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Autore: _Kore    29/08/2014    2 recensioni
[Una storia di Agnes Dayle, Emily Alexandre e Lyra Winter]
Chi non conosce il mito di Persefone? In questa storia, però, non siamo nell'antica Grecia e non si parla nemmeno di Dei. In questo racconto siamo in una New York che attraversa tre epoche diverse: il 1920, il 1969 e il 2013. Persefone, poi, ha tre volti differenti: Maia, la beniamina delle serate alcoliche in barba al Proibizionismo; Merope, l'eterea pupilla estranea al mondo underground degli anni sessanta e Taigete, energica figlia pronta a guidare una grande società.
La loro esistenza, in quell'Olimpo che è stato creato da chi le ha precedute, sembra perfetta, ma basta un nulla perché il gelo dell'inverno faccia breccia in quella perenne estate. In effetti, basta un incontro: lui è Ade, che ha un unico scopo - sedurre Persefone e attrarla nel suo mondo - e tre arti differenti per realizzarlo: la pittura, la scrittura e la recitazione.
Né Ade né Persefone, però, hanno fatto i conti con la maledizione che grava sulla famiglia Core... Una maledizione antica come la famiglia, di cui l'unica traccia sono una collana di diamanti rossi e un diario.
Genere: Erotico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Storico
Capitoli:
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Atto

VI


 

 

 

1920

 


Tredici. Quattordici. Ventotto.
Aveva puntato trentacinque dollari su tre numeri e ne aveva appena vinti quattrocentoventi grazie al ventotto.
131428, il numero di identificazione del Titanic.
28 settembre, il giorno del funerale di suo padre, la prima volta che aveva incontrato Maia.
Lei era lì, ma non giocava, come invece era solita fare ogni volta che si ritrovavano davanti a un tappeto verde, puntando con la leggerezza di chi non ha nulla da perdere e tanto da guadagnare, senza pensare, solo sorridendo.
Dov'era quel sorriso, quella notte?
Da settimane ormai Maia sembrava come spenta, la luce che irradiava, quel sorriso che faceva sentire chiunque lo ricevesse importante e unico, era svanita lasciando il posto ad un pallore quasi mortale. Per la prima volta in molti anni, neppure fingeva che tutto andasse bene. Si era arresa.

 

Sarà colpa dell’imminente matrimonio, sussurravano i newyorkesi davanti alla loro beniamina che perdeva peso e lucentezza, che era sempre impeccabile e presente, ma che al tempo stesso sembrava mille miglia lontana da loro, da lì.Il nome di Hasmal non aveva mai sfiorato, in quel momento, quelle stesse labbra che prima ne avevano abusato, spettegolando sul loro rapporto, come se avessero ricordato solo in quel momento di chi stavano parlando. Hasmal era diventatocome Titanic, parole impronunciabili davanti a lei.

 

Sarà colpa dell’imminente matrimonio, sussurravano i newyorkesi davanti alla loro beniamina che perdeva peso e lucentezza, che era sempre impeccabile e presente, ma che al tempo stesso sembrava mille miglia lontana da loro, da lì.Il nome di Hasmal non aveva mai sfiorato, in quel momento, quelle stesse labbra che prima ne avevano abusato, spettegolando sul loro rapporto, come se avessero ricordato solo in quel momento di chi stavano parlando. Hasmal era diventatocome Titanic, parole impronunciabili davanti a lei.

 

Nathanael, però, sapeva perfettamente che non erano le nozze ciò che affliggeva Maia, e per la prima volta, testò la sensazione di essere un intruso nella sua stessa vita, perché se fino a quel momento era stato l’ancora della sua fidanzata, il porto sicuro in cui lei potesse tornare, letteralmente, in quel frangente sapeva di essere il problema, sapeva che Maia, che mai l’aveva fatto da quando era stato deciso il loro fidanzamento, si stava chiedendo se fosse la scelta giusta, se sposarlo l’avrebbe resa felice. Ed era una consapevolezza che lo faceva impazzire, perché renderla felice era l’unica cosa che per lui contasse davvero.
Aveva sempre accettato che Maia non l’avrebbe mai amato quanto era amata, ma gli sarebbe stata devota e sarebbe stato abbastanza, per lui.
Eppure Maia amava, e amava con uno struggimento drammatico che l’aveva resa, in pochissimo tempo, lo spettro di ciò che era, e la sua scelta -il suo essere rimasta a casa, al proprio posto- non era stata dettata dall’affetto per Nathanael, ma dalla paura dell’ignoto che Hasmal portava con sé.
Parte della colpa era sua, per essere stato così accecato dal desiderio di farla felice da non aver fermato quella follia sin dal principio, dal giorno del loro fidanzamento ufficiale: qualsiasi cosa fosse successa tra loro, anche se si fossero sposati e fossero vissuti insieme altri cinquant’anni, il ricordo di quei mesi non li avrebbe mai abbandonati del tutto e sarebbe rimasto lì, taciuto e mai dimenticato, fino alla fine.

 

-Nat, vorrei andare a casa.

 

Pochi secondi dopo si era rintanato nello studio, incapace di dormire e senza alcuna intenzione di auto commiserarsi rigirandosi nel letto, ma dopo un’ora l’istinto ebbe la meglio sul raziocinio, così entrò nell’altra camera da letto, dove Maia dormiva un sonno apparentemente quieto.
Sul comodino stava un diario dall’aspetto talmente consumato da non far dubitare neppure un istante che non fosse quello della sua fidanzata: gli bastò una rapida occhiata alla pagina in cui Maia aveva interrotto la lettura, per fargli comprendere che se Hasmal aveva interpretato un ruolo importante in quella frattura, quella ragazza, quella Pleis, ne aveva recitato uno ancora maggiore. Raccontava di una scelta che l’avrebbe perseguitata tutta la vita, di un amore abbandonato al peggiore dei destini per la promessa di un futuro apparentemente privo di dolore.
Era questo, lui, per Maia? Un futuro sicuro, privo di qualsiasi emozione, di gioie e dolori?

 

-Ho sbagliato tutto con te, vero?

 

 

 

-Non possiamo parlarne alla luce del giorno?

 

 

 

Non l’aveva mai sfiorata senza che lei non volesse, trattandola come un vaso di cristallo troppo prezioso anche solo per essere sfiorato, ma se la sua venerazione li aveva condotti a quel punto, probabilmente era stato un errore. Aveva sbagliato tutto con lei.

 

Scostò il lenzuolo e la fece alzare, fronteggiandola da suo pari e impedendole di fuggire.

 

 

 

-Cosa sta succedendo? Mi ignori per giorni, settimane, vengo a trovarti perché questa distanza mi sta facendo impazzire e tu mi allontani come il peggiore dei fidanzati, come se fossi venuto a reclamare a forza qualcosa! Potrei farlo, sai? Sarai mia moglie, Maia, e potrei chiederti in qualsiasi momento ciò che sarà comunque mio.

 

 

 

Parole velenose di cui si pentì nel momento stesso in cui le pronunciò, un istante troppo tardi per rimangiarle.

 

 

 

-Sarò tua moglie, Nathanael? Certo, avrò una fede al dito e tu potrai reclamare la mia verginità, ma la mia vita non cambierà affatto! Non vedi la follia nelle nostre scelte, non ti rendi conto di quanto siano ridicole? Sarò una donna sposata che continuerà a vivere nella casa di famiglia, con gli orari scanditi dai programmi di altre persone. Tu hai passato la vita ad accontentare me ed io a compiacere te. È ora di smetterla! Vuoi sapere cosa voglio? Voglio una casa da chiamare mia, una casa di cui sia la signora e padrona, in cui non sarò perennemente sorvegliata e giudicata da mia madre, in cui potrò organizzare cene e serate culturali, e accogliere gli artisti ed essere la loro mecenate. Tu hai la Demeter, Nathanael, sei la Demeter, ma io non ho nulla e sono stanca di essere la bambolina carina che tutti ammirano solo perché fa esattamente ciò che loro vogliono. Avevo mille sogni, prima. Avevo dei progetti.

 

 

 

Prima. Prima del Titanic. E in quel momento capì ciò che da tempo aveva iniziato a sospettare e dovette arrendersi alla dolorosa evidenza che Hasmal era arrivato dove lui mai aveva potuto.

 

-Non ti ho chiesto io di rinunciare, Maia. È questo quello che vuoi? Una casa tutta nostra?

 

-Voglio essere Maia, non solo l’erede della Demeter che, comunque, non sarà mai mia… E non mi interessa,- aggiunse fermando la sua replica, - Non la voglio, l’azienda di famiglia, con quel suo dannatissimo nome greco. Ma voglio avere la possibilità di crescere e di scegliere che tipo di donna diventerò.

 

 

 

Era stato facile esternare quei desideri, facile e doloroso e terribilmente liberatorio, perché Gabriel non avrebbe mai dovuto costringerla a rivivere quei ricordi, ma dopo averlo fatto lei sapeva che non sarebbe mai potuta tornare alla vita precedente, perché prima di imbarcarsi in quel maledetto viaggio, Maia aveva la mente piena di progetti per il suo futuro ed era stato facile dimenticarli, dopo, abbandonandosi ad un futuro privo di pericoli, ma era stato altrettanto facile ricordarli nel momento in cui qualcuno l’aveva costretta a farlo.

 

 

 

Si avvicinò a Nathanael, al suo porto sicuro: aveva accettato di diventare sua moglie, anni prima, non solo perché era ciò che tutti si aspettavano, ma anche perché in lui aveva visto un appoggio costante, un marito che avrebbe fatto qualsiasi cosa per la sua felicità. Il male che gli stava facendo, lui non lo meritava.

 

Ma proprio nel momento in cui pensava di poter ricominciare a ricostruire il rapporto con Nathanael, di poter plasmare un futuro nuovo, lui le pose un’ultima domanda.

 

 

 

-Ed è con me che desideri tutto questo? È me che vedi al tuo fianco?

 

 

 

E Maia non seppe cosa rispondere.

 

***

 

Un istante di silenzio. Due. La signora Calloway contò fino a trenta, poi prese atto del silenzio al di là della porta, dell’assenza di un rifiuto, segno che, quella sera, Gabriel non desiderava allontanarla per rimanere solo a commiserarsi.

 

La donna entrò lentamente nella stanza e si sentì soffocare, sopraffatta dalla puzza di vino e sigarette, di polvere e pittura, di buio, così denso che neppure la luce artificiale riusciva a diradare; il caos regnava sovrano tra quelle mura, il vassoio di cibo che gli aveva lasciato davanti la porta quella mattina giaceva appena spiluccato in un angolo, mentre numerose bottiglie di vino erano riverse ormai vuote sui mobili, macchiandoli di rosso, in una scomposta natura morta.

 

La donna ricordò il giorno in cui lui era tornato dalla guerra, piegato ma ancora non spezzato. E ricordò un momento ancora precedente, il giorno del funerale dei suoi genitori, morti nel modo più banale, investiti da un ubriaco mentre tornavano a casa dopo una serata mondana: erano persone altolocate, gli Hasmal, nuovi ricchi che potevano permettersi di far inseguire al figlio la passione per l’arte convinti che, quando il momento fosse giunto, avrebbe preso il posto del padre nell’azienda di famiglia, produttrice di tessuti.

 

Alla morte dei genitori, però, Gabriel aveva venduto tutto, destinandosi solo una rendita vitalizia: una reazione istintiva che avrebbe rimpianto per tutta la vita, non perché fosse in qualche modo legato a quell’eredità, ma perché, cinque anni dopo, sarebbe stato il suo lasciapassare per evitare la guerra, perché lo avrebbero lasciato a dirigere l’azienda e a produrre equipaggiamento per i soldati. Sarebbe stato un membro di quella cerchia di eletti contro cui aveva urlato il proprio disprezzo, mentre la sua qualità di artista non era stato ritenuto in alcun modo un motivo degno per evitare la leva.

 

Eppure, né la morte dei genitori né, ironicamente, la guerra, lo avevano distrutto come ne era stata capace Maia Core, se la desolazione dell’autore di quel caos era anche solo simile a quella della stanza; quando infine si voltò ciò che le si presentò fu, se possibile, anche peggio di qualsiasi previsione: il volto di Gabriel era pallido e scavato, quasi opalescente in quella penombra, e gli occhi iniettati di sangue erano circondati da profonde occhiaie scure. E le mani, quelle belle mani, erano macchiate di pittura al punto che viso e capelli erano striati di colore laddove si erano posate.

 

Aveva le sembianze di un folle, di chi aveva la mente persa in luoghi accessibili solo a lui, avulsi dalla realtà, ma quando parlò lo fece con imprevedibile calma.

 

 

 

-Ho finito.

 

 

 

Non aveva bisogno di specificare cosa avesse finito, cosa lo avesse assorbito al punto da dimenticare tutto il resto, perché non vi era che una donna che avesse quel potere, una donna mutevole e capricciosa che poteva assumere infinite forme, sfuggevole e impalpabile. Una donna che era stata lontana a lungo.

 

Madonna Arte.

 

 

 

Ciò che era finito troneggiava al centro della stanza, solenne nella sua immensità.

 

Persefone, non Afrodite.

 

A modo suo, anche la figlia di Demetra era stata una dea dell’amore, spingendo il re degli Inferi a sfidare chiunque, persino suo fratello, il re dell’Olimpo, pur di averla.

 

Afrodite sceglieva i suoi uomini e ad essi si concedeva, ma Persefone… Lei era una dea per cui valesse la pena lottare, sovvertire l’ordine naturale delle cose, portare l’inverno sulla terra. E Maia Core, che così tanto Gabriel aveva disprezzato all’inizio credendola come tutti loro, come quegli dei coperti dall’oro scintillante dello champagne di contrabbando, si era rivelata un’anima affine, compagna nell’oscurità. Una donna per cui valesse la pena lottare, cosa che non dubitava stesse facendo Rafael in quei giorni, pur di riavere la sua fidanzata, e Gabriel si chiedeva se sarebbe stato in grado di comprenderla e di camminare con lei tra le ombre che avrebbe sempre portato con sé, per quanto si sforzasse di colorarle di luce.

 

Quelle ombre erano parte di Maia: lui non avrebbe potuto che trascinarla definitivamente nel buio, ma Nathanael, con il suo tentativo di farla vivere in un’estate perenne, l’avrebbe condannata ad un destino ben peggiore. Il melograno, Maia l’aveva mangiato da molto prima che giungesse lui, ed era stata la morte in persona ad offrirlo mostrandosi in tutta la sua crudele maestà a una ragazza che non aveva conosciuto altro che gioie.

 

Le ombre, le sue ombre, erano la metà perfetta tra loro due, tra l’estate di Demetra e l’inverno di Ade, e sapeva che gli sarebbe bastato tendere la mano per trascinarla con sé in quel regno sotterraneo che era la sua vita, ma non ne aveva il coraggio: Ade non può sopravvivere senza la sua Persefone, ma Persefone poteva sopravvivere in un inverno perenne?

 

 

 

-È splendida.

 

-Non avevo mai usato il chiaroscuro prima, ma l’ho trovato calzante.

 

 

 

La signora Calloway annuì, ammirando il primo quadro completo da molti, troppi anni: una splendida Maia, i capelli castani intrecciati da rovi, le labbra rosse, dello stesso colore della melagrana che teneva in mano. Grazie alla gradazione delle luci e delle ombre nella stesura dei colori, Gabriel aveva conferito alla figura naturalezza e volume, al punto che sembrava emergere dal piano dell’affresco per proiettarsi verso l’affascinato spettatore. Alle sue spalle, per accrescere la profondità della raffigurazione, vi era un paesaggio roccioso e due colline opposte, l’una illuminata dal sole e l’altra avvolta dalle nubi.

 

Gabriel aveva abbracciato la tecnica di Giotto, dipingendo un personaggio che sulla tela palpitava di emozioni, e così come il pittore italiano aveva spezzato il ritmo costante dei suoi predecessori, quei fondali d’oro e i volti privi di espressione, così Gabriel aveva abbandonato l’arte frettolosa e incompleta che aveva caratterizzato gli ultimi anni per tornare alle origini e superare se stesso, creando un’opera davanti alla quale qualsiasi suo precedente dipinto impallidisse.

 

Il pittore aveva trovato la sua musa e tutto, in lei, era un gioco di luci ed ombre, di tinte fosche a tratti appena illuminate: estate e inverno, Demetra e Ade, Nathanael e Gabriel.

 

Maia, però, non si sarebbe potuta dividere, ma avrebbe dovuto scegliere. Lo aveva già fatto?

 

 

 

-Manca un dettaglio,- commentò lui dopo alcuni istanti, riprendendo il pennello in mano e aggiungendo una scritta all’opera, lettere greche nell’angolo in basso.

 

τλφα κα τ. Alfa ed Omega. Il principio e la fine.

 

 

 

-Non deve per forza finire qui.

 

-Deve, invece. Credo che lei mi odi

 

 

 

La signora Calloway sorrise, di quei sorrisi amari e rassegnati.

 

 

 

-L’hai costretta a ripercorrere i momenti più dolorosi della sua esistenza.

 

 

 

-Ma non capisci? Lei doveva farlo, per poter andare avanti. Lei non è perduta, non ancora, e quegli sciocchi di Rafael e di Lady Core sono così ciechi da non accorgersene: non è in quella prigione dorata che Maia potrà superare quel trauma. Glielo dovevo. Lei mi ha restituito la mia arte… Restituirle i suoi ricordi era il minimo che potessi fare. Ma non so cosa fare ora,- aggiunse dopo un istante.

 

 

 

E il consiglio nacque dal cuore, davanti a quegli occhi desolati.

 

-Vai dallunica persona che può aiutarti a capirlo.


 

***

 

 

 

Gli eventi di beneficienza, in quell’America piena di contraddizioni, solitamente non erano altro che l’occasione perfetta, per i ricchi, di sfoggiare abiti e gioielli e staccare assegni con apparente noncuranza, sentendosi in pace con se stessi sapendo di aver fatto del bene… E sapendo, soprattutto, che la cifra sarebbe stata accuratamente riportata nelle cronache e sarebbe passata di bocca in bocca, con invidia o ammirazione.

 

A Lady Core non erano mai piaciute, benché si fosse ritrovata a organizzarne lei stessa svariate, nel corso degli anni: questioni sociali che le impedivano di esimersi, benché molta della sua beneficenza passasse sotto silenzio, conosciuta solo ai suoi familiari.

 

-È così deprimente,- commentò mentre New York si rifletteva nel finestrino oscurato della limousine, –La maggior parte di quei damerini neppure sa dove si trovi Blackwell's Island.

 

Eppure, proprio in quel quartiere dimenticato persino da Dio era divampato un incendio che aveva distrutto, tra i tanti edifici, una costruzione fatiscente che ospitava gli orfani di guerra, tutti coloro che avevano perso il padre al fronte e la madre tra le strade di quella città, mentre cercava di racimolare un tozzo di pane vendendo l’unica merce che avesse, il proprio corpo.

 

Era per loro, quel cocktail pomeridiano che si sarebbe trascinato fino a notte inoltrata, per assicurarsi che avessero un tetto sopra la testa; nessuno sapeva che Potnia Core aveva affittato delle stanze negli ostelli sopravvissuti all’incendio per ospitare i sedici bambini in attesa che la loro casa fosse ricostruita: al di là di qualsiasi apparenza e velleità, la donna aveva sempre avuto a cuore il destino di chi era nato meno fortunato di lei e sua figlia non era stata da meno, prima, nonostante la giovane età, finché non avevano deciso di celarle le brutture del mondo.

 

Quella sera sedeva davanti a lei, impeccabile nel suo abito verde che era stato necessario stringere, e Potnia si ritrovò a pensare, come sempre accadeva quando gli uomini non le accompagnavano, a quanto alto fosse il muro che negli anni, più o meno inconsciamente, avevano alzato tra di loro. Non aveva idea di come si facesse la madre, Potnia, perché la sua era sempre stata una figura assente, avvolta nell’ombra della camera da letto e dall’odore delle medicine che assumeva per le emicranie: era cresciuta con il desiderio di non essere come lei, di non farsi annichilire da nessuno e aveva mantenuto la promessa fatta a se stessa senza rendersi conto, però, che il tempo trascorso alla Demeter era tempo tolto alla maternità. Se avesse partecipato ad una riunione in meno… Se fosse rientrata un po’ prima a casa…

 

Aveva mandato Maia a studiare lontano da casa, in parte per garantirle l’istruzione migliore, in parte per sentirsi meno in colpa sapendo di trascurarla, sperando di poter recuperare il rapporto quando fosse tornata e, chissà, magari avrebbe trovato interessante la gestione dell’impresa di famiglia.

 

Poi, però, il Titanic era affondato trascinando con sé ogni cosa. Ricordava ancora con orrore le ore trascorse al molo ad attendere notizie: era rimasta immobile a fissare l’orizzonte, perfetta come sempre tanto che qualche maligno aveva interpretato quella posa come non curanza, senza capire quanto fosse semplicemente annichilita.

 

Al suo rientro lei e Nathanael, senza parlarne, le avevano costruito attorno una teca di cristallo e Maia vi si era adattata: non una preoccupazione, non una scelta, e il muro tra loro era diventato sempre più alto e spesso, fino a renderle due estranee. Potnia l’aggrediva. Maia la trattava con accondiscendenza.

 

 

 

-Non ci tratterremo a lungo. Charles Pierre è un amico e non ho potuto dirgli di no, è uno dei primi eventi nel suo nuovo hotel e noi Core abbiamo degli obblighi da rispettare.

 

 

 

Doveri, obblighi, frasi di circostanza.

 

 

 

-Lo so. Ci tratteremo quanto riterrai opportuno, non ho impegni di alcun genere.

 

 

 

Aveva usato un tono privo di qualsiasi inflessione che scosse Potnia, abituata com’era all’allegria fuori luogo della figlia: nel momento in cui tutto ciò che prima di lei la infastidiva era venuto meno, ne sentiva la mancanza.

 

Avrebbe voluto prenderle la mano, chiederle cosa le stesse succedendo, ma non lo fece, incapace com’era di rapportarsi con quella creatura che aveva messo al mondo, trovando molto più semplice occuparsi dei figli degli altri, come nel caso di quella serata.

 

Quando la vettura si fermò uscì senza voltarsi indietro, lasciando che i fotografi catturassero brevi istantanee della sua vita, e non si accorse di essere sola perché Maia non si era mossa.

 

 

 

Con la mano stretta sulla maniglia della limousine, Maia impedì alla sua mente di dare un nome al senso di soffocamento che l’aveva investita, benché non fosse affatto una situazione a lei estranea: una favola raccontava di un nano e di una regina e di un nome che doveva essere scoperto perché la fanciulla potesse essere libera da lui, ma per Maia dare un nome a quei mostri che la ossessionavano avrebbe significato esserne schiava per sempre e così,ancora una volta, aveva scelto di fuggire.

 

Nessuna paglia da mutare in oro, solo una collana di diamanti rossi così scuri da sembrare neri.

 

L'aveva fatta aggiustare immediatamente, trascorrendo due giorni con le uniche persone che sapeva che, pur notandone la mancanza, non avrebbero fatto domande, sua nonna e Abbie. Ed infine i sei chicchi di melograno erano tornati al loro posto, gelidi sulla sua pelle accaldata da quel sole di inizio settembre. Tutto era come prima. E tutto era cambiato.

 

 

 

Sistemò con mani tremanti le insistenti pieghe della gonna e poi respirò a fondo, lentamente, cercando di indossare quella maschera ormai così familiare, per sé e per gli altri. E gli altri la aspettavano con le macchine fotografiche puntate nella sua direzione, perché dopo Lady Core, di cui erano riusciti a conquistare solo fugaci scatti a causa della poca predisposizione della donna a concedersi al pubblico, non desideravano che la figlia, sempre disponibile a concedere sorrisi vezzosi ai loro sguardi adoranti. Eppure Maia quella sera non si fermò, lasciando alle sue spalle solo il profumo di limone e una scia di stoffa verde, e in pochi riuscirono a coglierne lo sguardo prima che le porte dell’hotel si chiudessero alle sue spalle.

 

 

 

La tragedia di Blackwell's Island aveva scosso l’opinione pubblica e la borghesia aveva accusato senza troppi giri di parole tutti quei ricchi che vivevano nelle loro regge dorate senza curarsi della povertà che avevano attorno, appena girato l’angolo, e così la cerimonia organizzata da Charles Pierre aveva attirato persone da tutti gli Stati Uniti, famiglie di antica tradizione e nuovi ricchi che il secolo appena iniziato aveva fatto ascendere nell’Olimpo terrestre.

 

Guardandosi attorno Maia incrociò lo sguardo sfrontato di Christopher Campbell, rampollo di Chicago la cui fama di donnaiolo aveva varcato le soglie della città natale e che in quel momento, per non smentirsi, era circondato da tre giovani ereditiere di New York, ragazze che Maia conosceva e che immaginava avessero visto in lui un’ottima preda da accalappiare. Poco lontano, il più giovane dei Campbell, Paul, portava da bere alla sua fidanzata, una ragazza cresciuta secondo i rigidi dettami vittoriani che la giovane Core aveva incrociato durante alcune cerimonie senza mai trovare molto di cui parlare.

 

Dopotutto, Maia dell’Inghilterra aveva adottato l’impeccabile accento e i modi eleganti, ma aveva un cuore americano.

 

Stava iniziando a chiedersi quanto si sarebbe protratta quell’agonia quando la luce di un lampadario si specchiò su un abito che, benché nero, era cosparso da così tanti diamanti da assorbire gran parte della luce della sala… E la ragazza sorrise.

 

I coniugi Fitzgerald si erano sposati l’aprile precedente nella Cattedrale di San Patrizio, in una cerimonia così fastosa che, si vociferava, forse neppure il matrimonio di Maia Core avrebbe potuto superare.

 

Giovani e belli, erano l’emblema di quegli anni ’20, di quella generazione che, per affrontare i mostri della guerra, si abbandonava a feste sfrenate e a giornate vissute come se fossero le ultime, tra esaltanti avventure e sentimenti brucianti.

 

Nonostante Potnia Core non la sopportasse, a Maia Zelda piaceva, così le si avvicinò, ricevendo baci e sorrisi a profusione.

 

 

 

-Mia cara, come stai? Sembri pallida, - disse quella senza neppure darle il tempo di rispondere, -Ma lo capisco, sai? Le nozze si avvicinano ed è sempre stressante per una sposa… Così tante cose da organizzare, la cerimonia, l’abito, il viaggio, e ovviamente gli uomini non sono di alcun aiuto. Alcuno! Vero, Francis?

 

Il marito annuì accondiscendente, poi fuggì divertito dalla moglie, sorridendo comprensivo a Maia.

 

-Ci pensi? Non avevo alcuna intenzione di sposare Francis quando l’ho conosciuto, ma alla fine l’amore vince sempre. E poi, tu e Nathanael vi conoscete da così tanto tempo che sono sicura sarete una coppia meravigliosamente innamorata per moltissimi anni.

 

 

 

Maia evitò di far presente che ciò che l’aveva convinta, alla fine, dopo un lunghissimo corteggiamento da parte di Fitzgerald, non era stato l’amore ma il successo che Francis stava avendo come scrittore – e i conseguenti guadagni.

 

D’altro canto, chi era lei per parlare d’amore? Zelda, se non altro, quali che fossero le motivazioni, aveva scelto il marito, mentre lei non aveva mai scelto Nathanael, limitandosi a prendere atto delle decisioni dei suoi genitori. In un’altra vita, senza queicognomi ingombranti e quel passato, avrebbe mai scelto liberamente e spontaneamente l’uomo che, in quella vita, le era stato destinato?

 

 

 

Si congedò con un sorriso, sapendo che l’altra non si aspettava affatto una risposta, e uscì su una terrazza, distribuendo sorrisi di circostanza e parole vuote, agognando con tutta se stessa il sapore del vino rosso, assaggiato solo una volta e che mai, neppure nelle serate illecite in compagnia di Nathanael, aveva avuto il coraggio di bere, perché tutto in quella bevanda, dal colore sanguigno alla densità seducente le ricordava a chi lo aveva rubato quella volta, mentre il proprietario era distratto, troppo intento a dipingere, con le mani sporche di inchiostro che Maia sin troppo spesso aveva immaginato su di sé. Il vino rosso era lui, il peccato che portava con sé.

 

Non le rimaneva che una bevanda analcolica, troppo dolce per placare la sete, troppo vergine per concederle quel leggero stordimento che forse avrebbe reso quella pagliacciata più sopportabile. A nessuno di loro interessava davvero di quei bambini, sordi e ciechi com’erano davanti al dolore del mondo. Oltre la ringhiera Manhattan si estendeva ai suoi piedi, perennemente vibrante di vita, soprattutto al tramonto, mentre l’arancio del sole morente si specchiava sui grattacieli moltiplicandosi mille e mille volte; oltre i ponti iniziava una New York diversa, più povera, ma più ricca di verità, che non aveva mai avuto spazio in quella nobiltà assuefatta dalla finzione.

 

La luna si vedeva appena, in quel cielo ancora chiaro, e Maia si chiese dove fossero le Pleiadi, in quel cielo, e dove fosse la stella sua omonima: aveva avuto una bella vita, quella ninfa? Una vita felice? Sicuramente Nathanael avrebbe avuto la risposta, ma lei non ne aveva idea perché la sua cultura nasceva e moriva tra le pennellate su una tela o nelle rughe di un volto scolpito: l’arte era l’unica sapienza che le fosse mai interessata.

 

Com’era sopravvissuta, Pleis, dopo aver abbandonato William a morte certa? Sapendo che lo avrebbero arso vivo come eretico? Fiamme. Calde e dirompenti fiamme.

 

Il bicchiere le scivolò dalle mani e si dovette sostenere alla balaustra per non crollare, finché qualcuno non le posò una pelliccia sulle spalle, qualcuno che non vedeva da tantissimo tempo, da quando l’aveva presa per mano trascinandola via dall’inferno.

 

Molly Brown avrebbe potuto salvarla un’altra volta? Qualcuno l’avrebbe salvata?

 

Nessuno aveva salvato Pleis, dopotutto. La collana non le era sembrata mai così pesante.

 

La donna le sorrise, senza rinfacciarle le innumerevoli volte in cui non era stata richiamata, o era stata deliberatamente evitata lungo la strada. E glielo lesse negli occhi, che lei sapeva, di lui, di loro.

 

 

 

-Ade può sopravvivere senza Persefone, signora Brown?

 

 

 

Pur trovando strana la domanda, la donna non le chiese cosa intendesse, ma si limitò a guardare il panorama di quella notte di settembre, in cui gli ultimi istanti di quell’estate stavano lasciando spazio alle fresche brezze autunnali, la stagione dell’anno in cui New York si mostrava all’apice della sua bellezza.

 

 

 

E Maia seguì il suo sguardo, mentre le parole della discussione con Nathanael ancora le risuonavano nella memoria, frasi disperate appena sussurrate a un muro di dolore che non aveva avuto il coraggio di rispondere.

 

Dio, che vigliacca era stata.

 

Nathanael non meritava quel dolore. Meritava una donna felice che stesse al suo fianco, che lo amasse e rispettasse fino alla fine dei loro giorni.

 

 

 

-Francis è sempre il solito guastafeste!

 

 

 

Zelda le aveva raggiunte sulla terrazza, facendo sussultare Maia, ormai abituatasi al silenzio interrotto solo da suoni lontani; la signora Brown, da parte sua, le sorrise con accondiscendenza, chiedendole cose accadesse.

 

 

 

-Voglio dare una festa, nella villa agli Hamptons! L’estate è praticamente finita, dobbiamo goderne gli ultimi sussulti. Ma non vuole, dice che deve scrivere, eppure mi chiedo cosa mai potrebbe ispirarlo più di una festa! Ma quel suo Gotsby o Gatsby o comunque si chiami è così malinconico…

 

 

 

-Gatsby, mia cara?

 

 

 

-Il nuovo personaggio! Una creatura così angosciante, a parer mio, che non so davvero perché debba scrivere di un personaggio del genere. La vita è così bella e ricca e lui è così drammaticamente innamorato non corrisposto…

 

 

 

Molly non rispose, limitandosi a sorridere senza trovare la forza di disilludere quella sciocca ragazza, spiegandole che la vita, in verità, non era affatto così bella e ricca come lei voleva credere e che forse suo marito, dipingendo quel personaggio, aveva toccato le note più intime di quel mondo. Non replicò, però, limitandosi a guardare Maia, che si era assentata ancor di più non appena la località marittima era stata nominata.

 

 

 

Permettimi di aiutarti.

 

 

 

-Ad ogni modo,- continuò con leggerezza mentre mangiava le ciliegie che aveva portato con sé, - Ora che ci penso, non avete idea di chi ho visto! Sabato scorso ero nella villa a King’s Point… Sapete che Francis ha comprato una villa anche lì, vero? Comunque…

 

 

 

Lasciati amare, lasciami ricostruire la nostra vita insieme.

 

 

 

-Non l’ho visto davvero, in realtà, ma c’era indiscutibilmente la sua macchina. Davanti la villa di quella… - la signora Fitzgerald si fermò, cercando la parola adatta, -Di quella poco di buono, quella sfregiata.

 

 

 

Possiamo essere felici, circondati dai nostri figli e dalle persone che amiamo. Torna da me, Maia, torna da me.

 

 

 

-Gabriel Hasmal è tornato dalla sua modella, da Ceridwen. Maia, cara, sbaglio o tu lo conosci?

 

 

 

Il sangue le si ghiacciò nelle vene. Se Zelda si accorse di averla turbata non lo diede a vedere e Molly la fece allontanare con una scusa qualsiasi.

 

-Non è cattiva, sai? Solo molto sciocca.

 

Ma Maia non rispose, incapace di pensare alcunché se non a Gabriel e alla donna del quadro: persino Nathanael era ormai lontano dai suoi pensieri e con lui qualsiasi senso di colpa, qualsiasi paura, qualsiasi mostro che negli anni le aveva fatto compagnia.

 

Strano, come la vita incastri i momenti quasi fossero pezzi di un puzzle. Ad una festa aveva incontrato Gabriel e ad una festa lo ritrovava, benché pensasse di averlo escluso per sempre dalla sua vita.

 

E nel mare aveva salutato Molly Brown l’ultima volta e Molly Brown al mare la rimandava, quella sera, scortandola all’esterno e chiamandole un taxi.

 

Vai da lui, le sussurrava, vai da lui e trova te stessa.

 

E Maia neppure rifletté quando diede al taxi l’indirizzo, perché vi era solo un posto al mondo in cui desiderasse trovarsi in quel momento. Verso il tramonto.


 

-Direzione Hamptons, per favore.



 

La notizia l’aveva stravolta, ma non stupita.

 

L’aveva aspettata inutilmente, l’aveva aspettata anche quando aveva capito che non l’avrebbe raggiunto e per colpa del suo egoismo lo avevano arrestato, condannandolo al peggiore dei destini.

 

Il rogo.

 

Maria la Sanguinaria li aveva condannati alla morte degli eretici e Pleis era annichilita: pubblicamente si comportava normalmente, ma dentro di sé non vi era che vuoto e desolazione e devastante dolore.

 

L’amore della sua vita stava per morire e quella collana non le era mai sembrata così pesante.

 

-Quello che mi avete chiesto, signora.

 

-Non sono una signora. Non sono nessuno.

 

Si mosse rapida in quelle vie sporche e maleodoranti, con il cappuccio ben calato a celare il volto, e lo specchio di una carrozza che passava velocemente le riflesse l’immagine di una mendicante, di un’anima persa e dimenticata. Il pugno stretto su una fiala. Una morte rapida e indolore.

 

 

 

La villa era lì, immutata, intatta, inalterata rispetto a quella dei suoi ricordi come se il tempo non fosse mai trascorso, con l’elegante facciata che si specchiava sul mare e l’enorme parco alle sue spalle, quello in cui lei e i suoi cugini si erano persi mille e mille volte per poi tornare sporchi di erba e terra cercando di evitare le rispettive madri.

 

Era tornata a casa.

 

 

 

l’oceano, che fino a pochi istanti prima sembrava l’inferno, si era fatto improvvisamente quieto.

 

Dopo che l’ultimo pezzo del Titanic era andato a fondo,trascinando con sé centinaia di vite umane, la superficie dell’acqua si era fatta immobile, spezzata di tanto in tanto dalle scialuppe.

 

Qualcuno stava arrivando a recuperarli, troppo tardi. In quanti si erano salvati, su quelle scialuppe carice neppure a metà?

 

In quanti erano morti e in quanti stavano morendo immersi nell’acqua ghiacciata.

 

Faceva freddo, ma Maia non lo sentiva, mentre la sua mente si soffermava sulle persone che non avrebbe mai più rivisto, su chi era morto volontariamente per lasciar spazio e donne e bambini e a chi era morto perché non aveva mai avuto scelta.

 

Una nave inaffondabile, inabissata.

 

Una vita perfetta, spezzata. Nulla sarebbe mai stato come prima.

 

Poi i suoi occhi si posarono su un quadro: galleggiò alcuni istanti,prima che qualcuno cercasse di salvarsi e si inabissasse con lui.


 

 

 

 

 

 

1969



 

Successe una notte, durante il suo soggiorno estivo negli Hamptons. Quel giorno aveva fatto cattivo tempo e Merope aveva dovuto rinunciare alle sue placide letture all’aperto e alle passeggiate nel bosco della sua infanzia. Troppa pioggia, troppo vento…


 

All’ora di andare a dormire, però, il tempo si era ormai rasserenato: poche nubi si muovevano languide nel cielo nero e l’aria ferma era satura di un profumo umido, intriso di terra, foglie e bella di notte. Una notte come tante, all’apparenza. Ma poi, appena fu sdraiata sul letto ed ebbe spento tutte le luci, ci fu un suono che da mormorio sommesso si fece fin troppo invadente. No, si disse improvvisamente inquieta, era impossibile dormire con quel clangore di onde. Si avvicinò alla porta finestra lasciata aperta e bastò scostare le tende perché quel rumore la investisse, con un trascinare violento d’acqua e sabbia, uno schiantarsi liquido contro rocce immobili, un tornare indietro per farsi ancora più brutale e irresistibile.


 

Il paesaggio intorno a lei sembrava del tutto asservito a quella forza oscura che spezzava ogni parvenza di quiete e pervadeva tutto ciò che si poneva al suo cospetto. Non avrebbe mai chiuso occhio, si ripeté ancora una volta. Presa da un impulso, lasciò la camera e scese al piano di sotto, diretta verso la biblioteca. Fu in quel momento che la raggiunse un altro suono, stavolta prodotto dal genio creativo dell’uomo: una tromba vecchia forse di cinquant’anni, suonata in modo appassionato e struggente. Fu spontaneo per lei seguirne le note e altrettanto spontaneo fu fermarsi all’uscio del salone, quando ebbe riconosciuto la persona di spalle che stava ascoltando Sidney Bechet al grammofono. Le porte finestre erano spalancate sulla veranda e, avvolta in una vestaglia di seta che la faceva apparire più snella e slanciata che mai, sua nonna Maia stava all’in piedi, con le braccia racchiuse sotto il seno e il volto fisso sul mare. Era immobile, eppure tutto in lei parlava di una tensione oscura, influenzata dai moti delle onde. Presto partirà di nuovo, si disse Merope senza sapersi spiegare quell’improvvisa certezza, e non la vedremo per molto tempo.


 

Avrebbe voluto raggiungerla lì fuori, prendere anche lei un calice di vino rosso e chiederle se in quel mare sconvolto riuscisse a vedere ciò che vedeva lei. Non lo fece, tuttavia. Maia sembrava preda di un incantesimo, che l’aveva ricondotta in un mondo cronologicamente inaccessibile, il mondo che aveva dipinto nel suo diario, quello fatto di balli, bevande proibite e fughe notturne.


 

Proseguì verso la biblioteca e, quando fu lì, cominciò a leggere i titoli, sebbene fosse ancora assorta nell’atmosfera rarefatta che poco prima aveva colto nel salone. Fu una parola scritta in grassetto a trascinarla brutalmente nella sua realtà: era scritta sul dorso di un libro sottile, uno che difficilmente avrebbe notato se non fosse stato per quel nome a lei così familiare, e il titolo… il titolo in qualche oscuro modo fu in grado di risvegliare un ricordo da tempo sopito nella sua memoria. Un ricordo di alberi alti alti, di gambe graffiate dai rovi, di una corsa atterrita nel bosco buio… L’Averno sulla Terra. Rapimenti e sparizioni di A.J. Cuveé. Atterrita, prese il libro e iniziò a sfogliarlo freneticamente, finché un barlume di lucidità la spinse a controllare l’anno di pubblicazione: il 1948. Non è lui, si disse con un sospiro, all’epoca era poco più che un bambino.


 

A. J. Cuveéchi era?, si domandò mentre andava a sedersi su una poltrona. Forse il padre, pensò mentre gli occhi le cadevano sulla prima pagina: “Vive all’ombra, sul ciglio dell’esistenza. E freme, freme… per quella luce che gli possa donare una parvenza di umanità. Sta nascosto dietro l’angolo, tra i cipressi, sotto terra e attende il suo arrivo. Per rapirla e nutrirsi di lei. La scorge mentre se ne sta su un piedistallo, immobile creatura luminosa, inconsapevole delle ombre che la circondano e degli occhi grigi che la scrutano. La vuole per sé e quella notte la prenderà.”

 

 

 

***

 

Da quando Chloe Core lo aveva portato per la prima volta lì, Duncan aveva sempre visto gli uffici della Demeter come una massaia industriosa e piena di vita. Benché qualche uomo all’antica avrebbe storto il naso a sentirglielo dire, trovava che quel nome tutto femminile della società fosse quanto mai azzeccato. C’erano volte che, guardando i suoi dipendenti affaccendarsi da un ufficio all’altro e i membri del consiglio riuniti intorno al tavolo della sala conferenze, a Duncan venivano in mente le donne della sua vita: sua madre, instancabile segretaria per uno studio legale rinomato; sua nonna, cuoca di un ristorante facoltoso; la stessa Chloe Core, insostituibile ed energica manager e ovviamente Merope, solerte studentessa prima e attenta amministratrice poi. Donne di estrazione sociale diversa, sicuramente, ma che non avevano bisogno di bruciare un capo intimo né di indossare qualcosa di indecente per mostrare agli uomini il loro valore.


 

Eccole lì, invece, le donne che ai suoi occhi non avevano più diritto di definirsi in quel modo: avevano bloccato il traffico e senza alcun ritegno si dimenavano per la strada con i loro slogan ridicoli e provocatori.


 

- Guarda che spettacolo obbrobrioso…- commentò, mentre una ragazza dai capelli lunghi e cespugliosi passava davanti la sua macchina e gli mandava baci attraverso il vetro.


 

Dalla sua destra lo raggiunse una risatina bassa: - Non ne sei conquistato?


 

- No, affatto,- rispose con una smorfia,- Vorrei capire quanto durerà ancora questa pantomima, ci aspettano per il pranzo.


 

- Francine, cerca di capirlo,- intervenne il suo ormai quasi cugino dal sedile posteriore,- Non vede Merope da un mese.


 

James Core come al solito si sbagliava, lui e Merope non si vedevano da due mesi e precisamente da quando l’aveva trovata sfinita tra una massa di accattoni e l’aveva messa in un elicottero, l’unico mezzo con cui era stato possibile raggiungere e poi lasciare quel luogo infernale che era Woodstock. Dopo tutto quel tempo, ancora non riusciva a credere che quel viso dagli occhi arrossati e sfatti e quelle braccia e gambe scoperte appartenessero alla sua Merope, ma, sopra ogni cosa, non capiva cosa l’avesse spinto a nascondere Merope da sua madre e a portarla negli Hamptons anziché a New York. Quando poi Chloe gli aveva chiesto spiegazioni, si era limitato a dire che Merope e James avevano deciso di fare una deviazione prima di raggiungere la casa dei nonni, ma che non avevano pensato di avvertire nessuno. Tutto un malinteso, aveva concluso con un sorriso tirato.


 

- Non mi sei mai sembrato un tipo romantico, Mr. Ambroser,- lo stuzzicò Francine, posando una mano sottile e curata sul suo braccio.


 

Duncan fece un mezzo sorriso:- Ci conosciamo da poco, dopotutto.


 

Era odiosa, quella donna: tutta spocchia e poco cervello. Ma non poteva essere scortese con lei e non solo perché da qualche settimana faceva coppia fissa con James Core, ma anche perché gli era piuttosto utile per i suoi fini.


 

- Com’è finita con quella faccenda?- domandò, mentre finalmente il traffico cominciava a defluire.


 

- Quale?- domandò lei spaesata.


 

- Parla di Cuveé, tesoro,- si intromise James, - Parla sempre di Cuveé, ultimamente.


 

Duncan si limitò ad alzare le spalle, per simulare niente più che una semplice curiosità, un innocuo capriccio.


 

- Beh, è stato semplice,- iniziò lei, accendendosi una sigaretta, - Ho semplicemente chiamato mio fratello e gli ho detto che poteva depennare dalla lista dei miei protetti Julian Cuveé. Dopotutto non vedo il motivo per cui un giovane americano dovrebbe rifiutare di servire il suo Paese…

 

Quel commento pungolò la coscienza di Duncan, ma fu sufficiente pensare a Merope e ai suoi occhi sfuggenti di agosto perché la rabbia trovasse nuova linfa: sarebbe andato fino in fondo.


 

- E lui?- domandò James,- Ha semplicemente acconsentito senza chiederti spiegazioni?


 

Francine alzò le dita in un gesto di noncuranza e ridacchiò:- Mi ha solo avvertita che presto ci sarà un nuovo rafforzamento delle truppe e se questa persona mi ha particolarmente infastidita potrebbe ricevere la chiamata a breve… magari anche in questo preciso momento.


 

Duncan tese le labbra e si concentrò sulla guida. Mentre Francine e James continuavano a parlare, l’elegante auto passò sopra un cartello lasciato per terra dai manifestanti: “Give peace a chance”.


 

***


 

Merope e Duncan erano cresciuti insieme. Era una considerazione, questa, che chi li conosceva buttava lì senza pensarci troppo, con superficialità. Anche Duncan lo ripeteva spesso, ma a differenza di chiunque altro era fin troppo consapevole di quanto fosse straordinaria quella circostanza: loro c’erano sempre stati l’uno per l’altra, avevano affrontato ogni momento delle loro esistenze insieme, amanti e complici. Eppure, qualcosa a un certo punto era cambiato: qualcuno aveva catturato l’attenzione della sua Merope e lui aveva voluto mettere alla prova quel legame prezioso come poche cose al mondo.


 

Quando era arrivato a casa Core, diverse ore prima, ad accoglierlo c’era stata una donna che per quanto assomigliasse alla sua fidanzata non sembrava del tutto lei. Gli aveva sorriso, lo aveva abbracciato e baciato, gli aveva chiesto novità della Demeter e di certi loro amici, aveva raccontato delle sue vacanze insieme alle cugine, ma il suo sguardo continuava a scivolare per la stanza, la bocca a tirarsi in una linea sottile sottile, le dita a tamburellare frenetiche sul divano in pelle. E poi… certo, poi c’era stata la lite.


 

Erano seduti a tavola, quando tra i più giovani la conversazione era caduta sulla musica e sugli eccessi di certi musicisti tanto in voga al momento. James aveva appena fatto una battuta infelice, qualcosa come “Non mi sorprenderei se Lou o Iggy si bucassero durante un concerto”, quando era intervenuta una gelida Chloe Core: - È questa la gente che frequentate in quei locali che vi piacciono tanto?


 

James aveva fatto uno dei sorrisi per cui era tanto famoso in famiglia, uno di quelli che da bambino metteva su quando veniva scoperto a fare scherzi a questo o quel cugino: - Certo che no, zia, ma siamo pur sempre giovani e abbiamo bisogno di divertirci anche noi.


 

Lo sguardo attento di Chloe li aveva scandagliati uno per uno per posarsi, infine, su Merope.


 

- Capisco che Duncan stia approfittando delle ultime settimane per fare ciò che non potrà più fare da sposato, ma preferirei che tu non andassi più in luoghi del genere.


 

La Merope che conosceva lui avrebbe annuito e rinviato eventuali polemiche a un momento successivo, quando avrebbe potuto parlare da sola con la madre. Questa Merope, un po’ familiare e un po’ estranea, invece aveva deciso di domandare “per quale motivo?”


 

- Tu sei una Core, Merope,- aveva iniziato un’irritata Chloe,- Non voglio che davanti ai prodotti Demeter le casalinghe pensino a te che folleggi con quei drogati o ubriaconi che si spacciano per musicisti.


 

Erano state parole definitive e il tono con cui le aveva pronunciate era quello capace di ammutolire chiunque fosse il malaugurato destinatario. Merope, però, non aveva rinunciato a dire la sua.


 

- A me risulta che le serate di nonna Maia giovassero all’immagine della Demeter e che persino la bisnonna Potnia le tollerasse per questo motivo, - aveva obiettato con calma, prima di aggiungere qualcosa che aveva avuto l’effetto di gelare tutti i presenti: - Ma forse è questo il punto, tu non vuoi un’altra Maia con cui competere. Beh, stai tranquilla, se vuoi posso anche restituirti la collana… A me non importa nulla.


 

Dopo quelle parole, il pranzo si era trascinato nell’imbarazzo generale ed era stato un autentico sollievo lasciare la tavola e, per la maggior parte, persino casa Core-Silvery. Non Duncan, però, lui era rimasto lì, decidendo suo malgrado di sacrificare un pomeriggio di lavoro per mantenere la pace tra madre e figlia.

 

In quel momento, mentre le cameriere iniziavano a preparare la tavola per la cena, ogni divergenza sembrava appianata. Lui e la fidanzata si erano seduti sul divano, scambiandosi commenti di poco conto davanti il televisore e, quando i genitori di lei si erano finalmente decisi a lasciarli soli, qualche rapido bacio. Fu Merope a spezzare quell’armonia che si rivelò essere del tutto fittizia.


 

- Stasera voglio andare al Max’s.


 

Fu come se avesse pronunciato il nome di Cuveé, come se avesse detto “ti lascio per lui, Duncan”.


 

- Vuoi che ti procuri una minigonna per l’occasione?- domandò, fingendo un’indifferenza che era ben lontano dal provare.


 

Merope lo guardò per un attimo, con una strana smorfia in viso: - Vorrei andarci con te, Dun.


 

Lui le accarezzò il viso e le portò qualche ciocca bionda dietro l’orecchio.


 

- Merope, io e te siamo cresciuti insieme,- mormorò ed ebbe la sensazione che quelle parole un tempo così rasserenanti adesso gli graffiassero la gola, - Non provare a ingannarmi: non sarei dove sono se fossi un bamboccio da prendere in giro a tuo piacimento.


 

Gli occhi chiari di lei – prima così cheti, adesso così infidi – gli apparvero sinceramente sperduti. Fu un attimo e si fecero pungenti, proprio come un attimo prima che rispondesse a Chloe, affondando la lama dove sapeva che avrebbe fatto più male: il senso di inadeguatezza rispetto all’amata e venerata Maia Core.


 

- Siamo cresciuti insieme, ma a volte credo che tu non mi capisca affatto,- disse con voce tesa, - Ho solo bisogno di uscire da questa boccia di cristallo che mi hanno costruito intorno, Duncan.


 

Guardò le labbra di lei scosse da un tremito e socchiuse gli occhi, mentre sentiva nascere un sorriso sarcastico al pensiero di cosa – o meglio, di chi – sentisse bisogno Merope.


 

- È tutta colpa mia, in fondo,- riconobbe, alzandosi dal divano, - L’ho lasciato condurre il suo gioco, convinto che tu fossi più intelligente delle donne che ti hanno preceduta.


 

- Adesso sei crudele,- disse, mentre tutto in lei si faceva tensione e rabbia e lo raggiungeva all’in piedi, - Non ho intenzione di andare alla ricerca di un altro uomo, voglio soltanto…- si guardò intorno come cercando le parole, - Voglio soltanto vivere come una qualsiasi ragazza della mia età.


 

La guardò e per un momento cercò di crederle, senza riuscirci.


 

- Tua madre non meritava quelle parole, sai,- si ritrovò a dirle, - Non accade spesso, ma a volte le sfugge qualche aneddoto della sua infanzia ed è facile intuire come sia stato crescere con una madre superficiale e vanesia come tua nonna, una prima donna pronta a fuggire chissà dove ogni volta che riceveva una telefonata…


 

- Tu non sai nulla di mia nonna,- lo interruppe lei e i suoi occhi… i suoi occhi erano stretti in modo odioso, irriconoscibile.


 

- E tu? Quanti giorni è rimasta a casa mentre eri negli Hamptons?- domandò lui, sorridendole sarcastico,- Oh, certo, ti sei convinta che siete due anime affini per quella faccenda del diario… il poeta e il pittore… tutto molto suggestivo, Merope, davvero,- e rise, rise di una risata maligna che alle sue stesse orecchie suonò stonata.


 

Non si preoccupò nemmeno di nascondere la profonda soddisfazione mentre nel viso di lei la genuina confusione faceva spazio alla comprensione.


 

- Che ne sai tu del diario?

 

La guardò ancora e scosse la testa, mentre la mascella cominciava a fargli male per quel sorriso che continuava a buttarle in faccia, quello che sapeva l’avrebbe ferita più di ogni altra parola.


 

Il diario… lo aveva scoperto quando l’aveva portata via da Woodstock e lei si era addormentata sfinita accanto a lui. Erano cresciuti insieme, loro due, e Duncan ricordava ancora lo sguardo trasognato della piccola Merope quando parlava dei suoi Edward e Jane o di quella stupida Scarlett o dell’illusa Emma Bovary. Era una romantica, dopotutto. E non ci voleva molto a capire cosa avesse trovato di tanto ammaliante tra le memorie della giovane e volubile Maia Core. Il pittore, il poeta… e due giovani donne cresciute dentro una teca di cristallo.


 

- Immagino che per te il punto sia questo,- commentò aspramente, - Per me, invece, è del tutto secondario.


 

Non le avrebbe mai detto come aveva fatto quella scoperta, decise all’improvviso: quella donna - che non era Merope, che non poteva essere la sua Merope - non meritava di sapere la verità né di scorgere il dolore che lo aveva colto quando aveva realizzato che c’era un mondo, dentro la testa e il cuore della sua fidanzata, che non era accessibile a lui. No, non meritava alcuna tenerezza, si disse ancora una volta.


 

- Dimmi quel che hai da dire e facciamola finita.


 

Davanti quel tono di sfida, Duncan avrebbe voluto alzare la voce e sfogarsi come un uomo comune, ma lui non era fatto in quel modo e alla fine non colse la provocazione e decise di chiudere lì la lite.


 

- Devi ascoltare tua madre,- disse calmo, - Non sarai mai come tua nonna, non ti si addice e, se ci provassi, ti copriresti di ridicolo. Sii te stessa, Merope.


 

Una cameriera venne a chiamarli per la cena e, dal tono imbarazzato con cui si rivolse loro, fu facile intuire che tutti avevano udito la discussione.


 

Mentre Duncan si muoveva per raggiungere la sala da pranzo, Merope tornò a parlare alle sue spalle.


 

- Voi volete solo che rimanga al mio posto.


 

Si fermò e, senza girarsi a guardarla, le rispose: - Sì, in fin dei conti si tratta di questo.


 

- E qual è il mio posto, Dun?- domandò lei, - Un passo dietro di te e il tuo complesso di inferiorità?


 

***


 

Non era lo stesso posto. Oh, stesso indirizzo, stessa atmosfera buia e disinibita, stesse persone allegre, ma nei mesi lontani in cui lo aveva frequentato insieme a Duncan, James e Daphne, il Max’s Kansas City non le era mai apparso come quella sera. E dire che aveva fatto tanto per essere proprio lì…


 

Dopo la cena tesa e silenziosa che era seguita al loro litigio, aveva atteso impaziente che Duncan lasciasse l’appartamento per fare un giro di telefonate e trovare qualcuno interessato ad uscire insieme a lei. Dopotutto, Duncan e sua madre le avevano solo consigliato di evitare quel posto e lei era troppo grande per l’atteggiamento condiscendente con cui aveva sempre accolto quei particolari tipi di consigli.


 

Non appena i suoi genitori se ne erano andati a letto, le era bastato indossare un abitino nero, prendere in mano gli stivali e la borsa, entrambi laccati di bianco, per lasciare la casa nel più completo silenzio e nell’assurda consapevolezza che, se anche l’avessero scoperta, non le sarebbe importato poi molto.


 

E adesso che era lì, a sorseggiare qualcosa di troppo alcolico al tempo di una musica dai toni tetri, si chiedeva che senso avesse la sua presenza lì. Accanto a lei, Sibylle la scrutava attenta mentre si guardava intorno.


 

- Cosa cerchi, Persefone?


 

Merope le rivolse uno sguardo obliquo, accompagnato dal cenno di un sorriso. Ad agosto, a Sibylle era stata presentata come Persefone e a nulla era valso spiegarle che quello non era il suo nome.


 

- Sembra diverso,- le spiegò con un vago cenno al locale.


 

Sibylle buttò un’occhiata indifferente alla gente che beveva e cicalava allegra ai tavoli, poi a quella che ballava in pista e finì con il sollevare le spalle.


 

- Nulla di diverso,- concluse.


 

Si sbagliava. Quando aveva pensato al Max’s, nei mesi in cui era stata lontana da New York, lo aveva visto con gli occhi della memoria come un luogo intriso di vita, libertà e arte: militanti della pace si riunivano per dare vita a un mondo nuovo che aveva la consistenza delle loro parole e dei loro sogni, ma anche il sapore di una promessa non troppo lontana; artisti di ogni genere si raccoglievano per dare sostanza a quella nuova idea di creatività che li accomunava e che si fondava sulla condivisione; la gente comune, quella a cui la natura non aveva fatto alcun particolare dono, si abbeverava delle parole di quegli uomini e di quelle donne cui veniva naturale fare promesse di grandezza.


 

- È come se lo vedessi per la prima volta,- mormorò più a se stessa che a Sibylle.


 

- Uno come Blind o come Julian spiegherebbe questa sensazione usando parole ad effetto,- commentò l’altra sorridendo,- Ti direbbero che hai svelato l’inganno, che gli occhi vedono ciò che il cuore comanda loro… No, questa è troppo melensa anche per loro,- ridacchiò,- Ma, vedi, il punto è proprio questo: siamo tutti dei poveracci. Balliamo fino allo sfinimento, beviamo schifezze che ci uccideranno, fumiamo in maniera ossessiva, parliamo a ruota libera di tutto ciò che ci passa per la testa, alziamo la voce nella speranza che qualcuno senta quello che vorremmo davvero dire… e tutto questo perché?


 

Si guardarono, mentre quella scomoda domanda di frapponeva tra loro, senza che nessuna delle due provasse a dare una risposta all’altra.


 

- Come tutti qui dentro sei venuta stasera alla ricerca di qualcosa. Abbi almeno il coraggio di cercarla fino in fondo.


 

Merope fece un respiro profondo, si toccò con le dita la collana di melograno e decise di dare ascolto a quella sconosciuta che la scrutava con ironia.


 

- Tempo fa ho trovato un libro,- disse e subito cercò sollievo nel bicchiere posato sul tavolo,- L’Averno sulla Terra,- scandì e sentì gli occhi tradire un certo turbamento, - di A.J. Cuveé.


 

- E cosa vorresti sapere?


 

Un altro sorso, stavolta più profondo, e si decise a spiegare: - Si tratta di una raccolta di poesie e so che non possono essere di Julian, ma… Sibylle, parlano di un assassino, un uomo che porta morte ovunque vada, qualcuno che sente di aver perso la sua umanità e si illude di poterla ritrovare solo tramite una donna… una donna che ha idealizzato come la sua unica fonte di luce, di salvezza…


 

- Persefone…- mormorò l’altra, che sembrava aver capito la fonte del suo turbamento.


 

Lei annuì. Quelle poesie, e soprattutto la smania che trapelava da quei versi, l’avevano spaventata, facendole pensare ai regali di Julian, agli inganni e al rapimento di agosto.


 

- Puoi stare tranquilla,- le disse con un sorriso che per la prima volta fu davvero gentile, - Quelle poesie parlano di morte, ma di quella morte a cui assistiamo ogni giorno.


 

- A che ti riferisci?- domandò confusa.


 

- Alla guerra,- rispose l’altra,- Cos’altro?


 

- Sibylle,- disse dopo aver assimilato quelle parole, - Parlami di A. J. Cuveé.

 

 

 

***


 

A un certo punto della serata – non avrebbe saputo dire né quando né come – Merope era sprofondata in un buio di gomiti appuntiti, mani viscide e labbra umide. L’alcol bevuto l’aveva resa cieca alla razionalità, gettandola in un luogo fatto di note martellanti e immagini indecifrabili, un posto in cui sprazzi del racconto di Sibylle la raggiungevano come dei flash improvvisi, accecandola e turbandola.


 

Non voleva pensarci. Non voleva. E per questo motivo si era ostinata a ballare con una foga a lei sconosciuta, a parlare di qualsiasi cosa le venisse in mente – arte, musica, guerra e poesia -, aveva riso di una risata che le faceva male, aveva cantato a squarciagola canzoni che pensava di aver dimenticato. E per tutto il tempo, per ogni singolo momento che aveva trascorso lì dentro, i suoi occhi non avevano smesso di guardarsi intorno, alla continua ricerca… Di cosa? Di chi?


 

Non voleva fare il suo nome. Non voleva. Ma lui era lì, nelle braccia che si alzavano al tempo della musica, nelle urla stonate che buttava fuori insieme al cantante, nell’alcol che le scuoteva le vene e le offuscava la mente. Voleva che la vedesse in quel modo, finalmente libera, finalmente consapevole.


 

Ma lui non c’era ed era come se i ruoli si fossero invertiti: Julian – alla fine lo aveva fatto, aveva pensato al suo nome - adesso era la luce che lei, novella creatura del buio, anelava. Il suo volto, che avrebbe saputo dare un senso a ciò che Merope vedeva, le si negava, ma lei continuava ossessivamente a cercarlo.


 

Adesso che era lì senza di lui, per la prima volta riusciva a vedere quel mondo con i suoi occhi: i militanti della pace avevano visi tumefatti e un ghigno rabbioso sulla bocca, le donne che avevano fatto da musa alla Factory avevano il vuoto dell’lsd negli occhi e nelle risate, gli uomini potenti che avevano tanto adulato questo o quell’artista adesso sembravano prendersi gioco di loro. Erano questi gli ultimi resti di quegli anni sessanta che tanto avevano promesso e poco sembravano aver mantenuto?


 

L’estate non le era mai apparsa così lontana, così breve.


 

E poi lo vide.


 

Era in un angolo, vestito tutto di nero e le mani in faccia, come se volesse nascondere a se stesso la fine di quella generazione visionaria di cui non aveva mai fatto veramente parte. Lo vide accasciarsi contro la parete, come se la disperazione che tutti quanti si ostinavano a celare fosse infine giunta a lui.


 

Merope si fece spazio tra la gente, dimentica di ogni gentilezza e garbo. Doveva raggiungere Julian, doveva consolarlo, doveva dirgli che l’estate in fondo sarebbe tornata, doveva…


 

Lo trovò a terra, privo di sensi e con una strana sostanza bianca che gli usciva dalle labbra. Urlò più forte che poteva, mentre lo scuoteva e senza sapere cos’altro fare per svegliarlo. Poi qualcuno la spinse lontano, lo chiamò per nome e fu il nome sbagliato: Virgile, Virgile svegliati, cazzo Virgile

 

Ma Merope non riusciva a capire il suo errore e continuava a urlare, a piangere, a cercare aria per chiamare aiuto, mentre mani gentili la portavano lontana e la facevano sedere da qualche parte.


 

- Smetti subito di dire quel nome,- le ordinarono, - Julian non c’è, capisci?


 

Trovò la forza per scuotere la testa. Non capiva.


 

- Perfone, sta venendo a prenderti il tuo fidanzato,- le spiegarono, - Ti accompagnerei io, ma devo andare in ospedale per Virgile e non posso badare a te, ok?


 

Annuì. Le stava parlando Sibylle, ecco, e la voce era spezzata, ansiosa, ma non per Julian… Lui non c’era. Non c’era.


 

Continuò a ripeterselo ogni volta che il panico tornava a crescere e ingrossarsi dentro di lei e mentre beveva un sorso d’acqua e mentre asciugava gli occhi indolenziti con le mani.


 

- Merope.


 

Era Duncan e, nel momento esatto in cui sentì le sue mani rassicuranti sulle spalle ancora scosse da tremiti, le venne in mente un ricordo della sua infanzia: una corsa nella penombra di un bosco, il terrore di essere inseguita da qualcosa di terribile e alla fine, alla fine… le braccia e la voce di Duncan, che ancora ragazzino era già pronto a proteggerla.


 

- Portami via da questo posto,- biascicò, - Mi dispiace Dun, per tutto…


 

- Non preoccuparti,- la interruppe, - Forse è meglio così, dovevi vedere con i tuoi occhi.


 

La aiutò ad alzarsi e la condusse fuori dal locale.


 

- Non ho idea di come farti entrare in casa senza svegliare i tuoi, - le disse, mentre camminavano a fatica verso l’auto.


 

- Non farlo,- mormorò lei, schermandosi gli occhi dalle luci che li abbagliavano, - Portami da te.


 

- Merope…- iniziò lui, con tono spazientito.


 

Lei si fermò bruscamente e gli strinse un braccio per tenersi in equilibrio: - Dun, guardami.


 

- Ti guardo, Mer,- le disse teso, - Per tutta la vita non ho fatto altro che questo, prima da lontano, poi da vicino. E l’ho fatto così tanto da illudermi di conoscerti come nessun altro in questo fottuto mondo. Ma adesso…adesso non so chi diavolo sia questa donna ubriaca o fatta che ogni volta sono costretto a riportare a casa.


 

Lei scosse la testa, sconfitta: - Neanch’io lo so.


 

Lui sbuffò, la prese per un braccio e tornò a camminare verso l’auto.


 

- Ti sto chiedendo di aiutarmi,- si lamentò lei.


 

Tornò a fermarsi e, senza voltarsi, sbuffò di nuovo : - Lo sto facendo, mi pare di non aver fatto altro nell’ultimo anno.


 

- E allora portami da te.


 

- Perché dovrei?


 

- Dun, portami da te.


 

***


 

Il motore acceso alle sue spalle le suggeriva che Duncan stava aspettando che entrasse nell’atrio del palazzo per tornare indietro di qualche isolato, a casa sua, e mettere così fine a quella folle notte. Dopo le ultime ore trascorse insieme – prima in auto, poi nel suo appartamento, poi ancora in auto – era stata un’autentica agonia separarsi dal corpo solido di Duncan e fare quei pochi passi all’aria gelida, in quel breve sprazzo di tempo che separava la notte dall’alba. Eppure poteva ancora avvertire lo sguardo chiaro e attento del suo fidanzato seguirla in ogni passo incerto, movimento stanco e brivido infreddolito.


 

Era quasi arrivata al portone quando un rumore catturò la sua attenzione. Con la coda dell’occhio vide che alla sua sinistra, a pochi metri di distanza, qualcuno la stava fissando. Non lo riconobbe, avvolto com’era in un pesante cappotto nero e con il bavero sollevato per combattere il freddo della notte, ma sapeva con estrema chiarezza che era lì per lei e che proveniva dal mondo di Julian. Per non destare alcun sospetto in Duncan, fece finta di nulla e proseguì verso il portone, infilò la chiave ed entrò.


 

Furono momenti di estenuante attesa, quei pochi minuti che trascorse nell’atrio silenzioso, e quando finalmente poté tornare fuori lo fece con frenesia, guardando a sinistra e poi a destra alla ricerca di chi era rimasto ad attenderla lì fuori per tutto quel tempo.


 

Ciò che trovò furono solo due buste, lasciate davanti l’ingresso del palazzo.


 

La prima non era altro che un biglietto scritto di tutta fretta, in una grafia poco curata e spigolosa.


Stasera Virgile è morto come un reietto, in un angolo buio di un brutto locale. Se avessi visto gli occhi di Julian stasera, capiresti perché ho deciso di venire qui… Non li ho mai capiti, gli uomini come Julian e Virgile, ma li conosco da tempo e so che vivono in un mondo tutto loro e, vedi, credo che nel mondo di Julian Ade non potrebbe mai sopravvivere senza Persefone.


 

Va’ da lui, Merope.


 

Sib”


 

La seconda busta – di un colore grigiastro e dall’aspetto malconcio - conteneva dei versi di una poesia che Merope non conosceva. Era piena di cancellature - segni netti di inchiostro nero che avevano rimosso le parole ritenute inadeguate- e la grafia sembrava vibrare delle emozioni di chi aveva scritto. Fu per questo che dovette leggerla più volte prima di riuscire a comprenderne il significato.


 

Alla fine, seppe di avere trovato finalmente se stessa. Era in ognuna delle parole che Julian aveva scelto per lei.


 

Va’ da lui…



 

Nella sua mente vedeva la folle corsa di un taxi in direzione degli Hamptons,

 

per raggiungere chi inconsapevolmente aveva lasciato dietro di sé l’ultimo chicco di melograno,

 

quello in grado di cancellare il ricordo dell’estate e della luce di Demetra,

 

quell’unico chicco che avrebbe condannato Persefone a un eterno legame con l’Ade.

 

Era bastato quel nome – Gabriel – perché Maia rispondesse al richiamo e anche Merope,

 

mentre guardava la luce del giorno divorare i resti di quella notte indimenticabile,

 

faticava a ignorare il richiamo contenuto nei versi di Julian.

 

Restava immobile sul letto, ma dentro di sé lasciava che quell’ultimo chicco di melograno attecchisse e germogliasse.

 

Sarebbe andata da lui, presto.



2013

 


 

 

La sala dell’appartamento in Park Avenue era illuminata dal sole che, prepotente, filtrava attraverso le grandi finestre. Ovunque, i raggi si riflettevano sulle decorazioni natalizie che Tai aveva sparso per l’ambiente ancora un po’ freddo e spoglio a causa del recente trasferimento. Stavano attendendo alcuni mobili e i quadri a loro regalati dagli Elliott giacevano nello sgabuzzino in attesa di essere appesi. L’appartamento profumava di vernice fresca, di legno appena dipinto e ovunque si trovavano tracce di una vita ai suoi esordi.


 

Tai si era data da fare in tutti i modi, nelle ultime settimane, affinché quegli spazi potessero parlare di loro quanto il vecchio appartamento del Village. Più volte Alistair aveva avuto l’impressione che la sua fidanzata si sentisse un’estranea, fra quelle mura e che mettesse tutto il suo impegno nel tentare di trovare qualcosa che la facesse sentire a casa: le decorazioni natalizie, fotografie della loro vita insieme disseminate in ogni angolo, persino il vecchio giradischi di Benjamin era comparso nel salotto. Non aveva commentato la questione, anche se sapeva che la fidanzata non era mai stata interessata alla musica, perché capiva che l'aver dovuto rinunciato di colpo a trovare il cugino, quando vi era andata così vicina, l'aveva segnata profondamente. Sembrava che dall'arrivo a New York su di lei fosse scesa un'ombra, che né lui, né alcun altro riuscivano a scacciare. Un'ombra che spesso la rapiva in un mondo al quale non gli era permesso di accedere, nel quale sembrava rifugiarsi ogni volta che riusciva: la vecchia soffitta polverosa, la lettura, l'ascolto di vecchi vinili scovati fra le illimitate riserve del padre. Eppure, nonostante questi atteggiamenti di difesa e di evasione lo turbassero al punto da spaventarlo, Alistair era perfettamente conscio che non vi era nulla da fare, se non assecondare i suoi desideri e sperare che quel periodo vissuto sotto i riflettori finisse presto: di li a poco sarebbero stati sposati, i giornalisti avrebbero avuto pane per i loro denti e loro sarebbero lentamente tornati alla loro vecchia vita, fra gli amici e i locali del Village e gli affari aziendali. La vita che aveva conosciuto fino al momento della partenza di Tai.


 

La mattina del ventitré dicembre, nel giradischi aveva smesso di girare un vecchio 45 giri di Eva Cassidy, la tazza di cioccolata calda era rimasta sul tavolino di cristallo, lasciando un piccolo alone seminascosto dalla copia dell’ultimo libro di Helen Humphrey che Tai stava divorando prima di addormentarsi.

 

Giunto in salotto dopo il primo sonno ristoratore delle vacanze natalizie, Alistair sorrise, strofinando con la punta delle dita il piccolo cerchio marrone, chiuse il libro e spostò la leva dell’apparecchio, da cui immediatamente si levò la voce delicata della cantante di Washington.


 

Fu in quel momento che il campanello trillò, incuriosendolo.


 

Gli unici che facevano loro visita a quell’ora del mattino erano i loro genitori, ma sapeva che i McDeer erano con Tai a provare il vestito da sposa, quanto a suo padre si trovava fuori dal paese per affari della Demeter e avrebbe fatto ritorno solo il giorno seguente. Fu per questo che quando vide delinearsi nell’immagine video il profilo delicato di Merope Core, non poté fare a meno di domandarsi quale stranezza fosse mai quella. Erano ormai anni che i nonni di Tai si erano trasferiti nella casa degli Hamptons, ritirandosi dalla vita dell’alta società newyorkese e lasciando alla figlia Erin e al suo braccio destro, Brian Elliott, pieno potere decisionale sulle questioni aziendali.


 

-Alistair, è sempre un piacere vederti.- lo salutò la donna uscendo dall'ascensore che conduceva direttamente dentro l'appartamento.


 

-Mrs. Core, se avessi saputo che ci avrebbe fatto visita mi sarei fatto trovare vestito. Il piacere è tutto mio…


 

-Non dispiacerti, mio caro, il bello di avere ventisette anni è quello di presentarsi bene anche con in pigiama. Ti trovo in magnifica forma.


 

-Non posso che ricambiare il complimento, Mrs. Core.


 

Lo pensava sinceramente. Merope a sessant’anni rimaneva ancora una delle donne più belle su cui avesse mai posato lo sguardo: il collo sottile, i capelli argentati ancora lucidi e morbidi, gli occhi azzurri profondi e sfuggevoli. Gli stessi occhi di Tai. La sua era una bellezza impalpabile, opalescente, quasi dimessa rispetto all’algida figlia, ma a suo avviso vi era in lei una delicatezza e un'eleganza in grado di annichilire il fascino di qualunque splendente donna dell'alta società newyorkese.


 

-Io e mio marito siamo appena giunti in città, ci tenevo a salutare Taigete per prima, non la vedo da quando…


 

Le parole le morirono in gola, forse per il timore di dire qualcosa che potesse ferire il futuro sposo.


 

-Da quando è tornata dal suo viaggio, lo so. È stato un periodo duro per lei fra quegli articoli su People, lo stress del matrimonio e tutti gli affari aziendali. Ma ormai è finito, grazie al cielo. Ora dobbiamo solo pensare a goderci le vacanze di Natale, il matrimonio e il viaggio di nozze.


 

-Posso immaginare.


 

Alistair rimase in silenzio per qualche minuto. Poi sembrò ricordarsi dell'ospite che gli stava di fronte e le domandò se desiderasse qualcosa per colazione.


 

-Con piacere, mio caro.


 

Sparì in cucina, mentre la donna rimase ad osservare il salotto della nuova casa della nipote e del suo futuro sposo. Era evidente che Tai avesse ereditato da lei l'amore per gli oggetti carichi di significato, come i libri, le fotografie, i dischi. Grandi classici, cataloghi d'arte, romanzi moderni scandivano in maniera ordinata gli spazi della libreria in legno chiaro, su cui spiccavano cornici con le immagini di un'infanzia e di un'adolescenza vissuta giorno per giorno con il ragazzo che aveva scelto come compagno di vita.


 

Uno dopo l'altro, sotto i suoi occhi si susseguivano dapprima i libri, poi i CD, i DVD e infine i vinili collezionati dalla giovane coppia ordinati per argomento quasi in maniera maniacale. Letteratura classica, romanzi contemporanei, cataloghi di mostre e musei, musica jazz, rock, fino al pop. Ma il suo sguardo fu catturato quasi immediatamente dall'unica piccola incongruenza, proprio sull'ultimo scaffale, quello meno visibile. Uno strano errore, che agli occhi di tutti sarebbe potuto inosservato, ma che lei non poté fare a meno di cogliere. Le Metamorfosi di Ovidio, una copia sgualcita dell'Amleto, dei vecchi vinili dei Velvet Underground e infine uno di un gruppo che non conosceva, i The Fratellis. E poi, nascosto dalla copertina del disco, un insieme di carte, tenute strette da un laccetto rosso fiammante.


 

-Ci vuole lo zucchero, nel caffè, Mrs. Core?


 

Merope non rispose, ancora catturata da quel singolare accostamento e dalla forma familiare di quell' oggetto.


 

-Mrs. Core?


 

-Si? Scusa, Alistair, mi ero distratta.


 

Fu con enorme fatica staccò lo sguardo dalla libreria e si diresse verso il grande tavolo in cristallo, dove il giovane era riuscito, in pochi minuti ad allestire un'eccellente colazione.


 

-Alistair, posso domandarti una cosa, a proposito di ciò che dicevi prima?- gli domandò sorseggiando il suo caffè. -Come sta Tai? Voglio dire... come ha preso la faccenda dello scandalo con il figlio degli Aderley, il ritorno a casa, e soprattutto l'obbligo a rinunciare a trovare suo cugino?


 

-Come fa a sapere di Benjamin?


 

Merope sorrise amaramente, sorseggiando il suo caffè con aria quasi rassegnata. -Poche cose sfuggono all'attenzione di mio marito.


 

Alistair annuì impercettibilmente con aria assorta.


 

-In realtà avevo notato qualche stranezza già prima.- cominciò con lo sguardo basso.-Tutto è cominciato quando ha trovato quel diario…anche se suppongo che la parte di Ben abbia giocato la sua parte.


 

-Che diario?- Merope irrigidì la schiena, sporgendosi verso il giovane. Sorrideva, del suo solito sorriso malinconico, ma Alistair non poté fare a meno di notare che gli occhi tradivano una certa preoccupazione.


 

-Il diario… Il suo, Mrs. Core. Quello dell’anno in cui le è stata donata la collana. Taigete lo ha trovato su in soffitta durante il trasloco.


 

Gli occhi di Merope tremarono per qualche istante, forse di stupore, forse di paura, Alistair non avrebbe saputo dirlo. Ma fu un attimo, poi la donna ritrovò la compostezza di sempre, liquidando la faccenda con un gesto vago. -Sono solo gli infantilismi di una giovane sciocca, Alistair. Sono sicura che dopo il matrimonio e quando finalmente riuscirà a trovare Benjamin tutto passerà.


 

Lo erano davvero? D’improvviso, una piccolo dettaglio gli schiarì la mente: Tai non aveva più letto o menzionato in alcun modo il diario di sua nonna dal giorno che era tornata in gran fretta a New York. Lo aveva buttato nell'ultimo scaffale della libreria, legandolo con un nastro rosso affinché le carte non si disperdessero e lì lo aveva dimenticato. Qualunque cosa rappresentasse per lei quel taccuino, se la ragazza lo aveva volutamente segregato su quello scaffale per non averlo sotto gli occhi ogni giorno, qualcosa doveva significare. D'improvviso si rese conto che, se desiderava avere qualche risposta sul comportamento della sua fidanzata, quel diario poteva essere una chiave.


 

Dopo quasi un'ora di conversazione sui preparativi del matrimonio e sulla situazione in azienda, Merope si alzò scusandosi per la scortesia e promettendo di tornare entro sera per salutare Tai. Purtroppo l'attendevano alcune visite e un pranzo con la figlia e non poteva più trattenersi oltre.


 

Alistair la salutò e aspettò che sparisse nell’ascensore, prima di voltare le spalle, dirigersi a grandi passi verso la libreria e recuperare dallo scaffale più alto quel mucchio di vecchie carte che lui stesso aveva dimenticato fino a quel momento. Si sollevò sulle punte dei piedi, allungò la mano e afferrò i fogli ingialliti e strappati, rimanendo ad osservarli per qualche istante con il cuore in gola.


 

Sfogliò distrattamente le pagine increspate, fitte delle parole e delle note a testimonianza della giovinezza di Merope Core. Passandovi sopra le dita, sfiorò la carta indurita dall'umidità, finché non si accorse che una parte della copertina era più spessa dell’altra, segno che vi era una tasca, dove conservare i fogli più importanti. Con il cuore che continuava a battere come impazzito estrasse l'opuscolo che vi si trovava ripiegato, aprendolo a fatica con le dita che tremavano. Era il libretto di uno spettacolo in scena in uno dei tanti teatri di Londra: sulla copertina, un viso familiare fissava il profilo di una ragazza bruna, con la pelle scura. Non ci fu bisogno di aprire la prima pagina per riconoscerne l'identità.


 

Amleto: Eugene Aderley.


***

 

 

Una sola pietra blu pendeva dalla sottile catena di oro bianco. Semplice, leggera, essenziale. Il regalo di Alistair di Natale, che andava a sostituire la collana che giaceva sul fondo del mare, a migliaia di chilometri.


 

-Secondo me l'hai fatto apposta a farla scivolare...- scherzò il fidanzato chiudendole il ciondolo attorno al collo. Appariva così incredibilmente sua che per un attimo Tai dimenticò di indossare dei semplici indumenti da casa ed ebbe l'impressione di essere vestita solo di quel semplice gioiello.


 

-Te l'avrò ripetuto mille volte, Al... il gancio probabilmente era vecchio e non ha retto. Stavo appoggiata su una balaustra a strapiombo sul mare ed è scivolato.

 

-Sto scherzando! E comunque questo ti sta molto meglio.


 

Tai si sfiorò il collo fissandosi il collo attraverso lo specchio. Alle sue spalle Alistair le passava una mano fra i capelli, sfiorandole una tempia con le labbra.


 

-Volevo dartela ora che siamo noi due, nella speranza di vedertelo indossare stasera. É un modo per chiederti scusa, Tai per questi mesi. Da quando sei tornata dall'Europa è stato un viaggiare continuo, una riunione dietro l'altra e non sono riuscito a dedicarmi a te come avrei dovuto. Non vedo l'ora che arrivi il matrimonio per poterci godere un po' di tempo solo per noi due.


 

Tai lo osservò attraverso lo specchio. Vi era qualcosa, nel suo parlare, normalmente calmo e sicuro, che tradiva turbamento, ma sperava fosse solo per il dispiacere di quei due mesi da incubo. Dal suo ritorno si erano entrambi lanciati nel lavoro, un po' per reale necessità, ma forse anche per bisogno di dimenticare in fretta quello che era successo. Più volte era stata sul punto di parlargli, quantomeno di Ben, e del suo bisogno di raggiungerlo in Canada, ma più volte si era forzata ad allontanarne il ricordo. Aveva bisogno di dimenticare lui, quanto Ade e tutti quei mesi, se voleva proseguire con la sua vita. E Alistair meritava qualcuno al suo fianco che lo volesse con tutta sé stessa, quindi la necessità di rimuovere quel viaggio che aveva per sempre mutato la sua esistenza si era fatta così impellente, che non aveva potuto fare altro che assecondarla, riempiendo della sua vita a New York tutti i vuoti che i giorni in Europa le avevano lasciato. Eppure, più si avvicinava la data del matrimonio, più il terrore di trovarsi al centro della commedia studiata nel dettaglio da sua madre e Gillian, l'organizzatrice di matrimoni più famosa di tutta la città, la terrorizzava al punto da non riuscire a respirare.


 

-Non voglio che arrivi il matrimonio, Al. Non voglio sfilare sotto gli occhi di quattrocento invitati di cui non mi ricordo nemmeno il nome, non voglio che tutti mi guardino mentre ti giuro di amarti per tutta la vita. Posso farlo ora? Giuro di amarti e onorarti per tutta la vita, ecco. E così semplice qui, mentre siamo noi due. Ti prego boicottiamo questa cosa.


 

Al le sorrise debolmente: -Non sai quanto lo vorrei, Tai. Sposarti ora, qui, davanti a questo specchio e portarti lontano da New York, almeno fino a che gli sguardi di tutti non si saranno rivolti al prossimo matrimonio mondano.- le cinse la vita con le braccia, invitandola a voltarsi. -E vorrei poterti dare quello che più desideri, Tai. Vorrei portarti da Ben, vorrei aiutarti a superare questo momento. Vorrei capire cosa c'è che non va.


 

-Nessuno può.


 

Per un attimo le sembrò di sentire la stretta del fidanzato meno forte attorno alla vita. Poi la sua presa si fece di nuovo salda. Parlami, le stava dicendo. Fa si che io ti aiuti. Eppure, non fece nulla. Rimase aggrappata a quell'abbraccio, senza riuscirne a carpire il calore, senza trovarvi il conforto che l'aveva sempre sorretta, in tutti quegli anni. Si limitò a lasciarsi cullare, mentre una sola lacrima le correva lungo la guancia. Si portò una mano alla pietra blu che le pendeva attorno al collo, e immediatamente le immagini della spiaggia di Taormina, del teatro illuminato a giorno, del viso di Ade così vicino, le si accavallarono in testa. E, esattamente come aveva fatto in tutti quei mesi, chiuse gli occhi, deglutì a fatica e sollevò il viso verso Alistair, per baciargli una guancia.


 

-Passerà, Al, come ogni altra cosa.


 

Il fidanzato annuì in silenzio, rispondendo al bacio.


 

-La collana è bellissima. Stasera sarà perfetta con il vestito che ho scelto. E farà infuriare mia madre che ancora non sa che ho perso quella di melograno.

 

Per un attimo tutto sembrò tornare com'era prima della sua partenza. Entrambi si lasciarono andare a una risata, lunga e liberatoria, crollando nuovamente sul letto come due ragazzini in preda a un momento di euforia. Poi il telefono di Tai squillò, mostrando il volto di suo padre in cerca di rinforzi per tenere a bada la madre e la sua iperattività.


 

-Ora muoviti, pigrona, o avrai Philip sulla coscienza.


 

Detto questo, Alistair la baciò e si alzò, sparendo a breve lungo il corridoio. Rimasta sola, Tai attese un poco, poi prese in mano il cellulare e, incerta, scorse la rubrica fino alla E. Per qualche istante stette a fissare il nome di Eugene Aderley, sfiorando lo schermo con il pollice, poi con un sospiro aprì la conversazione, ancora ferma a quel giorno di ottobre.


 

Ciao.

 

Qualche giorno fa sono passata a Brooklin e in un mercatino ho trovato il vinile dei The Fratellis in offerta, mi sei venuto in mente. Come stai?


 

Che assurdità, era una delle cose più stupide che avesse mai letto. Una patetica scusa da quattordicenne intimorita. Cancellò il messaggio con un gesto secco, lasciandosi cadere indietro, sui cuscini sprimacciati. Non doveva scrivergli, era sbagliato. Concretamente parlando equivaleva a mettersi a saggiare la superficie di un vaso di cristallo di Boemia con un puntello, per cercarne il punto di rottura. Eppure non poté fare a meno di riprendere in mano il cellulare e aprire nuovamente la conversazione.


 

-Ciao. Sei vivo? Volevo sapere come ti andava e in quale parte del mondo ti trovi.


 

Ancora più idiota. Era legittimo, dopo due mesi di silenzio, esordire con un simile messaggio? Quelle erano le parole di chi si è lasciato qualche giorno prima con un sorriso, non con un bacio non concluso e un addio mai pronunciato sulle labbra. Per la seconda volta, con un gesto secco, si trovò a cancellare quelle parole. False, stonate, inopportune.


 

-Tai!! Muoviti o farai tardi!- la chiamò Al a gran voce dalla cucina.


 

La ragazza sospirò, fissò lo schermo un'ultima volta e poi abbandonò il telefono sul letto, senza nemmeno premurarsi di chiudere la conversazione.


 

-Ciao, tu. Mi manchi.


 

E infine, dopo mesi passati nel tentativo di rimozione, la verità.


***



Il salone della grande casa dei Core, quel ventitré dicembre, risplendeva a festa.

La tradizionale cena nell'appartamento dei Core, che dava inizio ai grandi festeggiamenti del Natale, quell'anno più che mai doveva riuscire perfetta. E tale sembrava, a una prima occhiata. Erin Core aveva desiderava che l'atmosfera fosse il più possibile domestica, accogliente e calda e così era stato. Luci rosse e argento che illuminavano l'enorme salone, le decorazioni erano state fatte arrivare direttamente dalla Svizzera, e vecchie carole natalizie si sprigionavano dall'impianto stereo di Philip. Poco più di una cinquantina di invitati, parenti e amici, tutti intimi; fra loro un paio di giornalisti, o di presunti tali, che avrebbero casualmente lasciato trapelare le notizie verso le giuste orecchie. La solidità del nome della famiglia, dopo lo scandalo suscitato dalla bravata di sua figlia, aveva vacillato e aveva quasi rischiato di rompersi, ma miracolosamente Taigete ed Alistair erano riusciti a convincere tutti che fossero più uniti e solidi che mai e quella sera tutto era stato studiato sino all'ultimo dettaglio per darne conferma al mondo intero.

Eppure conosceva sua figlia così bene da capire che qualcosa, nella sua determinazione, si era incrinato. Non sapeva fino a che punto si fosse spinta la storia con il figlio di Maureen e Robert Aderley, e non aveva nemmeno la benché minima intenzione di domandarselo, sebbene sentisse in cuor suo che la versione che Tai le aveva fornito dei fatti non poteva essere vera. Ne era sicura perché quella che stava facendo la sua entrata al braccio del suo fidanzato non era la ragazza che aveva cresciuto. Vi era una risolutezza quasi disperata nei suoi occhi, che non poteva essere provocata solamente dal desiderio di dimostrare a tutti che quello che era stato scritto dai giornali fosse un' enorme malinteso.

Con sguardo preoccupato ne seguì le mosse, mentre al braccio di Alistair porgeva i suo saluti agli invitati. Sapeva che prima o poi avrebbe scorto gli Aderley fra questi e desiderava osservare la sua reazione. Il loro invito era stato necessario, per non alimentare ulteriormente le voci sulla presunta scappatella degli eredi delle due famiglie: gli Aderley facevano parte della cerchia di amici dei Core da tempo immemore e la loro assenza non avrebbe fatto altro che confermare le voci messe in giro dai giornalisti di People. Dunque, nonostante tutto, la coppia era stata invitata e, forse spinta dalle stesse ragioni che avevano obbligato Erin ad includerli fra gli ospiti della serata, avevano accettato.

Fu con il cuore in gola che osservò la figlia avvicinarsi e porgere educatamente i suoi saluti a Maureen e Robert. Accanto a lei, Alistair, fino ad allora sereno e rilassato, si guardava intorno nervoso, porgendo solamente un orecchio distratto a quello che i tre si stavano dicendo. Tai, per parte sua, sembrava voler fare di tutto per evitare di fissare il volto della donna di fronte a lei, come se il solo incrociare i suoi occhi scurissimi e profondi la turbasse al punto da non riuscire a sostenere la conversazione.

Maureen, è un bene che abbiate spedito Eugene in Inghilterra a studiare. Ben presto quegli occhi sarebbero stati più che un problema per la nostra cerchia e per le nostre figlie.

Commenti futili fra amiche, sepolti da anni nel fondo della sua memoria, ma che ora riascoltava nella sua mente come se a pronunciarli fosse qualcuno al suo fianco. Lanciò un'ultima occhiata alla figlia, al suo viso puntato verso la punta delle scarpe, al suo lieve arrossire e d'improvviso, un brivido gelato le percorse la schiena e ogni tassello sembrò andare al suo posto.

-Vi dispiace se vi rubo un secondo Alistair?

Senza sapere cosa fare, irruppe nella conversazione, cercando appiglio nell'unica persona che forse in quel momento poteva dare una visione razionale del tutto. Lo condusse lontano, in un angolo nascosto della stanza e lo invitò a sedersi.

-Erin, ti senti bene?- le domandò questo nel vederla così turbata.

-La stai perdendo, te ne rendi conto?

Alistair distolse lo sguardo, lasciandolo correre fuori dalla finestra, sulle luci abbaglianti dei grattacieli di Manhattan. -Non so più cosa fare.

-Devi lottare per lei, Al. É sempre stata tua, fin da bambini. Se fossimo ancora ai tempi di mia nonna Maia direi che sei l'erede diretto di Nathanael Rafael, ma la verità è che voi due vi siete scelti a vicenda, quando ancora eravate troppo piccoli per comprendere questi giochi di potere e famiglie. È una delle cose più pure che esistano al mondo, la vostra relazione. Non puoi lasciare che un Aderley qualunque arrivi a rovinarla.

-Posso convincerla a restare fisicamente al mio fianco, Erin, sperando che non riesca a trovare la forza di andarsene, un giorno. Ma non posso fare nulla perché lei voglia davvero tutto questo, lo sai bene.

-Se c'è anche solo una minima speranza, devi farlo. Pensa alla famiglia, pensa alla Demeter. Taigete ha dimostrato di non essere sufficientemente forte per volere davvero tutto questo, per meritarsi un simile fardello, quindi tu devi esserlo per entrambi. Non desidera abbastanza tutto quello che le spetta, per nascita. Fai in modo che dimentichi Eugene Aderley e salverai non solo la donna che ami, ma anche te stesso l'azienda e entrambe le famiglie.

Alistair fissò la donna dritto negli occhi che in quel momento, nonostante le luci calde che illuminavano il salotto, apparivano colore del ghiaccio. Il suo sguardo era così risoluto, così freddo e sprezzante che, per un attimo, Erin ne fu turbata.

-Se deciderò di lottare, lo farò solo per me e per Tai, Erin. Non sarà per il bene dell'azienda, né per il nome dei Core. Ti prego di non insultare i miei sentimenti nei confronti di tua figlia sminuendoli come se fossi un arrivista che desidera solo legare il suo nome e quello dei suoi figli alla Demeter. Mi auguro che il discorso, con questo, sia chiuso.

La donna rimase ad osservarlo a lungo mentre si allontanava e, ritrovata la compostezza che lo contraddistingueva, si mescolava nuovamente fra la folla, distribuendo ai convitati il suo sorriso allegro e contagioso.

Poi, riavviatasi i lunghi capelli biondi perfettamente acconciati, si concesse un ultimo attimo di debolezza nel fissare con aria preoccupata Taigete, ancora intenta a parlare con gli Aderley che sembravano fingere che nulla fosse successo fra lei e il figlio, e si rialzò, ritornando ai suoi doveri di padrona di casa e splendente signora dei salotti newyorkesi.

 

***

 

-Sapete chi ho incontrato a un party a Bloomsbury?


Tai lanciò un'occhiata distratta al gruppo di ragazze riunite attorno al tavolino degli stuzzichini che precedevano la cena. Melany, Sarah, Bethany, le amiche di una vita. Era cresciuta con quelle ragazze, aveva condiviso tutto, gioie, successi, dolori. Sarah era persino stata la sua compagna di stanza al College e lei le aveva fatto da damigella d'onore, l'estate precedente, quando aveva sposato il suo Justin. Ma nessuna di loro in quel momento poteva sembrarle più lontana. Non una l'aveva chiamata per sapere come stesse, non una le aveva prestato un'attenzione quando era tornata di tutta fretta dall'Europa. L'avevano chiamata invece per serate mondane, per lo shopping, i brunch, la palestra, persino per i tornei di tennis organizzati dal circolo di cui i genitori erano soci. Volevano essere associate al suo nome, volevano la fama che la sua bravata le aveva conferito. Volevano sapere come ci si sentisse a vivere un mese con Eugene Aderley, il badboy dell'alta società, come l'aveva definito People, dopo tutto quello che gli era successo. Nessuno che si domandasse il perché le loro strade si erano incrociate, nessuno che collegasse i loro nomi e quelli di Ben. Aveva accettato uno ad uno quegli inviti, solo per mettere a tacere tutti, per dimostrare che nella sua vita non era cambiato nulla, che lei era sempre Taigete Core McDeer, l'intelligentissima erede della Demeter, la fidanzata di quell'angelo di Alistair Elliot.


-Eugene Aderley.


All'udire quel nome la stanza intera le sembrò sparire e concentrarsi sulle labbra dipinte di rosso Chanel di Melany, distorse in un ghigno sprezzante.


-Sembra che sia tornato dall'oltretomba...- commentó Sarah con una risatina. -Anni e anni senza avere sue notizie e poi eccolo che sbuca ovunque.


-Sapete che ha quasi fatto finta di non riconoscermi?- continuò a ciarlare Melany, senza curarsi di essere udita. -Poveretto, lo capisco. Non era mica fra gli invitati! Era li con un gruppo di attori del West End, a fare cabaret. Non sapevo che fosse caduto così in basso...


-Come minimo, con il tuo savoir-faire l'avrai trattato come un gigolo che si raccatta per strada.


Melany si portò una mano alla bocca, sorridendo maliziosa. -Beh, diciamo che avevo bevuto abbastanza champagne da non ricordarmi quale tipo di avances gli ho fatto.


Le altre tre la fissarono con aria di finto rimprovero.


-Non guardatemi così! Come minimo, vista la gente che frequenterà ora, una come me non gli capita da almeno cinque anni, poteva anche risparmiarsi di fare il disgustato!


-Pensate a che Natale starà passando, tutto solo... Mel, potevi insistere e rimanere a consolarlo per le feste.


Risatine di scherno, commenti stupidi. Tai chiuse gli occhi e appoggiò la testa alla colonna, lasciandosi andare con la schiena, ritrovandosi a sorridere fra sé e sé di quel disgustato rifiuto che Ade aveva porto a Mel. E, mentre le note di White Christmas di Otis Redding la catturavano, si lasciò andare alla piccola fantasia che la stanza intorno a lei sparisse e d'improvviso per farla ritrovare lontano, con la mente a una casa tipicamente inglese di cui nemmeno riconosceva le fattezze, a festeggiare un Natale più dimesso, forse solitario di quello a cui stava partecipando, ma che le riusciva a dare tutto il calore e il conforto che non aveva trovato in un singolo istante di quegli ultimi due mesi. Fu quello il primo momento in cui si rese conto che il pensiero di Ade era ormai definitivamente ripiombato, più reale che mai, nella sua vita. Fintanto che si era rifugiata nella protezione della sua famiglia, lui le era sembrato qualcosa di appartenente a un'altra realtà, che solo lei conosceva. Un mondo sospeso fra due vite, quella che si era costruita e quella che poteva avere, un mondo al quale solo lei e la sua fantasia potevano avere accesso. Ma sentire il suo nome pronunciato così, mentre rimbalzava sulle labbra delle sue amiche, lo avevano reso più vero che mai. In quel momento Ade non si trovava nella sua mente, ma all'altra capo del mondo, camminava per le strade di Londra, si ricostruiva una vita. Una vita in cui rifiutava le Melany del caso.


In quel momento la canzone terminò e Tai aprì gli occhi con un sorriso sereno dipinto in volto. Rivolse dunque la sua attenzione alla sala gremita di persone alle spalle delle sue amiche, quando si ritrovò ad incrociare lo sguardo di Alistair, fisso su di lei da chissà quanto.


Il ragazzo non sorrideva, ma la fissava tremante e le labbra serrate: aveva udito ogni parola e osservato la sua reazione e appariva chiaro che non riuscisse più a riconoscere la persona che le stava dinnanzi. Fu allora, per la prima volta, che a Tai sembrò di non ritrovare più le sue coordinate in quella cascata di azzurro splendente.


E, infine, abbassò il suo.



Quando, qualche ora dopo, Alistair rientrò in casa dopo aver vagato a lungo, senza meta, per le strade innevate di New York, non si sorprese di trovarla deserta e silenziosa.


Aprì la porta del ripostiglio, notando immediatamente che qualcosa non quadrava. Si diresse nella camera da letto, immobile, immutata, silenziosa, se non fosse stato per un piccolissimo dettaglio: un'anta dell'armadio era rimasta leggermente socchiusa.


Fu dunque con il cuore in gola, ma ormai consapevole di quello che era successo, che si diresse in salotto e sollevò lo sguardo verso lo scaffale più alto. Al posto del diario rimaneva solo il laccetto che lo teneva fermo e le pagine di una fotografia. Ritraeva Merope Core da giovane, la pelle lievemente abbronzata dal sole e un vestito bianco, morbido che le copriva il corpo sottile. Accanto a lei, Julian Cuvée, colto in uno dei suoi rari sorrisi la fissava, con il viso semicoperto dai capelli castani bagnati. Sembrava che lui le avesse appena fatto una battuta e lei non riuscisse a nascondere il suo divertimento nel fissarlo. Non aveva mai visto il viso di Merope Core disteso in una simile espressione.


Strinse il cartoncino fra le dita e chiuse la mano in silenzio, sentendo la fotografia accartocciarsi lentamente sotto le sue dita. Poi, con un gesto secco, la lasciò rotolare per terra e abbandonò la casa.


Persefone era tornata nell'Ade.


***


 

 

 

Lavorare la sera del ventiquattro dicembre sarebbe stato denigrante per chiunque.


Ma per un attore, Natale significava pienone. Nei camerini, tutti i suoi colleghi, entusiasti per il calore dimostrato dal giovane pubblico, discutevano animatamente del pranzo del giorno dopo, di quanto le rispettive mogli e fidanzate fossero stressate dai preparativi, di quanto sarebbe stato difficile mettere a letto i bambini quella sera; un paio gli domandarono quali fossero i suoi programmi per l'indomani e Ade rispose che sarebbe stato a casa di amici solo per non dover sopportare le loro facce stravolte all'idea che avrebbe passato il pranzo di Natale stravaccato sul divano a mangiare spaghetti di soia con pollo e verdure, bevendo birra e sciroppandosi una dopo l'altra le dieci puntate della seconda serie di The Game of thrones.


-Esci con noi a bere qualcosa?- gli domandò timidamente Tess, con gli occhi pieni di speranza.


Perché no, si era risposto: in fondo era carina, piacevole e sufficientemente persa di lui da accontentarsi di averlo per una notte soltanto, nel caso avesse voluto. E aveva appena detto che avrebbe trascorso l'indomani a casa, nel Surrey, quindi non avrebbe rischiato di rovinare i suoi piani di conquista dei Sette Regni con assurde pretese.


Quando aprì la porta, una folata di vento pungente gli colpì il viso. La strada era interamente ricoperta di bianco: aveva cominciato a nevicare poco prima che entrasse in teatro per le ultime prove dello spettacolo e in poche ore un bianco manto uniforme aveva ricoperto le strade e le macchine.


Il marciapiede davanti alla stage door era, grazie al cielo, deserto: il ventiquattro dicembre non erano in molti a passeggiare per strada, anche una di norma affollata come Shaftesbury Avenue, figuriamoci in quanti si sarebbero avventurati nel freddo, in mezzo alla neve ancora non spalata. Nessun bambino ad aspettare un autografo, una fotografia con Peter. Nessuno a rivolgergli sorrisi che non sentiva di meritare. Gli spettacoli nei teatri delle vicinanze sarebbero terminati più tardi del loro, quindi tutto il vicinato era immerso in una quiete irreale, una dimensione ovattata, sporcata solo dal lieve rumore dei suoi passi sulla neve. Si guardò intorno, rapito dall'atmosfera che lo circondava: il centro di Londra era un luogo dai mille rumori, frenetico, chiassoso: non era abituato a viverlo così, muto, immobile, come se si fosse fermato anche lui ad ammirare i fiocchi che copiosi si depositavano a terra in mille e mille mulinelli candidi. Di fronte a lui, parzialmente coperta da una bicicletta abbandonata, una ragazza con il viso seminascosto dal cappuccio della giacca a vento, stava poggiata al muro, muovendo lievemente la testa a ritmo di musica. Le gettò uno sguardo veloce, prima di distogliere l'attenzione, ma qualche istante si ritrovò a pensare con una stretta al cuore a chi stesse attendendo, così tenace nonostante il freddo e la neve. Alla sua destra, un uomo attendeva paziente che il piccolo barboncino che aveva appena depositato a terra, facesse i suoi bisogni: accanto a lui, una bambina che doveva avere poco più che due anni, saltellava eccitata nei suoi stivali di gomma a pois gialli nuovi fiammanti.


-Allora, andiamo? Sto morendo di fame!- Dietro di lui, i suoi colleghi erano usciti in massa dalla stage door, rompendo la quiete con il loro chiacchiericcio concitato. Sospirò profondamente sfiorando con le dita la piccola montagna di neve depositata sul paletto che divideva il marciapiede dalla carreggiata, sorrise alla bambina che lo fissava dal basso, intimorita dalla sua altezza, dal suo viso serio e probabilmente dal trucco che nonostante il detergente miracoloso di Tess non era riuscito a rimuovere completamente e seguì il resto del gruppo, addentrandosi nelle stradine di Soho.


Il viso di Tess era buffo, gli metteva allegria. La ragazza se ne stava in piedi al centro del locale affollato, con il boccale di birra semipieno sollevato, muovendosi a ritmo di musica, fissandolo intensamente. Aveva la netta percezione che sarebbe stata disposta a fare qualunque cosa, se glielo avesse chiesto. Qualcosa di ancora più stupido che mettersi a ballare All I want for Christmas is you per fargli capire che la sua idea di notte di Natale non prevedeva innocenti tradizioni come lasciare viveri per le renne di Babbo Natale in cambio dei regali.


-Sei gay?


-C… cosa?- sussultò sorpreso, assorto com'era nei suoi pensieri.



Minnie, un'altra delle sue colleghe, incrociò il suo boccale di birra con il suo, prendendo posto accanto a lui.

-Accontentala, per favore, prima che si appenda un cartello in testa con su scritto scopami.- lo pregò accennando con il capo a Tess. -A meno che tu non sia gay. Nel caso sappi che c'é un moretto niente male che ti sta mangiando con gli occhi da quando siamo entrati nel locale. Dannato, fammi capire qual é il tuo segreto.

-Non sono fidanzato.- le rispose Ade sorridendo.


-Capisco...quindi devo dedurne che c'é qualcuno...qualcuna?


-Non c'é nessuno... nessuna.- le rispose piatto.


-E allora non vedo quale sia il problema.


Il problema é che non é Tai. Sarebbe bastato ammetterlo per scrollarsi di dosso quel senso di colpa che provava alla sola idea di avvicinarsi a Tess e darle ciò che più desiderava. Sarebbe bastato essere onesti, per provare a lasciarsi alle spalle quell'assurda esperienza e continuare a vivere come aveva fatto sino a quel momento.


-Ade, senza offesa, ma sono quasi due mesi che fai parte della nostra compagnia. Arrivi, provi, sei gentile con tutti quanto basta, ma te ne stai sempre sulle tue. I primi giorni mi incutevi quasi timore, poi mi sono detta che forse sei solo timido. Passiamo le giornate insieme e hai pure cominciato a uscire con noi. Eppure nessuno é riuscito a conoscerti davvero. Tess ti sta offrendo un'occasione di uscire dal ruolo di principe del ghiaccio che ti sei guadagnato e ti sta offrendo una mano... fra le altre cose insomma...-


Era vero. Da quando era tornato da Taormina non si era fermato un istante: quasi miracolosamente aveva incontrato Jimmy Dale, una vecchia conoscenza dei tempi in cui ancora lavorava in città, con Ben. Gli aveva detto che nella compagnia in cui suonava, dovevano sostituire il personaggio principale, Peter Pan, che aveva avuto la brillante idea di scivolare da un' impalcatura su cui stavano montando la scenografia, rompendosi tibia e perone in un sol colpo.


-É uno spettacolo principalmente per bambini e famiglie, ma la produzione é importante. É un nuovo inizio, Aderley.


Aveva accettato, buttandosi nel lavoro a testa bassa, senza lasciarsi un minuto libero per pensare. Giorno dopo giorno, si era fatto benvolere da tutti, per i suoi modi educati, la sua posatezza, la sua riservatezza. Eppure non si era mai lasciato andare, non aveva stretto davvero amicizia con nessuno. Non voleva che nessuno entrasse a stravolgere nuovamente i fragili meccanismi della sua vita. O, forse, non era semplicemente pronto a sostituire chi, inaspettatamente, era sopraggiunta a rimetterli in moto. Eppure... Natale da soli faceva davvero schifo, lo aveva sempre pensato. E Tess se ne stava lì, con il suo viso buffo carico di speranza e gli stava offrendo una scappatoia: una notte per non pensare, una notte per essere solo un ventinovenne come tutti. Una notte per non restare solo.


Terminò con un unico sorso il calice di birra, poi lo posò e si alzò lentamente, avvicinandosi a Tess. Alle sue spalle, Minnie, esultò di gioia, battendo lievemente le mani.


Fu in quel momento che quella stupida canzone natalizia cessò e la musica cambiò d'improvviso mentre il ritmo di una batteria invase il locale.


Poi, a seguire, il basso di Barry Wallace, sempre più forte e fino a che l'urlo di John Lawler non riempì l'ambiente.


-Oh mio Dio, io adoro questa canzone!!- Tess si buttò in avanti, afferrandolo per una mano, trascinandolo con sé nel ritmo della danza.

Chelsea Dagger.


D'improvviso le pareti della stanza cominciarono a stringersi, soffocandolo, come se volessero inglobarlo, e tutto intorno a lui cominciò a girare vorticosamente e lui si ritrovò catapultato in una superstrada greca, alla guida dell'auto di Matt&Caroline, a canticchiare mentre Tai gli domandava con disappunto di abbassare quella roba che chiamava musica.


-Tess...scusami... devo prendere un boccata d'aria.


-Vuoi che ti accompagni?- gli domandò questa accarezzandogli il viso.


Scappò fuori scuotendo la testa, coperto da una leggera tshirt, senza premurarsi di recuperare nemmeno il maglione con cui coprirsi e si fermò in mezzo alla strada, respirando profondamente, nel tentativo di calmarsi. Fu allora che d'improvviso, si ricordò della ragazza ferma all'angolo di Rupert Street. Cominciò a correre a perdifiato lungo Old Compton Road, rischiando di scivolare sulla neve fresca, senza fermarsi se non prima di avere raggiunto la stage door del teatro: sudato e con il fiato corto, si era poggiò ansante sulle ginocchia, cercandola disperatamente con lo sguardo.


Ma la ragazza non c'era. Chissà se era mai stata davvero lì o era solo frutto di una sua stupida fantasia. Estrasse il cellulare dalla tasca, compose il numero di Tai e rimase in ascolto del messaggio vocale che gli diceva che il cliente contattato non era al momento raggiungibile.


Risponde la segreteria telefonica di Taigete Core McDeer. Al momento non posso rispondere, ma se volete lasciare un messaggio, mi premurerò di ricontattarvi al più presto.


-Tai, sono io, Ade.- rimase a lungo immobile, senza sapere bene cosa dire. La realtà era che non sapeva nemmeno da dove partire, a raccontarle tutto, ma nemmeno capiva se sarebbe stato giusto farlo. Alla fine, dopo aver esitato a lungo, sospirò profondamente e disse solo: -Buon Natale.


Che stupido ingenuo che era stato. A quell'ora, con ogni probabilità, Tai si stava preparando per la cena di famiglia. Se la immaginava sola davanti allo specchio, a sbuffare per le assurde pretese della madre che la voleva perfetta, il giorno della Vigilia più che mai. Poteva quasi vederla vestirsi controvoglia, lamentandosi senza sosta. Eppure, nonostante tutto quello che era successo, sapeva che stava sorridendo, allegra. Perché era Natale e lei era sicuramente il tipo da trasformarsi in un malefico elfo al sopraggiungere di dicembre e perché quel branco di idioti di Glee dallo stereo a tutto volume, avrebbero cantato le loro stupide canzoncine natalizie, contagiandola con le loro voci zuccherose e perfette. E perché... perché era fatta così e non poteva essere diversamente.


Abbassò il telefono, battendo i denti dal freddo, incamminandosi lentamente verso il pub.


-Tu devi essere suonato! Stai cercando di morire prima dei trent'anni per assideramento?


Ade si bloccò all'udire quella voce indignata. Sorrise fra sé e sé nel riconoscerla e si voltò lentamente.


Tai era lì. Avvolta in una giacca a vento scura fradicio di neve, il cappuccio calato sulla testa, e un pesante berretto di lana che le copriva la fronte. Se ne stava lì, in mezzo alla strada, fissandolo con uno sguardo severo, ma il sorriso dipinto sulle labbra.


-Sono molto delusa da te, Peter,- gli domandò alludendo evidentemente al ruolo che interpretava nello spettacolo da poco conclusosi. -Niente pantacalze verdi?


Ade sorrise impercettibilmente avvicinandosi a lei. -Non in borghese.


-Peccato,- gli rispose delusa. -Trovo che donassero particolarmente alle tue gambe da giraffa.


Ade sorrise, abbassando lo sguardo.


-Che cosa ci fai qui, Tai?


-Davvero non te lo immagini?-domandò con gli occhi che lo squadravano incerti. -Voglio che mi porti da Ben.- concluse dando voce a quello che non avrebbe mai voluto sentire.


-Ne abbiamo già parlato. Se Ben ha deciso di sparire dalla mia vita, senza premurarsi nemmeno di farmi sapere che è vivo, una ragione c'è e io devo rispettarla. Tu sei libera di fare ciò che desideri.


-Io desidero che tu venga con me. É una cosa che sento di dovere portare a termine insieme, Ade, lo capisci?


Lo capisco. Avrebbe voluto risponderle. Ma non posso.


Ritrovare Ben avrebbe significato sfondare senza mezzi termini una porta che, nonostante Tai, non era ancora sicuro di voler riaprire. Riaffrontare quell'eterno inverno che era stata la sua vita dalla notte dell'incendio, fino al momento in cui aveva incontrato Tai, quello sarebbe stato il prezzo da pagare se avesse deciso di seguire la ragazza. Avrebbe dovuto confrontarsi con l'amico di un tempo e, nonostante tutto capire perché. Perché dopo quello che avevano passato insieme Ben l'aveva escluso dalla sua vita, decidendo di renderne invece partecipe Luke Pendleton. Perché non si era confidato con lui rivelandogli la verità sulla notte dell'incendio. Perché non gli aveva domandato aiuto per affrontare l'orrore di quella realtà, come aveva fatto lui. Troppe domande che equivalevano ad altrettante paure da affrontare, troppi nodi da sciogliere, ai quali si era tenuto aggrappato in balia di quella tempesta che era stato il nulla vissuto negli ultimi anni. E ora che davvero aveva la possibilità di invertire la rotta, non sapeva più se avrebbe avuto la forza, o la voglia di farlo.


Eppure era ben conscio che Tai ne aveva bisogno al punto che aveva abbandonato la sua famiglia e il suo fidanzato a Natale, solo per salire su un aereo e pregarlo sotto una tormenta di neve di accompagnarla. Fra tutti, aveva scelto lui per scendere più in basso di quanto avesse mai fatto nella sua vita, per saltare giù al piedistallo dorato sul quale aveva vissuto protetta tutti quegli anni, sotto l'aura splendente del nome dei Core.


E infine, sollevando nuovamente lo sguardo verso gli occhi di Tai ancora in paziente attesa di una risposta, fu quello il momento in cui d'improvviso capì che se c'era una persona accanto alla quale sarebbe stato in grado di aprire quella porta, di sciogliere quell'eterno inverno al quale si era autocondannato, quella era lei. Perché aveva bisogno di lui quanto lui aveva bisogno di lei e perché in fondo sapeva che, sebbene tutta quella storia non fosse che uno stupido mito, Ade, senza la sua Persefone, non sarebbe mai potuto sopravvivere.


Annuì in silenzio, fissandola negli occhi.


-Verrò con te.


"Non li ho mai capiti, gli uomini come Julian e Virgile, ma li conosco da tempo e so che vivono in un mondo tutto loro e, vedi, credo che nel mondo di Julian Ade non potrebbe mai sopravvivere senza Persefone.

Va’ da lui, Merope".

Uomini come Julian Cuvée, uomini come lui.

Tutti, a New York, conoscevano il destino che avrebbe atteso Merope Core. Ma la vera storia di Julian Cuvée qual era?

"Ade, senza la sua Persefone, non sarebbe mai potuto sopravvivere".

Cosa volevano dire, realmente, quelle parole che si sentiva appiccicate addosso, che lo tormentavano dal momento in cui aveva rivisto Tai e che ora leggeva nero su bianco, nelle memorie di sua nonna?

Ade fissò il vecchio diario aperto fra le sue mani.

"Volta pagina," gli diceva l'istinto. Sarebbero bastate due parole per conoscere il suo destino. Ade infilò le dita sottili fra le pagine ancora sconosciute a lui, a Tai, indeciso sul da farsi.

Poi, con uno scatto, chiuse il diario e lo ripose sulla scrivania. Gettò un ultimo sguardo a Tai profondamente addormentata sul suo divano, si chiuse la porta alle spalle e uscì dalla stanza, lasciandosi alle spalle i richiami di una sorte che non era ancora pronto per conoscere.

 

 

 




 

 

 

 

 

 

 

 









Note delle autrici


Che razza di brutte persone che siamo.

Tre orribili donne. Sono passati mesi prima di questo aggiornamento.

Vi chiediamo scusa e ci impegnamo ufficialmente affinchè questo non succeda più fino alla fine che, ahinoi, arriverà presto.

Mancano infatto due atti prima di arrivare alla conclusione definitiva, alla chiusura del cerchio. Cominciate a fare ipotesi sul futuro dei nostri eroi? (che di eroico non hanno poi molto, ma vabbè).

Cosa ne pensate della "fuga" delle nostre Persefone per riavvicinarsi agli Ade? E quale destino è riservato invece, ai tre promessi sposi?

 

 

 

- Pagina Facebok dedicata a Persefone.
- Gruppo facebook/Isoletta/ Regno di Emily Alexandre, Nearest my heart.
- Gruppo Facebook di Lyra, Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.

Un abbraccio a tutti

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!






   
 
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