Anime & Manga > Saint Seiya
Ricorda la storia  |      
Autore: Francine    31/08/2014    7 recensioni
Resti con le mani sullo sterzo, il motore che borbotta in sottofondo. Il mare splende azzurro ad un centinaio di metri sotto di te e il vento ti porta il profumo salmastro della salsedine. Spegni il motore, apri lo sportello ed esci. Te la farai a piedi e ti impolvererai il fondo dei calzoni, ma pazienza. Hai fatto trenta, tanto vale fare trentuno.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Scorpion Milo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
1.
 
Ma chi me l’ha fatto fare?!, ti chiedi tirando il freno a mano.
La strada che hai seguito passo passo, controllando la cartina sul sedile allato, s’inerpica per un’altura, poi diventa una mulattiera piena di fossi tanto profondi da lasciarci il semiasse, e forse anche qualcos’altro, ed infine cambia in un sentiero di rocce e sassi e polvere che neppure le capre. Eppure Tonio ti ha avvisato, ricordi? Si è seduto davanti a te, due bicchieri di vino sul tavolo ed il gatto nero tra le braccia, e ha scosso la testa.
«Non aspettarti che sia facile. I cartelli non ci sono, e quando ci sono indicano direzioni sbagliate o sono messi a casaccio. E le strade spariscono senza preavviso», ti ha detto, ma tu lo sei stato a sentire?
No. Gli hai sorriso, in quel modo a metà tra lo schiaffo trattenuto a stento e la genuina simpatia, gli hai porto una cartina ed un evidenziatore e gli hai chiesto: «Mi segni la strada corretta, allora?».
Ed eccotela, la strada corretta, un sentiero sottile sottile che s’inerpica su per un rialzo costellato da macchia mediterranea: i pini marittimi con la loro chioma ad ombrello, le siepi di rosmarino punteggiate di fiori blu, le ginestre, i lentischi, il mirto, i fichi d’india e rocce, rocce, rocce.
«La casa è in cima. Non puoi sbagliarti, è l’unica esistente nel raggio di chilometri», ha aggiunto Tonio, e ti ricordi cosa ti ha chiesto mentre vi salutavate stringendovi la mano? «Sei sicuro di quello che stai facendo?»
E tu hai risposto di sì, annuendo con convinzione. Sai da te che non ti accoglierà a braccia aperte, e adesso che la collina ti sovrasta minacciosa nella sua quieta indolenza, ti chiedi se il gioco valga davvero la candela. 
Ha senso arrampicarsi come una capra su per quel sentiero solo per dirle ciao e farsi spaccare qualcosa sulla testa? 
Ha senso girare la macchina, tornare in città e prendere il primo traghetto per la Grecia dopo esserti attraversato l’Italia da nord a sud e la Sicilia da una costa all’altra?
Resti con le mani sullo sterzo, il motore che borbotta in sottofondo. Il mare splende azzurro ad un centinaio di metri sotto di te e il vento ti porta il profumo salmastro della salsedine. Spegni il motore, apri lo sportello ed esci. Te la farai a piedi e ti impolvererai il fondo dei calzoni, ma pazienza. Hai fatto trenta, tanto vale fare trentuno.
 
2.
 
La casa è una costruzione ad un piano solo, come tante ne hai incontrate strada facendo, di un bianco accecante in mezzo ad un cortile recintato da un muretto di sassi e rocce. La osservi appoggiato al tronco di un pino, le cicale che friniscono e non sono neppure le due del pomeriggio. 
E adesso? Adesso che le dico?, pensi con le mani in tasca. Un «ciao come va?», buono per ogni occasione, oppure meglio avanzare e tacere, ed aspettare che sia lei a salutarti? Rifletti sul da farsi quando ti accorgi che qualcosa non va. Sei lì che aspetti da quanto, dieci minuti? Ormai ti avrebbe visto e sarebbe uscita armata di fucile a sale per scacciare l’invasore dal suo mondo. Possibile anche che sì, ti abbia visto ma che se ne resti in silenzio sperando che tu creda che non sia in casa e che giri sui tacchi e torni da dove sei venuto, ma qualcosa ti dice che non è così.
Il silenzio è assenza di rumore. Questo è assenza di suoni. Di vita. Per questo ti convinci che la casa è deserta, che lei non ci sia, che se ne sia andata. Magari ha anticipato la partenza di un paio di giorni. 
Fantastico!, pensi avvicinandoti. Busserai alla porta e aspetterai che ti rovesci in testa un secchio d’acqua ghiacciata. Col caldo che fa, sarà piacevole.
Ti fermi davanti lo zerbino, fai un respiro profondo e stai per fare toc toc sul legno verde scuro quando l’occhio ti cade sul vaso di fiori alla tua destra. C’è qualcosa che brilla, nascosto con poca convinzione tra le foglie verdi. Un mazzo di chiavi. Le chiavi di casa. Un rapido colpo d’occhio ti dice che non è partita per Atene, e riprendi a respirare: le persiane sono accostate su questo lato della casa, ma sono spalancate sulla facciata opposta. Tornerà a breve. Forse, o avrebbe chiuso tutto. O forse anche no. Chi vuoi che vada a rubare a casa di un Santo di Athena, specie se questo abita sul cucuzzolo affacciato sul nulla?
Nessuno, ti dici, le mani sprofondate nelle tasche e lo sguardo ad abbracciare la casa.
Questo, però, non risolve il tuo dilemma. Che fare? Aspettarla, oppure accomodarti in casa? Dopo tutto, le chiavi sono lì, nel vaso di fiori. Pronte all’uso, quasi. Basterebbe chinarti, raccoglierle, farle girare nella toppa ed entrare. Ma sai che lei ti caverebbe gli occhi, e stavolta le avresti dato un motivo più che valido per urlare ad alta voce alla violazione di domicilio.
Sarebbe capace di chiamare la polizia solo per farmi dispetto, pensi. E dentro di te hai l’assoluta certezza che sì, lo farebbe. E se ne starebbe in disparte, a gustarsi la scena con sadico piacere.
Scuoti la testa, il sudore che ti imperla la fronte. Fa un caldo infame e spendere energie in questioni di lana caprina non è sensato. Affatto.
Aspetterai fuori casa, e pazienza se lei rincaserà chissà quando – «Forse anche domani mattina», ti sussurra una vocetta antipatica, con lo stesso accento di Aiolia; vorrà dire che ingannerai l’attesa cercando qualcosa di intelligente da dirle. Nella speranza che non rincasi davvero domani mattina. Perché hai una certa necessità. E l’idea di farti trovare con le braghe calate mentre annaffi le siepi attorno a casa sua non è delle più allettanti. Tutt’altro.
 
3.
 
Sei fortunato. È passato poco meno di un quarto d’ora quando senti dei passi. Qualcuno sta risalendo per un sentiero alla tua sinistra, nascosto tra gli arbusti. Pestando un po’ il terreno di sabbia compatta mentre qualche sasso ruzzola via strada facendo. Canticchiando. In una lingua che non conosci. Con la sua voce.
Ti volti, d’istinto, in direzione della canzone a mezza bocca, quando le strofe si intrecciano con i “nananana” delle parole dimenticate, rimosse, inventate. Lei appare con un vestito azzurro addosso, i capelli legati in una coda scomposta, fermata da una penna, una rivista che sventaglia nella mano e una stuoia di paglia arrotolata che le sbuca da sotto il braccio.
Nemmeno fosse una baguette, pensi. Avendo il buonsenso di tenertelo per te. Perché lei si è accorta di avere visite. Visite non previste, o non si sarebbe fatta trovare, pensi, vedendo i suoi occhi allargarsi ed i suoi passi fermarsi. I piedi si inchiodano a terra, come se fossero diventati di piombo senza preavviso, il resto del corpo è sporto in avanti, come se stesse ancora proseguendo per inerzia. Ma è un attimo. Ti fissa. Sbatte le palpebre come per sincerarsi che sia davvero tu, e riprende a camminare. Fingendo di aver evitato una buca inesistente o una radice che sporge dal terreno.
Metti su un sorriso cauto. Lei ha lo sguardo corrucciato. Darà la colpa al sole, pensi. Al sole e al fatto che non indossa gli occhiali, lei. 
Aspetti che ti saluti per prima. Che ti riconosca. E che ti faccia entrare nel suo territorio senza azzannarti alla gola. È così che si fa con i gorilla e con i lupi, giusto?
Lei si avvicina. Muta. Né una parola, né un cenno, niente. Una statua di sale che cammina. Sei sicuro che svolterà per casa sua prima di incrociare la tua strada, il tuo spazio vitale, e si chiuderà l’uscio alle spalle senza colpo ferire. Ne sei così certo che avanzi un passo verso di lei, con la convinzione assoluta e disgraziata che lega il martire al suicida, quando lei ti spiazza. Si ferma, ma con un piede già oltre il recinto di pietre basse, e ti guarda. Ti sfida con gli occhi, anzi.
«Ciao», ti dice. Con tono neutro.
«Ciao», le dici. Avanzando di un altro passo. Cauto. Nemmeno potesse esserci una botola nascosta sotto al terreno.
Silenzio.
Lei ti fissa. Tu taci. Non dovrebbe toccare a lei, la battuta successiva?, pensi; ma poi capisci che non state giocando a tennis. E che se anche tu decidessi di tempestare la sua porzione del campo di diritti e rovesci e volée, lei non troverebbe ragione per risponderti. Ti lascerebbe a giocare da solo. Contro un muro. Sai che divertimento, pensi.
«Bel posto, qui», dici. Baloccandoti con l’anello delle chiavi. Guardandoti attorno. Per rompere il ghiaccio. Perché tu hai abbozzato nella tua mente qualcosa da dirle, ma hai fatto un errore di pianificazione. Un errore grosso tre volte la casa che vi sta osservando. Hai dato per scontata una sua risposta; perché è così che si fa, in un dialogo. Uno parla, l’altro risponde. E viceversa. Altrimenti è un monologo. 
«Grazie.» E basta. Forse spera che tu te ne vada. Forse vuole che tu tolga il disturbo. O forse è solo cocciutaggine la sua, la stessa che piomba gli zoccoli dei muli e le teste delle capre.
E basta, con queste capre!, ti dici. Avanzando di un altro passo. Perché il bisogno s’è fatto più impellente. E se non ti farà entrare, giuri a te stesso che le battezzerai tutto il giardino. Cespuglio per cespuglio. Sì, poi ti caverà gli occhi. Ma vuoi mettere la soddisfazione?
«Mi stavi cercando?», ti chiede, un lampo di consapevolezza che le attraversa lo sguardo di ferro. Può essere che tu sia lì per riferirle un messaggio, anche se la cosa è poco probabile. Per mandare un suo pari ad avvisarla dev’essere successo qualcosa. Per mandare te, dev’essere qualcosa legato alla vostra ultima missione. Che risale ad otto mesi fa, ed in otto mesi si fa a tempo a morire e rinascere, d’accordo. Ma tutto è possibile, no? Specie quando maneggi gli atomi a tuo piacimento o giochi con il potere delle stelle.
«Sì.» E aspetti. Vuol condurre lei il dialogo, adesso. Decidi di accontentarla.
«È cosa grave?», ti domanda, le braccia rigide, lungo i fianchi, la stuoia arrotolata e stretta al busto come la lancia di un cavaliere di re Artù.
«No», rispondi.
«Riguarda Athena?»
«No.»
«Quindi, sei qui di passaggio?»
Hai la convinzione, intima e profonda, che lei volesse chiederti «Che diamine stai facendo, allora?», ma che abbia optato per una formula neutra all’ultimo minuto.
«Sì», le rispondi. «Sono qui di passaggio.» Perché non è proprio una bugia. Tu sei di passaggio in Sicilia. Invece che atterrare ad Atene, il tuo volo s’è fermato a Milano. E da lì, un treno al volo per Firenze, un’altra ora e mezza col regionale fino a Livorno, e poi via, in macchina fino a Roma e da lì un ora e passa di volo fino a Palermo, per poi rimontare in auto e attraversare tutta la Sicilia coast to coast per farle un saluto ed imbarcarsi di nuovo sul traghetto per la Grecia.
«Ok. Buona passeggiata.» E se ne va verso casa. A passo di marcia, quasi. Lasciandoti come un fesso ad osservare la sua schiena che si allontana, piantato in asso nemmeno fossi uno dei pini che compongono il paesaggio.
«Aspetta!», le dici. E non ti accorgi che nel mentre le hai afferrato un polso. E che lei ti rimanda uno sguardo di ghiaccio. Come se la tua mano scottasse.
«Che c’è?», ti domanda. Ma con lo sguardo. La sua voce resta muta.
«Posso usare il bagno?»
Lei sgrana gli occhi, poi li riduce a due mezzelune sospettose. E tu ti domandi se le hai davvero chiesto una cosa simile. Ma come? Non avevi deciso di chiacchierare del più e del meno e poi di far scivolare nel discorso, nemmeno fosse una saponetta dispettosa, il fatto che avete ancora un conto aperto? Che hai perso una scommessa con lei e che le scommesse si pagano?
Sì, ma c’è un bisogno irrefrenabile ed irresistibile che ti pulsa nel basso ventre, adesso, e che ha fatto irruzione nella cabina di regia. Ed il resto del tuo corpo si è unito all’ammutinamento.
«Mi hai aspettato solo per andare…», ti chiede.
«No!», dici, ma lo dici dentro di te, perché a lei rispondi con un imbarazzato:«Sì.».
Piega la testa da un lato. «Ed io ero convinta che voi maschietti poteste farla ovunque», dice. Liberandosi dalla tua stretta. Fa un paio di passi verso casa, con te che le trotterelli dietro, e fa appena in tempo ad indicarti la porta del bagno che tu l’infili a razzo, masticando un «Permesso» che assomiglia più ad un sospiro.
 
 
4.
 
Quando riemergi da dietro la porta a vetri smerigliati, lo spirito rinfrancato e alleggerito, il viso rinfrescato dall’acqua ed accarezzato dal profumo dell’asciugamano, lei ti aspetta sull’uscio di casa, le braccia incrociate.
Non è un buon segno, ti dici. «Grazie. Ne avevo proprio bisogno.»
«Sono contenta per te», dice. Senza chiederti se vuoi bere qualcosa, se hai fame, se vuoi farle compagnia per pranzo. I normali convenevoli tra gente civile, insomma. Niente di tutto questo. «Mi scuserai, ma ho un’emicrania pazzesca e vorrei mettermi a dormire. Tu capisci, vero?»
No che non ti scuso, pensi. Perché tu alla storia dell’emicrania non credi neppure per un secondo. Non stava cantando, fino a cinque minuti fa, mentre risaliva il crinale? Da quando in qua chi ha mal di testa canta? «Sicura che non ti serva aiuto? Vuoi che ti vada a prendere le medicine?»
Lei ghigna. «No, non ce n’è bisogno. Ho solo preso troppo sole. Niente che una buona doccia e una dormita non possano sistemare.»
«Insisto.»
«Anch’io.» Ed il tono è di acciaio temprato, e affilato come una spada. «Se adesso vuoi scusarmi, io andrei a riposare. Buona passeggiata.» Ti sta indicando la porta con la spalla ed un sorriso fermo. Di chi promette di sbatterti fuori in tre, due, uno…
«Grazie ancora per il bagno», le dici superandola ed uscendo di casa, le parole che ti escono dai denti dure come macigni.
«Dovere», dice lei, chiudendo la porta con un suono secco. Di ramoscelli spezzati. Di fiori ormai secchi davanti ad una pietra tombale.
Ti lasci la casa alle spalle e scendi per la mulattiera di rocce a grandi passi nervosi, col rischio di mettere un piede in fallo e spezzarti qualcosa. Una caviglia. O l’osso del collo, ad esempio. Sarebbe la ciliegina sulla torta. E rallenti il passo, pur se vorresti spaccare tutto ciò che ti si para d’innanzi. Perché tu lo sai che lei ti lascerebbe lì. A morire di stenti, con una caviglia spezzata o col cranio aperto in due.
Ma chi me l’ha fatto fare?!, ti chiedi, per l’ennesima volta, e senza addivenire ad una risposta che non ti faccia mandare te stesso a quel paese, raggiungi cauto la fine della discesa. Solo per accorgerti che non hai più le chiavi dell’auto.
Dove diamine sono finite?, ti chiedi. Cercandole in giro. Non è passato nessuno e l’auto, pur se all’ombra, è una specie di forno. E poi ricordi. Rivivi la scena passo passo. Tu che parcheggi sotto l’unico albero abbastanza grande. Ti metti le chiavi in tasca. Risali la mulattiera. Attendi mademoiselle che torni. Tu che vai in bagno. Posi le chiavi sulla lavatrice...
Ecco dove le hai lasciate! Sulla lavatrice! Ti volti verso la mulattiera che hai appena percorso. 
Fanculo, pensi. Non puoi andartene senza chiavi. Vado, le riprendo e tolgo il disturbo. Stavolta sul serio, ti dici, mentre ti accingi a scalare quel sentiero sconnesso. E ti dai dell’idiota per aver anche solo pensato di invitarla a mangiare qualcosa. Una trattoria lungo la costa l’avreste trovata. Magari due panini e un gelato.
Magari la trovo lo stesso. E carico su la prima sventola che incontro, ti dici. Ed inganni la salita immaginandotela, questa sventola che non aspetta altro che di incontrare un fusto come te a bordo di un maggiolone bianco panna con la capotte abbassata. In fondo, non l’ha detto anche il tizio dell’autonoleggio che quello era il modello più richiesto?
Non ti rispondi. Non ti rispondi perché qualcosa interrompe i tuoi pensieri. Una musichetta. Il chiasso di un televisore, che buca il silenzio della zona e ti arriva come uno schiaffo, mentre ti avvicini alla casa.
Non avevi l’emicrania?, pensi. Le mani sui fianchi e l’umore che borbotta dentro di te, come una pentola a pressione che minaccia di implodere.
Avanzi. A passo di carica. Indeciso se sfondarle la porta a calci oppure se tempestarle l’uscio di pugni e cantargliene quattro, prima di recuperare le chiavi e lasciarti quel posto assurdo alle spalle. Decidi per i pugni. Così da avere le mani impegnate e non strozzarla. Anche se se lo meriterebbe, pensi. Ma poi ti fermi, le nocche a mezz’aria. Hai visto qualcosa. Qualcosa di molto, molto interessante.

«Te l’ho detto, Reeva. Tu ami ancora Billy.»
«No, Joshua! Non dire questo! Tu sei l’unico uomo che io abbia mai amato!»
«No, basta. Non aggiungere altro. Io…»

Il dialogo arriva forte e chiaro all’esterno della casa. Battute trite e ritrite che ti chiedi come diamine facciano a calamitare l’attenzione delle donne, ma che mai come adesso apprezzi e ringrazi. Perché ti concedono tempo. Per pensare. E ricordare.
Hai visto un tavolino ed un ombrellone, sul lato ovest. Forse è lì che mangia, quando c’è bel tempo. Ed un sorriso malvagio si allarga sul tuo viso. Ti chini, le mani a coppa. Raccogli quello che hai visto. Piano. Piano. L’osservi. Pensi che sia piccola. Troppo per lo scopo che ti sei prefissato. Ma se ce n’è una così, grande appena la metà del tuo pugno, non vuoi che ce ne sarà qualcuna di più grande? 
Sì che ci sarà. Basta solo cercare bene. E per cercare bene serve tempo. E tu, di tempo, ne hai da vendere. Tutto il pomeriggio.
 
 
5.
 
L’emicrania è stata breve, visto che verso le quattro meno un quarto è uscita di casa ed è tornata in spiaggia, stuoia arrotolata e rivista d’ordinanza. Stavolta ha aggiunto anche un cappello. Dovesse evaporarle quel poco di cervello che ha, hai pensato sentendola canticchiare. Hai aspettato qualche minuto, così da evitare che tornasse indietro e ti cogliesse in flagrante, e sei sgattaiolato dentro. Dalle finestre spalancate sul retro. Hai fatto un giro veloce della casa. Hai recuperato le chiavi dell’auto, te le sei ficcate in tasca e ti sei allontanato. Sei sceso, hai messo in moto e ti sei fermato a pranzare strada facendo. Due panini al prosciutto e un caffè. E hai fatto quattro chiacchiere con il proprietario. Ezio, Enzo o una cosa del genere. Quattro chiacchiere senza peso, la sigaretta che s’innalzava leggera nell’aria, seduti ad un tavolino, tu, lui ed il cavalier Testasecca, che in fatto di donne lui sì che se ne intendeva e che ti ha pure lasciato il numero di telefono di Serenella, la bottana del paese. 
«Dica che la mando io, giovanotto!», si è rassicurato salutandoti. Perché s'era fatta l'ora dei Vespri. Che a stare a sentire lui ed Ezio, Enzo o quel che è, hai speso un intero pomeriggio. Utile, sì. Ma c’erano solo due cosette da sistemare, prima di metterti a caccia sul serio. E ridendo e scherzando è oramai sera inoltrata quando ti arrampichi di nuovo su per il sentiero sconnesso. Una torcia illumina la strada, ma la spegni in prossimità della casa. Ti arriva la voce del televisore che vomita un programma musicale, e decidi di approfittarne. Il sacchetto che hai con te non durerà in eterno. Così sgattaioli lungo la parete, la luce della luna che ti guida nel cammino. Le persiane sul retro sono accostate. Una cigola.
Cazzo!, pensi, sicuro che da un istante all’altro si accenderà la luce e ti troverà lì fuori. E allora te lo farà mangiare, quel sacchetto. Contenuto compreso. 
Invece non succede nulla. Così ti fai coraggio, lasci le scarpe fuori ed entri.  Raggiungi il letto, scosti il lenzuolo e vi adagi sotto il sacchetto, la carta ancora accartocciata, ma un poco allentata. Osservi il letto prima di uscire. Perfetto. Ti rinfilerai le scarpe e aspetterai. Sono quasi le dieci e mezza. Il programma sta per finire ed avrai tutto il tempo di trovare un posticino comodo da cui gustarti la scena.
E a tal proposito, meglio il pino dove l’hai aspettata oggi, oppure va bene anche startene accucciato sotto alla finestra della camera da letto?
Ed è mentre dedici che ti accorgi che purtroppo il televisore si è azzittito prima del previsto ed il silenzio ha ripreso possesso della collina. Come uno sparo col silenziatore. Senti un po’ di tramestio, luci che si spengono ed altre che si accendono. Puoi fare una cosa sola. Infilarti sotto al letto. Sperando non ci sia qualcosa, al di sotto. E aspettare. Quando si dice un posto in prima fila. L’acqua scorre in bagno. La porta della camera da letto si apre. Lei si stiracchia. Scosta le lenzuola. Il suo peso fa cigolare le molle del letto. Schiacciandoti. Trattieni il fiato. È questione di poco. Pochissimo.
«Ma che cazz…»
La luce sul comodino si accende. 
La senti trattenere il fiato per un istante eterno. E poi urla. Un grido di terrore, isterico, che raggiunge decibel nemmeno concepibili dalla mente maschile. Ti fora i timpani e ti accorgi solo dopo che lei è schizzata via come un petardo dal letto, e che sta correndo come un’invasata fuori da casa. Esci dal tuo nascondiglio mezzo rintronato, mentre qualcosa, sotto al lenzuolo, si muove cauto. Sollevi la stoffa verdina.
La malmignatta sta tastando con le zampe gialle e nere il terreno soffice davanti a sé. Terrorizzata. E ti dici che chi s’è spaventato di più, tra i due, è stato il ragno, e non l’eroico Santo di Athena. Che adesso sta correndo a perdifiato verso il mare. Come se l’acqua tenesse in qualche modo lontano i ragni.
Esci dalla finestra, non prima di aver restituito la libertà all'animale affidandolo ad un cespuglio dietro casa. Recuperi le scarpe e te ne torni indietro, la torcia ad illuminare la strada. E ti affretti a risalire in macchina, a mettere in modo e ad allontanarti il più velocemente possibile dal luogo del delitto. Ridendo. Come un matto.
Oh, avresti dato qualsiasi cosa per vedere la sua espressione nel realizzare che un grosso ragno peloso le camminava su per una gamba.
Oh, lei non ci metterà molto a fare due più due e a capire come abbia fatto una bestia simile ad infilarsi sotto le lenzuola, perché tutto, in quello scherzo atroce, grida di te, a cominciare dal numero delle zampe della malmignatta. Otto. Come quelle dello scorpione.
Pazienza. Adesso è il suo turno di farsi una passeggiata per il Mediterraneo. E qualcosa ti dice che non passerà molto tempo prima che lei ti ricambi la cortesia. Il come è ancora tutto da scoprire, ma il bello dell’attesa non è proprio questo?
Ti rispondi di sì ed ingrani la quarta. L’automobile fila lungo la litoranea, nella notte che profuma di gelsomino e alloro. E mirto e zagare e resina di pino. «Dovresti vergognarti!», ti  rimprovera la vocetta – quella con la voce petulante di Aiolia – mentre guidi vero Catania. E mentre il vento gioca con i tuoi capelli e ridi come un matto, dando delle grandi manate allo sterzo, tu ti dici che sì, in effetti dovresti. Forse. Ma forse anche no. No. Decisamente no.
 
 
 
Note:
Otto è il numero delle zampe della malmignatta, un grosso ragno simile ad una tarantola a righe gialle e nere che infesta abita le campagne della macchia mediterranea.
Otto è anche il numero che corrisponde allo Scorpione, ottavo segno dello zodiaco.
E prima che ve lo stiate chiedendo, no, non amo i ragni. Anzi, ne ho il terrore. E questa storia è un atto di catarsi. Dura e pura. Perché ragno porta guadagno, no? Almeno, così dicono...
Il dialogo della soap opera ricalca quelli di Sentieri (conosciuto in patria come Guiding Light) tra due inossidabili personaggi, Reeva Shayne e Joshua Lewis. 
La scena del ragnaccio nel letto salta fuori proprio da Sentieri mi ossessiona da quando avevo sei anni e vidi Nola Reardon, un personaggio della serie, infilarne uno per dispetto nel letto della rivale in amore.
Se siete curiose di vedere la risposta di Phi, andate pure a dare una sbirciatina qui. Dite che vi mando io.

E adesso... Su, ripetete con me: catarsi, catarsi, catarsi!


 
   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: Francine