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Autore: rufus7    29/08/2014    0 recensioni
La storia di una famiglia sgangherata, che nonostante le difficoltà, riesce a superare ogni dramma potendo contare gli uni sugli altri, così diversi fra loro ma vincolati da un profondo legame. La storia comincia con la nascita del piccolo Charlie, un nuovo membro nella allargata famiglia Evans.
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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GLI EVANS
01 - GENITORI E FIGLI

 

Diventare genitori è qualcosa che stravolge la vita, soprattutto perché per il resto della loro vita la neomamma e il neopapà dovranno garantire al proprio figlio tempo, amore, sani principi con cui farlo crescere e... molta pazienza. Avere un figlio è una benedizione, o almeno è quello che Theresa Evans continuava a ripetersi mentre usciva dall'ospedale con il nuovo arrivato, Charlie, diretta a casa della suocera per la festa di benvenuto al bambino. Theresa aveva imparato che lasciare l'ospedale voleva dire abbandonare quell'equipe di infermiere grasse e sorridenti che ogni volta, sentendo il piccolo piangere, si accertavano che lei non avesse bisogno di aiuto. Tornare a casa avrebbe significato badare contemporaneamente a tre bambini e, sebbene Rose fosse la bambina di dieci anni più tranquilla e servizievole del mondo, sempre pronta ad aiutare in casa, John dall'alto dei suoi sette anni era in grado di portare all'esaurimento qualsiasi persona, specialmente sua madre. Tornare a casa voleva dire tornare a trovarsi coinvolta quotidianamente nei drammi di famiglia.

 

Noah accostò l'utilitaria blu e aiutò la moglie a scendere. Theresa teneva i suoi capelli rossi legati in una coda bassa, gli occhi verdi erano finalmente privi di occhiaie e la pelle chiara non le dava quell'aria da casalinga esaurita, bensì di donna rilassata. Entrambi sapevano che quella condizione sarebbe durata poco. Il marito prese suo figlio da uno di quei macchingegni che si legavano al sedile dell'auto e lo passò nelle braccia della madre. Aprì il bagagliaio e prese la borsa contenente pannolini, tutine di ricambio, bavaglini e una marea di altre cose estranee all'universo maschile. Si avviarono poi sul vialetto della casa dove era cresciuto, dalla quale lui e suo fratello Michael erano ormai andati via, ma alla quale ritornavano molto spesso. Quel luogo esercitava un potere quasi magnetico per tutti i membri della famiglia. La villetta era molto semplice e le mura verde chiaro, il tetto nero non molto alto e le numerose finestre che smaterializzavano le pareti ma che erano per la maggior parte coperte internamente da pesanti tende rendevano quell'edificio un posto sicuro in cui fare ritorno, un posto in cui ognuno si sarebbe potuto sentire a Casa. La coppia percorse il vialetto e suonò al campanello.

Aprì loro la porta Luke, il terzo figlio degli Evans. Occhi azzurri, capelli castani sempre arruffati ed un sorriso ampio, luminoso. Il piercing sul sopracciglio sinistro, l'orecchino sul medesimo lato e i numerosi tatuaggi sul braccio destro gli garantivano una fama da bad-boy presso le madri delle ragazze con cui usciva, anche se era tutt'altro che un cattivo ragazzo.

«Finalmente! Vi stavamo aspettando, dammi il piccolo!» Prima che Noah potesse passare il porte-enfant al fratello minore, dei passi pesanti, rumorosi e rapidi cominciarono a farsi sentire dal piano superiore e Rose e John, correndo anche sulle scale nonostante l'anno precedente avesse comportato una bella cicatrice sul mento del ragazzino, arrivarono ad abbracciare la mamma. Theresa li baciò entrambi e li strinse forte. Si erano visti la sera prima in ospedale, ma ai due sembrava passata un'eternità.

«Mamma! Fai che mi è caduto un dente? Proprio quefto qui davanti!» Il piccolo John, un bambino magrolino, dalla testa rosso fuoco e con un viso vispo cosparso di lentiggini sorrise indicando l'incisivo mancante.

«Oh, sono sicura che la Fatina dei Denti ti ricompenserà a breve!» Un'occhiata complice tra i due coniugi fece sorridere a sua volta Luke. Rose rise e sbirciò nella culla da viaggio tenuta in mano dallo zio. Il fratellino dormiva beato e delicatamente lo baciò sulla fronte. Il gruppetto percorse il corridoio e superata sulla sinistra la porta del ripostiglio e lasciandosi sulla destra le scale che portavano al piano superiore, attraversarono l'arco che apriva su una stanza enorme. Sul lato sinistro una cucina dai mobili in legno, con le superfici di marmo nero e con tanto di isola. A destra tre divani di pelle baige, un grande tappeto persiano e un camino spento, date le temperature ancora accettabili per essere metà settembre.

«Benvenuto!» Un gruppo di venti persone circa, sparpagliate per la camera, chi sul divano, chi appoggiato al muro, chi intento a finire di imbandire la tavola stava accogliendo il nuovo membro della famiglia. Ginevra si avvicinò ed abbracciò la nuora.

«Ti vedo bene, Theresa! Sei bellissima!» Le parole della donna erano sincere. Le due fortunatamente avevano un buon rapporto, smentendo lo stereotipo del classico legame suocera-nuora.

Tra il gruppetto si distinguevano Cornelia e la sua amica Roxanne, Michael, le due sorelle di Theresa, la famiglia degli Owen -gli storici vicini di casa degli Evans-, alcuni colleghi di Noah ed altri amici di famiglia. Ognuno, a turno ed evitando di soffocare Theresa e il piccolo, accolse con regali e abbracci i due e ben presto, dopo aver finalmente tolto dal forno la famosa crostata di mele di nonna Ginevra che piaceva tanto a John e Rose, il pranzo informale ebbe inizio.

 

CORNELIA

La ragazza chiacchierava con la sua amica Roxie, quando le vibrò il telefonino. Lo tirò fuori dalla tasca dei jeans e sullo schermo apparve il nome “Ginger”. Con sguardo confuso guardò l'amica e chiese: «Ginger? E'... E' uscita?». Le mostrò lo schermo, aprì il messaggio e, nonostante fosse scritto semplicemente “hey dove sei?” il respiro le si strozzò in gola.

«Da quel che sapevo doveva uscire sotto Natale».

Cornelia cominciò ad ansimare e si alzò di scatto, percorse il corridoio, salì le scale e aprì la porta frontale, quella di camera sua. Se la chiuse alle spalle e si lasciò scivolare sulla superficie rigida della tavola di legno. Era lì, seduta a terra, con la testa fra le mani e i capelli lunghi che le coprivano il viso. Non poteva essere vero, non doveva esserlo. Ginger l'avrebbe raggiunta in un modo o nell'altro, era questione di tempo. Non capiva cosa le avesse permesso di uscire così presto dalla casa di cura. Sua madre aveva parlato con i genitori di lei e le avevano assicurato che prima di Natale non avrebbe fatto ritorno. Le avevano assicurato altri tre mesi di serenità, mesi necessari per riprendersi da ciò che era accaduto quell'anno, ciò che aveva segnato lei e la sua famiglia per sempre.

 

MICHAEL

Quello che la maggior parte dei suoi ragazzi non capiva era che a lui piaceva tutta quella libertà, insomma, nonostante i trentadue anni che si portava dietro era pur sempre un ragazzaccio. Per lo meno nell'animo. L'attenzione di Michael fu riportata alla realtà quando un collega di suo fratello Noah gli si avvicinò. Entrambi erano in piedi dinnanzi al camino, con un bicchiere pieno di succo d'arancia. Lo guardò incuriosito per un attimo prima che questo gli rivolgesse la parola.

«Che bella casa, complimenti! Immagino sia bello viverci» Il tono di voce grave dell'uomo rendeva il tutto leggermente inquietante.

«Beh sì, non male. C'è sempre qualcuno in giro qui dentro. E' sicuramente meglio dell'appartamento in cui vivo io. Se non fosse per Shana mi sentirei solo li dentro.» Uno dei tratti distintivi di Michael era quello di divagare troppo durante anche la più semplice delle conversazioni. «Il mio cane», puntualizzò poi.

«Ad ogni modo, mi chiamo Tyler» L'uomo gli porse la mano e sorrise amichevolmente.

«Michael, ma credo tu lo sapessi già da Noah»

Il medico sorrise e Michael gli strinse di rimando la mano. Non aveva ben capito se quello era un normale tentativo di fare conversazione o se mirasse ad altro. Magari alle lenzuola del suo appartamento così vuoto nel centro di Little Roland Creek. Gli Evans però, sono noti per il loro studio delle persone e il neozio non poté che notare la fede alla mano di Tyler.

«Sei sposato?» Azzardò poi.

«Cosa?» notò lo sguardo di Michael sulla sua fede e alzandola disse «Oh, questa. Sì, da circa due anni».

«Caspita, questa donna deve aver fatto un colpaccio! Un medico, mica scema!»

«In realtà è un lui, si chiama James» disse sorridendo, divertito dall'espressione sorpresa del ragazzo. «E' andato un attimo in bagno, ma torna subito»

In quell'istante entrò nella stanza un ragazzo biondo con gli occhi color nocciola. Michael sorrise prima di lasciar spegnere la sua espressione lentamente, quando riconobbe James, o meglio, Jim. Non ricordava bene la sua faccia, ma quelle labbra carnose lo riportarono alla notte del venerdì scorso, fra le lenzuola del suo letto.

 

LUKE

Il giovane sedeva sul divano, fra i suoi due nipoti Rose e John. Erano molto legati, soprattutto perché in passato la famiglia di suo fratello aveva contribuito al suo sostentamento facendogli fare da babysitter alle due “pesti”, come amava definirli. Luke non aveva un lavoro, o meglio, non più. Lavorava come barista in un bar del centro, che aveva chiuso i battenti di recente per motivi ancora poco chiari. Alcuni parlavano di spaccio di droga, il che non era da escludere considerando tutte le volte in cui lo chef scompariva “per andare a fare l'inventario” o “per fumarsi una sigaretta in santa pace”, l'aspetto emaciato che lo contraddistingueva e la macchina nuova che si era comprato, cosa sospetta dato lo stipendio minimo che riceveva. Ad ogni modo, ora, il pensiero che più lo tormentava era quello di trovare un lavoro e non aveva intenzione di accettare di lavorare all'Alex&Gin, il ristorante di famiglia. Lavorare con sua madre avrebbe voluto dire vederla ventiquattro ore su ventiquattro e non era tra la lista dei desideri del ragazzo. Decisamente.

«Zio, perché non prendi la chitarra? Così cantiamo un po'!» Chiese il piccolo John, spalancando gli occhioni e sorridendo, mostrando quelle finestrelle nere nella dentatura.

«Non è il caso, nano. Sai che tua nonna ha studiato questa festa nel minimo dettaglio e non posso permettermi di fare qualcosa che non ha pianificato!» I due scoppiarono a ridere e Luke cominciò a fare il solletico al ragazzino.

«Ecco! Perché non diventi una rockstar?» Intervenne Rose, sollevando il dito indice come per dire “Eureka!”.

«Eh?» Rispose lo zio voltandosi.

«Beh sei senza lavoro, quindi puoi diventare una rockstar! ...No?» Chiese lei, notando lo sguardo divertito dello zio.

«Non è così facile, piccola. Dovrei essere molto più bravo, mettere su un gruppo, cominciare a farmi notare, e...»

«Il tempo non ti manca! ...No?» Continuò lei incalzando il discorso. Era una ragazzina molto brillante per la sua età. Anche troppo brillante.

Fare la rockstar. Per un momento la mente del giovane lo portò avanti di qualche anno, su un enorme palco, dinnanzi ad una folla urlante il suo nome. Sorrise sovrapensiero, poi scosse la testa e ritornò con la mente alla realtà. La realtà di un ragazzo di ventisei anni alla ricerca di un lavoro vero, concreto e raggiungibile.

«Sei troppo impicciona, tu!» Concluse lui, cominciando a fare il solletico anche a lei.

La rockstar. Non ci aveva mai pensato.

 

NOAH

Noah era sempre stato il figlio modello: bimbo prodigio a parlare a soli due anni, aveva imparato a scrivere e leggere autonomamente a cinque, ottenne riconoscimenti durante il suo percorso di studi e si era laureato col massimo dei voti a medicina. Aveva una vita tranquilla dopotutto. Una moglie stupenda, tre bambini bellissimi e in salute, una casa accogliente ed un lavoro soddisfacente. Era felice. O forse, era quello che gli altri si aspettavano da lui. Sì, perché ultimamente aveva cominciato a parlare con il dottor Mason, psicologo dell'ospedale in cui lavorava e dopo qualche seduta gli era stato detto “Noah, sei depresso.” Non capiva cosa lo rendesse così e il consiglio che gli era stato dato era quello di parlarne in famiglia. Ciò avrebbe comportato una crisi isterica di sua madre ed un pugno in faccia dalla moglie, perennemente esaurita a casa con i ragazzi. Si limitava quindi a prendere quelle pasticche che lo facevano dormire, relegando i pensieri negativi negli angoli bui della sua mente, anche se era solo questione di tempo: questi l'avrebbero sovrastato e stravolto.

 

GINEVRA

«Un brindisi, al nostro piccolo Charlie, affinché possa avere una vita lunga e felice!» Le parole di Ginevra risuonavano chiare e cristalline nella sala in cui era appena calato il silenzio. Si guardò attorno cercando il contatto visivo con tutti gli invitati, alzando il calice in aria. Non fece molto caso all'asenza della figlia e finito il brindisi brandì uno dei coltelli dell'argenteria e tagliò la torta di crema alle mandorle. La sua vicina di casa, Jenna, una donna di quasi ottantanni dai capelli viola, l'aiutò a servire la torta.

«Bella festa, come al tuo solito!»

«Grazie, Jenna. Anche se la torta è troppo secca...» Rispose Ginevra, assaporando la sua porzione, seduta sullo sgabello davanti all'isola della cucina.

«Ma che! E' perfetta, smettila di fare la perfezionista.» In effetti il piatto della donna era bello che spazzolato. D'altronde la taglia rotonda di Jenna era una conferma di quanto cucinasse bene e di come venisse apprezzato il cibo preparato da lei.

Cornelia rientrò nella stanza e si sedette accanto alla sua amica. Aveva gli occhi arrossati e il radar da madre la fece scattare in piedi.

«Cornelia, tesoro, puoi per favore venire con me a darmi una mano con... I vasi?»

«Adesso?» Rispose lei voltandosi e inarcando un sopracciglio, meravigliata e confusa da quell'insolita richiesta della madre. Non capiva cosa potesse mai c'entrare il giardinaggio con la festa di Charlie.

«Questione di un attimo!» Insistette lei e si avvicinò alla porta finestra che dava sul giardino del retro. La aprì e si incamminò verso il capanno degli attrezzi. La ragazza si alzò e seguì la madre, chiudendosi la porta alle spalle. Jenna, intanto, vedendo la fetta di torta di Ginevra abbandonata a se stessa decise che sarebbe stato un peccato lasciarla li.

«Allora?» Chiesa Cornelia.

«Che succede?» Chiese direttamente la donna, senza confezionare quella domanda attraverso una miriade di interrogativi preliminari. Non era brava in quelle cose, proprio no.

«Allergia» rispose neutra «Quindi niente vasi?».

«Tesoro, sappiamo entrambi che i tuoi occhi si gonfiano, il tuo naso si arrossa e le tue labbra si ingrossano solo di primavera!»

«Mi descrivi peggio di un mostro, mamma! Tranquilla sto bene» Si girò e si incamminò per rientrare in casa. Ginevra l'afferrò per il braccio e la guardò preoccupata. Non avrebbe permesso che riaccadesse come l'anno precedente. Non l'avrebbe lasciata scivolare via così.

«Sto bene!» sbottò la figlia e rientrò in casa. Eppure le era appena scivolata via dalle mani, proprio come quell'inverno.

 

Diventare genitori accade in un attimo e forse non ci si rende nemmeno conto. Il difficile sta nell'essere genitore. I figli possono essere motivo di gioia per una madre, arrivando però in alcuni casi a diventare il frutto delle ambizioni dei propri genitori, non riuscendo a realizzare i propri desideri. Tutto sta nel saper lasciare loro i propri spazi, nel permettere loro di compiere degli errori, imparando da questi. Tante volte addirittura viene lasciato ai propri figli uno spazio troppo ampio per loro e questi non fanno altro che allontanarsi, rifiutando qualsiasi contatto con dei genitori che innocentemente hanno allentato troppo la presa. Un figlio è una benedizione, ma può essere la fonte dei più grandi dolori per la famiglia. La felicità che un figlio dona ai propri genitori ha lo stesso potere del dolore che questo può recargli.

   
 
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