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Autore: Vala    21/09/2008    1 recensioni
Kabaji dopo la sconfitta subita per mano di Taka-san, non riesce a riprendersi del tutto dalla convinzione di non aver fatto abbastanza, di non essere abbastanza. Atobe [n.a. kyaaaaa!] cerca di spronarlo a migliorarsi, ma anche lui non è immune da dubbi, anche se di altra natura.
Nonostante l'idea di base mi piaccia, non è decisamente una di quelle che ho scritto meglio (anche perchè è una dei primi esperimenti su Atobe, e l'unica volta fino ad oggi che ho usato Kabaji). Non mi resta che implorare la vostra clemenza *l'autrice scappa a frustarsi per punizione*
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“…BURNING!!“
Il sudore rendeva difficile distinguere bene la figura dell’avversario, si sentiva le braccia deboli come non mai mentre tentava di tenere testa ai potenti colpi del suo nemico. Vide la sfera di nuovo tornargli indietro, di nuovo con indicibile potenza. Ma come poteva resistere al suo attacco?
“…BURNING!”
Un nuovo colpo, un nuovo crampo. Il suo braccio destro produceva rumori sempre meno salutari, pareva dovesse spezzarsi da un momento all’altro. Finalmente la palla non tornò indietro, la vide colpire la racchetta dell’avversario, la vide insistere prepotentemente mentre il suo nemico tentava l’impossibile, di rimandarla nuovamente al mittente, copiando la sua stessa mossa. Mail braccio destro del nemico era debole, provato quanto il suo. Non avrebbe retto a lungo. Con un sorriso trionfante, Taka, maestro dell’ululato intimidatorio, lasciò cadere una lacrima di pura gioia sulla terra rossa del campo da tennis mentre vedeva la racchetta di Kabaji schiantarsi con violenza contro la rete del perimetro, sfondata. Aveva vinto! Troppo felice per preoccuparsi del suo braccio malridotto, troppo estasiato per aver vinto, Taka indicò il nemico con la racchetta tesa.
“ORE…ORE…BURNING!” strillò al compagno che sbuffò raccogliendo la sua arma ormai distrutta.
La mano di Kabaji sfiorò la terra rossa depositata sulla sua racchetta e si ritrasse. I suoi occhi si riempirono di lacrime.
“Basta così per oggi, Taka-san! Ti ringraziamo per aver accettato l’invito…ora puoi andare!”.
Taka, sorridendo da monello, reso baldanzoso dalla vittoria, raccolse la sua maglia da titolare e con un cenno del capo in direzione di Atobe, lasciò il campo di gioco. Non appena la sua racchetta fu riposta nell’apposita custodia, il terribile “burning” si esaurì lasciando al suo posto un’incredibile fame. Lo stomaco brontolante, non si preoccupò nemmeno di controllare le condizioni del suo avversario sconfitto.
Kabaji guardava la sua racchetta come se la vedesse per la prima volta. Impossibile capire cosa stesse pensando, del resto era impossibile sempre. Atobe però lo capiva, gli bastava vedere i suoi occhi umidi per rendersi conto di ogni cosa. Gli posò una mano sulla spalla destra ed il corpo del suo compagno di squadra sobbalzò. Doveva fargli parecchio male.
“Kabaji…sei stato bravo, ma non abbastanza…”.
“Usu…” rispose l’altro raccogliendo a fatica la racchetta sfondata, le dita che rifiutavano di flettersi alla sua volontà.
Atobe se ne andò lasciandolo da solo in mezzo a quel campo deserto, quel campo di terra rossa dove lui aveva visto la sua ennesima sconfitta. Non avrebbe mai battuto Taka-san, era troppo forte per lui. Un lacrimone scese lungo il suo naso e si adagiò con incredibile precisione sul manico della racchetta ormai inutile. Alzò la testa irritato con se stesso per quella debolezza. Non era da lui. Gettò la racchetta a terra facendola rimbalzare e se ne andò. Per quel giorno ne aveva abbastanza.
La terra rossa portata dal vento ricoprì parte dello strumento sportivo abbandonato che giaceva al centro del campo, vicino alla rete. Atobe sospirò. Era stata una sua idea far allenare Kabaji con Taka, pensava di spronarlo a migliorare, a battere il Seigaku con la sua potenza incredibile. Invece aveva prodotto l’effetto contrario, dagli occhi del suo compagno di squadra traspariva tutt’altro che desiderio di rivincita: voleva mollare.
Atobe si inginocchiò accanto alla racchetta e la sfiorò pentito. Era uno stupido. Ora il suo Kabaji avrebbe di certo mollato la squadra, avrebbe abbandonato tutti, avrebbe lasciato lui. Voleva aiutarlo, invece non aveva fatto altro che peggiorare la situazione, aveva ritenuto il suo compagno più forte di quello che in realtà era. Le sue dita si chiusero sul manico e sentì l’umido della lacrima solitaria, debolezza del tennista sconfitto, debolezza del suo Kabaji. Non lo aveva mai visto piangere. Si portò il palmo alle labbra e baciò la lacrima rivelatrice di tanto dolore. Era uno stupido, meritava di perderlo.
Un rumore alle sue spalle lo fece voltare di scatto, colto alla sprovvista, la mano traditrice posata su una guancia come se potesse spostare il dolore di quella lacrima al suo volto tramite il contatto. L’alta figura di Kabaji, ancora in divisa da tennis, oscurò il sole. Stava portando qualcosa sulla spalla sinistra, quella che non gli faceva male per il mach.
“Kabaji…cosa fai con quella scala…?”.
Kabaji alzò gli occhi e indicò con un dito tremante la pallina da tennis incastonata nella rete, troppo in alto per arrivarci senza l’aiuto di una scala. Atobe si sentì ancora più un idiota, gli sembrava di essere stato colto in flagrante in un momento intimo. Si alzò, si levò la polvere rossa dai vestiti e prese dalle mani del compagno da scala in metallo.
“Tu tienila, io prendo la palla…”.
“Usu…”.
Posizionò la scala in prossimità della rete e salì i pioli. Uno, due, tre…ad ogni gradino avvertiva su di sé lo sguardo di Kabaji che da sotto doveva avere un’ottima visuale di…meglio non pensarci. Non poteva permettersi di mostrare le sue debolezze. Le sue dita agili afferrarono la pallina e prese a tirare. Tirava, ma quella maledetta sfera non voleva saperne di staccarsi dalla rete. Con un grugnito silenzioso, gonfiò i muscoli delle braccia e strattonò con violenza. Perse l’equilibrio.
Atobe, signore dei campi da tennis, scivolò indecorosamente dalla scala in metallo e finì dritto dritto tra le braccia aperte di Kabaji che lo sostenne mentre scivolavano a terra insieme. Il compagno, la spalla destra ancora dolorante, emise un gemito di sofferenza. Eppure l’aveva voluto afferrare al volo nonostante tutto.
Atobe alzò gli occhi a incontrare quelli umidi di Kabaji che lo guardavano con tenerezza quasi a volersi accertare che stesse bene. Nel tempo di un battito, Atobe si protese verso il suo salvatore afferrandogli la testa tra le mani, toccandogli i corti capelli neri ispidi, avvertendo il suo sudore ancora bagnato dopo la partita impegnativa. Gli leccò una guancia. Kabaji sospirò senza far nulla per impedirlo. Era il suo capitano, il suo migliore amico.
“Kabaji…” sussurrò Atobe sfiorandogli il naso con il suo.
“Usu…” rispose l’altro trattenendo il respiro.
Troppo vicini, sempre più vicini, terribilmente vicini…
“Ahi!”.
Atobe si ritrasse portandosi le mani alla testa. Qualcosa lo aveva colpito. Quel colpo lo fece anche rinvenire e rendere conto improvvisamente di dove si trovava e di cosa stava facendo. Si alzò di scatto scostandosi dalle braccia di Kabaji che restava intontito a terra a guardarlo togliersi la terra rossa dai pantaloni immacolati.
“Sistema tu, Kabaji!”.
“Usu!”.
A Kabaji non restò che guardare la schiena di Atobe allontanarsi, distante, freddo. Sorrise tra sé e sé, senza farsi vedere da nessuno. La sua mano aperta si spostò per far leva ed alzarsi, e sfiorò la pallina da tennis che aveva deciso finalmente di scendere, anche se nel momento sbagliato. ricordando la faccia buffa di Atobe, Kabaji allargò il sorriso ed involontariamente gli scappò un suono molto simile ad una risata. Era la prima volta che l’aveva visto colto alla sprovvista da qualcosa. Afferrò la sfera gialla con un misto di curiosità, come se da un momento all’altro quell’oggetto avesse potuto inseguire Atobe per cadergli di nuovo in testa, quasi fosse una pallina ammaestrata. Se la rigirò tra le mani notando le scritte che prima non aveva visto. Non era una delle sue, l’aveva portata Taka usandola come scusa per giustificare il ritardo all’appuntamento. Aveva tardato perché nella fretta di andarsene aveva rovesciato i contenitori delle palline sparpagliandole negli spogliatoi e aveva dovuto raccoglierle, rimettendole a posto in tutta fretta. Peccato che aveva sbagliato a raccogliere la pallina.
La risata scomparve dal suo volto rapida come una stella cadente. In effetti non era poi così strano pensare ad una pallina ammaestrata. Su quella pallina c’era scritto “Tezuka”.
  
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