voce di mio padre, poi la rete di protezione e infine il buio.
 
 
I tre giorni seguenti furono catastrofici. Arrivò davvero una sostituta per Sheila la trapezista e io dovetti dire la verità a Lucas. Sorprendentemente però non sembrò sorpreso “l’avevo capito subito che non eri del mestiere”, anzi mi disse che potevo continuare a venire al circo ad allenarmi. E così feci.
« Non hai paura, ma qualcosa ti blocca. » Le sue mani mi cingevano i fianchi « Dobbiamo solo allentare i bulloni che ti inchiodano a terra. Poi sarai libera di volare. » Uno, due e tre… SU!
« OK ci sono, l’ho presa. »
« Bene adesso ti lascio, fai forza sulle braccia e cerca di tirarti su. Così brava. » Ci allenavamo tutti i giorni dopo la pausa pranzo, quando tutti andavano a godersi il sole cocente e noi grondavamo sudore all’ombra del grande tendone giallo e rosso. Lucas era davvero bravo nel ruolo del maestro e migliorava anche come oratore. La sua eterna espressione di cupa tristezza però sembrava non abbandonarlo mai, come un perenne velo invisibile a scurire gli occhi. Dopo il trapezio, c’erano le clave, un po’ di contorsioni per allentare la tensione muscolare, due barzellette in compagnia di Rocco e poi il piano. A Lucas piaceva accarezzare quei tasti bianchi e neri da dove nascevano melodie sconosciute e malinconiche come le facce stanche di un comico o un Pierrot.
« Allora, qual è il tuo blocco mentale? Su, in alto, hai l’aria affranta, eppure non demordi e non hai paura dell’altezza. »
« Non è l’altezza il problema infatti. È ciò che evoca. » La sua testa era ancora china sul pianoforte.
« E tu invece? Perché sei triste? »
Lucas mi guardò dritto negli occhi e cominciò a canticchiare una filastrocca scanzonata:
Non si deve pensare al matrimonio
quando si è fatti per correre le strade:
aspettando di diventar saggi
accontentiamoci di amori senza domani.
«  Una delusione d’amore? »
Le donne sono dappertutto:
quando noi vedremo la fine del mondo
sarà il tempo di fermarsi.

« Se non è a causa di una donna allora chi? O cosa? Cosa intendi per “la fine del mondo”? »          
È il destino, mio vecchio compagno!
Mio vecchio compagno,
la terra è rotonda.

«  Il  destino. Il destino lo crei da te, nulla è già scritto. »
«  Sarà come dici. Ora torniamo a casa. »
 
La vita al circo correva frenetica, un allenamento dopo l’altro, uno spettacolo, la folla che acclama il bis, si spaventa, ride a crepapelle o lascia andare una lacrima. Ogni nuovo giorno si rilevava una nuova ed emozionante avventura, fatta di giochi e di magia, dietro cui affrontavo la mia battaglia personale e, senza saperlo, anche Lucas combatteva la sua.
Passarono i giorni, poi i mesi. Era ormai trascorso un anno da quando conobbi Lucas e avevo imparato ad amare il suo mondo. Sheila era ritornata in pista e mi aveva insegnato la sua arte, come tutti qui del resto.
Vivendo in quella realtà fuori dal mondo ho imparato ad apprezzare gli sforzi quotidiani, a leggere dietro le apparenze e a riflettere di più.
Ho visto la stanchezza impressa sul volto dei circensi, il duro lavoro dietro la performance perfetta, la forza di volontà, l’impegno e il cuore messo ogni ora passata sotto quell’enorme cielo a strisce dorate e amaranto. Ho rivissuto il dolore, sia fisico che emotivo, ho scoperto che i pagliacci sanno anche far piangere e che spesso s’indossa una maschera per poter andare avanti. Mi è apparso chiaro come la luce del sole, quanta sia la voglia di voler dimenticare la propria vita, guardando negli occhi gli spettatori sugli spalti, e quanto invece sia ancora innocente il sorriso di un bambino. Ho anche affrontato le mie paure e riscoperto l’amore, amore per quello che faccio, amore per la vita e per tutto ciò che concerne la vita, morte e dolore compresi.
Questo tendone è la mia casa, un piccolo mondo nell'immenso universo, una grande famiglia coi propri pregi, difetti, disavventure e passione. Ma tutte queste grandi verità mi sono giunte solo grazie a Lucas, un grande uomo a cui devo la mia resurrezione. Prima facevo solo finta di vivere, lasciandomi trascinare dalla folla, stando a pelo d’acqua. Grazie a lui ho superato il dolore, non dimenticandolo o rinchiudendolo nel punto più profondo della mia mente, ma portandolo in superficie, trasformandolo in amore, in bei ricordi e buoni compagni di viaggio. I miei demoni, visti alla luce del sole, non fanno poi così paura.
 
Alla fine anche la verità su Lucas è venuta alla luce. Due anni fa gli era stato diagnosticata una forma molto rara di tumore, purtroppo senza cura alcuna. Ci ha lasciato con un ultimo meraviglioso ricordo dell’uomo che è stato, del suo immenso coraggio e della sua straordinaria forza di volontà e attaccamento alla sua vita ch’era tutta racchiusa nel maestoso Circus Circus.
 
Due anni dopo…
Ed io? Beh io ho deciso di rimanere qui, accanto alle persone che meglio conosco, a questi freak un po’ stravaganti un po’ matti e tanto generosi. A loro, piccoli grandi ranocchietti sperduti come me io dico grazie. E grazie soprattutto a te Lucas, che non solo mi hai ridato la mia passione di bambina, ma per merito tuo ora sono anche diventata una funambola discreta che gioca a far la vanitosa sospesa nell’etere, a più di cinquanta metri  sopra il suolo. Di te mi rimangono tanti ricordi e preziosi insegnamenti di vita, ma anche una malinconica filastrocca scanzonata che mi scioglie ancora il cuore:
« Non si deve pensare al matrimonio
quando si è fatti per correre le strade:

- Un piede sulla fune…. -
aspettando di diventar saggi
accontentiamoci di amori senza domani. 
- Uno sguardo alla platea, poi dritto davanti a me -

È il destino, mio vecchio compagno!
Mio vecchio compagno,
- Destro, sinistro, sempre dritto, un piede dopo l’altro inseguo il mio obiettivo -

la terra è rotonda,
le donne sono dappertutto:
- Volteggia l’asta nel cielo, perdo l’equilibrio e faccio una giravolta -

quando noi vedremo la fine del mondo
sarà il tempo di fermarsi.

- Il pubblico trattiene il respiro, poi scoppia il boato di un applauso concitato -
ovunque, se si crede alla storia,
ovunque si può ridere e cantare
 ovunque si può amare e bere.

- Alzo il calice e brindo a te, amico mio -
A noi la libertà! »


  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Favola / Vai alla pagina dell'autore: DonnaInRosso