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Autore: Tresor    31/08/2014    0 recensioni
Ti alzi, scivolando inesorabilmente dal mio abbraccio, e d’un tratto un gelo profondo, una sensazione di abbandono che non riesco a identificare, si impadronisce di me.
E’ la cosa più sgradevole in assoluto che io abbia mai provato!
Che succede?
Genere: Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Akira Sendoh, Hiroaki Koshino
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 16

 

Davanti alla porta della camera di Hiroaki, Akira si fermò incerto.

Zia Maiko aveva insistito perché salisse e “vedesse con i suoi occhi”.

Ma cosa avrebbe dovuto vedere?

E perché Hiro, invece, già prima ancora di scendere dalla macchina, gli aveva chiesto di aspettarlo di sotto, che avrebbe fatto presto e sarebbe ridisceso?

Non capiva.

Gli mancavano dei tasselli in un quadro che aveva una palese stonatura, ma non riusciva a comprendere quale.

E perché a un tratto non sapere lo disturbava tanto da fargli avvertire una sorta di ansia a fior di pelle?

Cosa mai poteva esserci dietro quella porta oltre la camera di un ragazzo che lui conosceva come le proprie tasche per averci passato insieme tutta la sua vita?

Decise che l’unica soluzione a quell’improvvisa angoscia era di bussare ed entrare.

E lo fece.

Ma dopo il primo tentativo non giunse alcuna risposta dall’altra parte.

Batté di nuovo le nocche sul legno della porta, stavolta con più energia.

-          Hiro, sono io, posso entrare? – Accompagnò il gesto pronunciando le parole in tono tranquillo.

Ancora un momento di silenzio, poi: -

-          Aki, aspettami giù, ho quasi finito! – La risposta del ragazzo che gli giungeva un po’ ovattata.

Era ansia l’inflessione che aveva percepito?

Si chiese Akira, turbato.

-          Amore, lasciami entrare, per favore! –

Ma perché doveva persuaderlo?

Che significava?

Cosa voleva nascondergli?

-          Ti prego, no! –

Adesso la risposta gli era giunta più vicina, segno che Hiro gli stava parlando da dietro la porta.

Addirittura lo stava pregando!

Perché?

Aveva sempre avuto libero accesso in camera sua come fosse stata la propria, per quale motivo ora cercava di impedirglielo?

Era sempre più confuso.

Questo tuttavia non lo dissuase, anzi, rafforzò in lui la convinzione che ci fosse qualcosa di strano.

-          Zia Maiko mi ha chiesto di salire espressamente da te, perciò non me ne vado, aprimi, ti ho detto! –

-          Mamma non sa quel che dice, non le dare retta, vai di sotto …  è meglio. –

La voce che si andava spegnendo quasi sotto la spinta di un principio di… cosa… pianto?

-          Amore mio, cosa c’è? –

Un profondo sospiro gli giunse alle orecchie.

-          Non vale se mi chiami così, smettila!! –

Per tutta risposta Akira mise la mano sulla maniglia e provò a girarla.

Si era aspettato di trovarla chiusa a chiave, invece questa scattò sotto la sua pressione, e si schiuse.

Piano aprì la porta e subito incontrò il profilo di Hiroaki, che, schiena contro la parete, fissava le proprie mani serrate una contro l’altra con tale forza da averle quasi bianche.

-          Hey! – Lo chiamò, avanzando verso di lui.

Hiro trasalì, ma non osò guardarlo direttamente, lasciando che entrasse nella camera.

Lo scorse che gli si fermava davanti e gli si chinava addosso, poggiando una mano al muro poco sopra la sua testa.

Inevitabilmente il suo profumo lo avvolse, stordendolo e mandandogli il cuore in confusione.

-          Amore, stai bene? – Si sentì chiedere in un soffio a pochi centimetri da sé.

Tutto quel che gli riuscì di fare fu un gesto incomprensibile con il capo che Aki non seppe interpretare come un sì o un no.

Lo scorse soltanto pallido e nervoso e non seppe spiegarsene la ragione.

A ben rifletterci lo era stato per tutto il viaggio dall’albergo a lì.

Avevano parlato del più e del meno senza addentrarsi in discorsi particolari o difficili come avevano fatto fino alle tre di quella mattina.

Hiro gli aveva riferito qualcosa del quartiere.

Lui gli aveva raccontato di essere andato a trovare i suoi qualche giorno prima.

Ma tra loro la sensazione di nervosismo da parte del ragazzo non si era stemperata.

Anzi, era cominciata già quando quella mattina a colazione gli aveva detto che lo avrebbe accompagnato per rivedere gli zii.

Hiro non si era mostrato null’affatto entusiasta.

Perché?

Senza più indugiare portò l’altra mano sotto il suo mento e glielo sollevò delicatamente perché finalmente lo guardasse, e Hiro obbedì al comando nemmeno troppo velato, ma distolse lo sguardo alla sua destra, evitandolo ancora.

Un’ombra contrariata e soprattutto preoccupata passò sul volto di Akira: lo stava spaventando!

Tuttavia decise di non attaccarlo frontalmente per evitare qualche sua brusca reazione.

Invece rifece pressione per rigirarlo verso di sé e gli posò un lieve bacio sulle labbra esangui.

In cambio ricevette il suo alito tiepido e dolce che usciva nell’ennesimo sospiro ansioso.

Lo aspirò senza staccarsi da lui, assorbendo la sua improvvisa e inspiegabile angoscia.

-          Amore mio, cos’hai? –

-          Dovevi aspettarmi giù… - Protestò ancora Hiro, flebile e poco convinto.

-          Perché? Cos’ è che non vuoi che veda? … Conosco camera tua … - Stette per fargli notare l’ovvio, mentre sollevava lo sguardo intorno con un gesto che avrebbe dovuto essere altrettanto scontato, e quel che vide gli spezzò le parole sulle labbra.

Era sempre la sua camera.

La scrivania sotto la finestra, l’armadio sulla sinistra, la libreria sulla destra.

Dietro la porta, il muro piegava nell’ampio vano dove il solito letto da una piazza e mezza era sistemato dove era sempre stato, creando una sorta di ambiente a sé, quasi una seconda, piccola camera, tenendolo appartato dal resto, e che gli era sempre piaciuto un sacco perché intimo e celato agli occhi di chi entrasse nella stanza.

Eppure non era la stessa camera che ricordava.

Gli spazi delle due pareti della zona a giorno, tra l’armadio, la scrivania e la libreria, erano tappezzati di poster che ritraevano lui sui campi di basket.

Sulle ampie ante dell’armadio stesso erano attaccate due gigantografie di due azioni diverse di una medesima partita che aveva disputato un anno indietro, e che riconobbe immediatamente.

I ripiani della libreria che una volta sostenevano i libri di scuola, le riviste di basket e i fumetti, adesso erano colmi di dvd tutti ordinatamente catalogati per data e argomento, altre riviste di basket chiaramente americane, e foto incorniciate, tutte diverse, tutte con il medesimo soggetto: se stesso.

Ritratto in altre azioni di gioco, o mentre usciva da un locale, o in mezzo alla strada.

Ma ciò che spinse il suo corpo a una torsione su se stesso fino a fermarsi a pochi centimetri dal letto, furono le sue foto a grandezza naturale sulle tre pareti della rientranza, e una sul soffitto che identificò con altrettanta rapidità.

 

La prima sul muro ai piedi del letto era del calendario che aveva fatto per beneficenza quasi due anni prima: giugno.

Era a torso nudo inginocchiato in riva al mare, completamente bagnato, le gocce d’acqua sulla sua pelle bianca formavano una cascata di milioni di cristalli risplendenti di luce.

Un paio di jeans neri, unico indumento, gli fasciavano le lunghe gambe, e la stoffa, fradicia, sembrava tendersi in uno sforzo sul punto di esplodere sotto la pressione dei muscoli tesi.

I primi due bottoni erano aperti e vi si intravedeva un accenno di biancheria intima bianca.

Le dita della mano sinistra vi si immergevano appena, come a voler sfiorare casualmente il suo sesso, in un gesto erotico, ma non volgare.

La mano destra invece cercava di tirare indietro le ciocche bagnate di capelli neri che gli si erano appiccicate sul viso.

Lo sguardo intenso, magnetico, appena socchiuso, fisso nell’obiettivo, che sembrava raggiungere e sprofondare nell’anima di chi lo guardava in una muto invito a toccarlo, sentirlo, fondersi con lui.

Un sapiente fotoritocco aveva accentuato il blu delle sue iridi, unico colore sul bianco e nero della foto, creando un effetto inquietante e sensuale al tempo stesso.

Una trappola senza scampo.

La bocca, piena, perfetta nel suo disegno, schiusa e brillante di gocce d’acqua, da cui faceva capolino la punta di una lingua impertinente che sembrava sussurrare “assaggiami” senza ombra di equivoci su quel che avrebbe voluto.

Erotica.

Letale.

Aggressiva.

Gli unici aggettivi che venivano in mente osservando quell’immagine.

 

La seconda gigantografia occupava la parte centrale del soffitto dove una volta c’era stata una lunga lampada al neon.

Era un fotogramma, sempre in bianco e nero, di uno spot pubblicitario di una nota marca di biancheria intima.

C’era solo lui, completamente nudo, disteso supino su un letto, con indosso un paio di jeans chiari, strappati sulle cosce e slacciati davanti, fermati al di sotto dei fianchi, che gli coprivano a malapena il bacino, senza tuttavia far intravedere alcunché.

Le braccia erano sollevate e incrociate sulla fronte, appena visibile solo una parte del viso, che però era stata tenuta ombreggiata, offrendo all’osservatore i muscoli dell’ampio torace e degli addominali, sottolineati dolcemente dal gioco del chiaroscuro, dove ombra e luce sembravano rincorrersi e rotolare fino a tuffarsi nell’incavo del ventre piatto.

Nello spot non era mai comparso nessun capo di biancheria.

In sottofondo era state messe le note della Sonata al chiaro di luna di Beethoven, sapientemente riarrangiata, e l’obiettivo della telecamera era scivolato lento e ipnotico sui più piccoli particolari del suo corpo, rilassato tra le lenzuola, soffermandosi qualche istante al confine delineato dalla cerniera aperta, come a evocare il prodotto che stava pubblicizzando, e che in effetti non c’era,  imitando il languore della musica, e lasciando all’immaginazione dello spettatore la libertà di far correre i pensieri.

Poi andava a nero, e compariva solo il marchio.

Akira ricordò vagamente che lo spot aveva avuto parecchio successo, mentre rifletteva che se si sdraiava sul letto, avrebbe potuto sollevare le braccia e accogliere idealmente il corpo ritratto come fosse stato reale.

 

L’ingrandimento sulla testata del letto invece era il manifesto pubblicitario di un profumo da uomo, dove di lui compariva solo la metà sinistra del volto.

La luce delineava il profilo deciso della guancia, le labbra serrate in una linea imperscrutabile.

Alcuni capelli, che sembravano essere sfuggiti ribelli a quelli tirati indietro, si allungavano sulla pelle liscia, oltre la carta stessa, come fili di seta sospinti da un immaginaria folata di vento.

L’unico occhio visibile, il cui blu dell’iride era stato estremizzato dalle mille sfumature del fotoritocco, e che riprendeva le screziature del cristallo in cui era racchiusa la fragranza pubblicizzata, fissava direttamente l’osservatore, l’espressione glaciale e arrogante come se avesse voluto entrare fino in fondo all’anima e lì imbrigliarla.

 

Rimaneva l’ultima, enorme foto, quella sulla parete di mezzo.

Delle altre non gliene importava nulla, erano state solo alcune delle tante della sua carriera di fotomodello e testimonial di prodotti commerciali.

Ma quella era la sua preferita.

Occupava un posto speciale nel suo cuore e per qualche ragione, a lui ancora sconosciuta, Hiro l’aveva scelta tra le tante e voluta proprio lì, senza che, ne era sicuro, ne conoscesse la genesi.

Una storia che nessuno conosceva, tranne lui.

La foto era a colori.

Era stata fatta un anno e mezzo prima per rappresentare i titolari della sua squadra in un servizio giornalistico sul Time.

La fotografa che gliel’aveva scattata aveva voluto qualcosa di originale che non fossero le solite pose estrapolate dalle partite.

E così aveva lavorato singolarmente con lui e gli altri ragazzi, chiedendo a ognuno di loro di scegliere quel che preferivano.

Per caso, in una pausa, lui si era seduto a terra contro il muretto di mattoni rossi dei giardini fuori dalla palestra dove si allenavano.

La palla arancione dimenticata a pochi centimetri da sé.

Era scalzo e a dorso nudo perché era estate, addosso solo un paio di pantaloncini corti neri con i profili bianchi sui fianchi stretti.

Teneva le ginocchia piegate e le gambe divaricate in una posa rilassata, le braccia appoggiate sulle cosce e le mani abbandonate nel mezzo.

E non c’era nulla di particolare nella posa.

Aveva il viso girato di lato, il profilo perfetto baciato dal sole del pomeriggio, lo sguardo perso lontano che guardava un punto qualunque.

Ma l’espressione era particolare.

Era rapita da un pensiero che gettava un’ombra dolce e melanconica sui suoi tratti.

Gli aveva incurvato impercettibilmente le labbra nell’accenno di un sorriso pieno di nostalgia e gli aveva messo negli occhi una luce dolorosa e tenera al tempo stesso.

 

Hiro.

 

Dove sei?

 

Quell’espressione aveva colpito la fotografa.

La donna lo aveva sorpreso in quella posizione e ne era rimasta inspiegabilmente turbata. Aveva voluto immortalarlo così ed era stata categorica sulla propria volontà di volere proprio “quello” scatto per l’articolo.

Ricordava che gli aveva chiesto a cosa stesse pensando in quel momento da trasfigurarlo in modo così meraviglioso e struggente.

Che, non sapeva perché, ma gli era parso di intravedere in quel breve istante di tempo, il frammento di un Akira tormentato e addolcito da un ricordo doloroso e dolce.

Lui le aveva semplicemente sorriso, ma non le aveva svelato il segreto.

E le aveva dato il permesso di usarla.

  

 

 

 

 

 

   
 
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