Capitolo 16
Davanti
alla porta
della camera di Hiroaki, Akira si fermò incerto.
Zia
Maiko aveva
insistito perché salisse e “vedesse con i suoi occhi”.
Ma
cosa avrebbe
dovuto vedere?
E
perché Hiro,
invece, già prima ancora di scendere dalla macchina, gli aveva chiesto
di
aspettarlo di sotto, che avrebbe fatto presto e sarebbe ridisceso?
Non
capiva.
Gli
mancavano dei
tasselli in un quadro che aveva una palese stonatura, ma non riusciva a
comprendere quale.
E
perché a un
tratto non sapere lo disturbava tanto da fargli avvertire una sorta di
ansia a
fior di pelle?
Cosa
mai poteva
esserci dietro quella porta oltre la camera di un ragazzo che lui
conosceva
come le proprie tasche per averci passato insieme tutta la sua vita?
Decise
che l’unica
soluzione a quell’improvvisa angoscia era di bussare ed entrare.
E
lo fece.
Ma
dopo il primo
tentativo non giunse alcuna risposta dall’altra parte.
Batté
di nuovo le
nocche sul legno della porta, stavolta con più energia.
-
Hiro,
sono io, posso entrare? –
Accompagnò il gesto pronunciando le parole in tono tranquillo.
Ancora
un momento di silenzio, poi: -
-
Aki,
aspettami giù, ho quasi
finito! – La risposta del ragazzo che gli giungeva un po’ ovattata.
Era
ansia l’inflessione che aveva percepito?
Si
chiese Akira, turbato.
-
Amore,
lasciami entrare, per
favore! –
Ma
perché doveva persuaderlo?
Che
significava?
Cosa
voleva nascondergli?
-
Ti
prego, no! –
Adesso
la risposta gli era giunta più vicina, segno che Hiro gli stava
parlando da
dietro la porta.
Addirittura
lo stava pregando!
Perché?
Aveva
sempre avuto libero accesso in camera sua come fosse stata la propria,
per
quale motivo ora cercava di impedirglielo?
Era
sempre più confuso.
Questo
tuttavia non lo dissuase, anzi, rafforzò in lui la convinzione che ci
fosse
qualcosa di strano.
-
Zia
Maiko mi ha chiesto di salire
espressamente da te, perciò non me ne vado, aprimi, ti ho detto! –
-
Mamma
non sa quel che dice, non le
dare retta, vai di sotto … è
meglio. –
La
voce che si andava spegnendo quasi sotto la spinta di un principio di…
cosa…
pianto?
-
Amore
mio, cosa c’è? –
Un
profondo sospiro gli giunse alle orecchie.
-
Non
vale se mi chiami così,
smettila!! –
Per
tutta risposta Akira mise la mano sulla maniglia e provò a girarla.
Si
era aspettato di trovarla chiusa a chiave, invece questa scattò sotto
la sua
pressione, e si schiuse.
Piano
aprì la porta e subito incontrò il profilo di Hiroaki, che, schiena
contro la
parete, fissava le proprie mani serrate una contro l’altra con tale
forza da
averle quasi bianche.
-
Hey!
– Lo chiamò, avanzando verso
di lui.
Hiro
trasalì, ma non osò guardarlo direttamente, lasciando che entrasse
nella
camera.
Lo
scorse che gli si fermava davanti e gli si chinava addosso, poggiando
una mano
al muro poco sopra la sua testa.
Inevitabilmente
il suo profumo lo avvolse, stordendolo e mandandogli il cuore in
confusione.
-
Amore,
stai bene? – Si sentì
chiedere in un soffio a pochi centimetri da sé.
Tutto
quel che gli riuscì di fare fu un gesto incomprensibile con il capo che
Aki non
seppe interpretare come un sì o un no.
Lo
scorse soltanto pallido e nervoso e non seppe spiegarsene la ragione.
A
ben rifletterci lo era stato per tutto il viaggio dall’albergo a lì.
Avevano
parlato del più e del meno senza addentrarsi in discorsi particolari o
difficili come avevano fatto fino alle tre di quella mattina.
Hiro
gli aveva riferito qualcosa del quartiere.
Lui
gli aveva raccontato di essere andato a trovare i suoi qualche giorno
prima.
Ma
tra loro la sensazione di nervosismo da parte del ragazzo non si era
stemperata.
Anzi,
era cominciata già quando quella mattina a colazione gli aveva detto
che lo
avrebbe accompagnato per rivedere gli zii.
Hiro
non si era mostrato null’affatto entusiasta.
Perché?
Senza
più indugiare portò l’altra mano sotto il suo mento e glielo sollevò
delicatamente perché finalmente lo guardasse, e Hiro obbedì al comando
nemmeno
troppo velato, ma distolse lo sguardo alla sua destra, evitandolo
ancora.
Un’ombra
contrariata e soprattutto preoccupata passò sul volto di Akira: lo
stava
spaventando!
Tuttavia
decise di non attaccarlo frontalmente per evitare qualche sua brusca
reazione.
Invece
rifece pressione per rigirarlo verso di sé e gli posò un lieve bacio
sulle
labbra esangui.
In
cambio ricevette il suo alito tiepido e dolce che usciva nell’ennesimo
sospiro
ansioso.
Lo
aspirò senza staccarsi da lui, assorbendo la sua improvvisa e
inspiegabile
angoscia.
-
Amore
mio, cos’hai? –
-
Dovevi
aspettarmi giù… - Protestò
ancora Hiro, flebile e poco convinto.
-
Perché?
Cos’ è che non vuoi che
veda? … Conosco camera tua … - Stette per fargli notare l’ovvio, mentre
sollevava lo sguardo intorno con un gesto che avrebbe dovuto essere
altrettanto
scontato, e quel che vide gli spezzò le parole sulle labbra.
Era
sempre la sua camera.
La
scrivania sotto la finestra, l’armadio sulla sinistra, la libreria
sulla
destra.
Dietro
la porta, il muro piegava nell’ampio vano dove il solito letto da una
piazza e
mezza era sistemato dove era sempre stato, creando una sorta di
ambiente a sé,
quasi una seconda, piccola camera, tenendolo appartato dal resto, e che
gli era
sempre piaciuto un sacco perché intimo e celato agli occhi di chi
entrasse
nella stanza.
Eppure
non era la stessa camera che ricordava.
Gli
spazi delle due pareti della zona a giorno, tra l’armadio, la scrivania
e la
libreria, erano tappezzati di poster che ritraevano lui sui campi di
basket.
Sulle
ampie ante dell’armadio stesso erano attaccate due gigantografie di due
azioni
diverse di una medesima partita che aveva disputato un anno indietro, e
che
riconobbe immediatamente.
I
ripiani della libreria che una volta sostenevano i libri di scuola, le
riviste
di basket e i fumetti, adesso erano colmi di dvd tutti ordinatamente
catalogati
per data e argomento, altre riviste di basket chiaramente americane, e
foto
incorniciate, tutte diverse, tutte con il medesimo soggetto: se stesso.
Ritratto
in altre azioni di gioco, o mentre usciva da un locale, o in mezzo alla
strada.
Ma
ciò che spinse il suo corpo a una torsione su se stesso fino a fermarsi
a pochi
centimetri dal letto, furono le sue foto a grandezza naturale sulle tre
pareti
della rientranza, e una sul soffitto che identificò con altrettanta
rapidità.
La
prima sul muro ai piedi del letto era del calendario che aveva fatto
per
beneficenza quasi due anni prima: giugno.
Era
a torso nudo inginocchiato in riva al mare, completamente bagnato, le
gocce
d’acqua sulla sua pelle bianca formavano una cascata di milioni di
cristalli
risplendenti di luce.
Un
paio di jeans neri, unico indumento, gli fasciavano le lunghe gambe, e
la
stoffa, fradicia, sembrava tendersi in uno sforzo sul punto di
esplodere sotto
la pressione dei muscoli tesi.
I
primi due bottoni erano aperti e vi si intravedeva un accenno di
biancheria
intima bianca.
Le
dita della mano sinistra vi si immergevano appena, come a voler
sfiorare
casualmente il suo sesso, in un gesto erotico, ma non volgare.
La
mano destra invece cercava di tirare indietro le ciocche bagnate di
capelli
neri che gli si erano appiccicate sul viso.
Lo
sguardo intenso, magnetico, appena socchiuso, fisso nell’obiettivo, che
sembrava raggiungere e sprofondare nell’anima di chi lo guardava in una
muto
invito a toccarlo, sentirlo, fondersi con lui.
Un
sapiente fotoritocco aveva accentuato il blu delle sue iridi, unico
colore sul
bianco e nero della foto, creando un effetto inquietante e sensuale al
tempo
stesso.
Una
trappola senza scampo.
La
bocca, piena, perfetta nel suo disegno, schiusa e brillante di gocce
d’acqua,
da cui faceva capolino la punta di una lingua impertinente che sembrava
sussurrare “assaggiami” senza ombra di equivoci su quel che avrebbe
voluto.
Erotica.
Letale.
Aggressiva.
Gli
unici aggettivi che venivano in mente osservando quell’immagine.
La
seconda gigantografia occupava la parte centrale del soffitto dove una
volta
c’era stata una lunga lampada al neon.
Era
un fotogramma, sempre in bianco e nero, di uno spot pubblicitario di
una nota
marca di biancheria intima.
C’era
solo lui, completamente nudo, disteso supino su un letto, con indosso
un paio
di jeans chiari, strappati sulle cosce e slacciati davanti, fermati al
di sotto
dei fianchi, che gli coprivano a malapena il bacino, senza tuttavia far
intravedere alcunché.
Le
braccia erano sollevate e incrociate sulla fronte, appena visibile solo
una
parte del viso, che però era stata tenuta ombreggiata, offrendo
all’osservatore
i muscoli dell’ampio torace e degli addominali, sottolineati dolcemente
dal
gioco del chiaroscuro, dove ombra e luce sembravano rincorrersi e
rotolare fino
a tuffarsi nell’incavo del ventre piatto.
Nello
spot non era mai comparso nessun capo di biancheria.
In
sottofondo era state messe le note della Sonata al chiaro di luna di
Beethoven,
sapientemente riarrangiata, e l’obiettivo della telecamera era
scivolato lento
e ipnotico sui più piccoli particolari del suo corpo, rilassato tra le
lenzuola, soffermandosi qualche istante al confine delineato dalla
cerniera
aperta, come a evocare il prodotto che stava pubblicizzando, e che in
effetti
non c’era, imitando
il languore della
musica, e lasciando all’immaginazione dello spettatore la libertà di
far
correre i pensieri.
Poi
andava a nero, e compariva solo il marchio.
Akira
ricordò vagamente che lo spot aveva avuto parecchio successo, mentre
rifletteva
che se si sdraiava sul letto, avrebbe potuto sollevare le braccia e
accogliere
idealmente il corpo ritratto come fosse stato reale.
L’ingrandimento
sulla testata del letto invece era il manifesto pubblicitario di un
profumo da
uomo, dove di lui compariva solo la metà sinistra del volto.
La
luce delineava il profilo deciso della guancia, le labbra serrate in
una linea
imperscrutabile.
Alcuni
capelli, che sembravano essere sfuggiti ribelli a quelli tirati
indietro, si
allungavano sulla pelle liscia, oltre la carta stessa, come fili di
seta
sospinti da un immaginaria folata di vento.
L’unico
occhio visibile, il cui blu dell’iride era stato estremizzato dalle
mille
sfumature del fotoritocco, e che riprendeva le screziature del
cristallo in cui
era racchiusa la fragranza pubblicizzata, fissava direttamente
l’osservatore,
l’espressione glaciale e arrogante come se avesse voluto entrare fino
in fondo
all’anima e lì imbrigliarla.
Rimaneva
l’ultima, enorme foto, quella sulla parete di mezzo.
Delle
altre non gliene importava nulla, erano state solo alcune delle tante
della sua
carriera di fotomodello e testimonial di prodotti commerciali.
Ma
quella era la sua preferita.
Occupava
un posto speciale nel suo cuore e per qualche ragione, a lui ancora
sconosciuta, Hiro l’aveva scelta tra le tante e voluta proprio lì,
senza che,
ne era sicuro, ne conoscesse la genesi.
Una
storia che nessuno conosceva, tranne lui.
La
foto era a colori.
Era
stata fatta un anno e mezzo prima per rappresentare i titolari della
sua
squadra in un servizio giornalistico sul Time.
La
fotografa che gliel’aveva scattata aveva voluto qualcosa di originale
che non
fossero le solite pose estrapolate dalle partite.
E
così aveva lavorato singolarmente con lui e gli altri ragazzi,
chiedendo a
ognuno di loro di scegliere quel che preferivano.
Per
caso, in una pausa, lui si era seduto a terra contro il muretto di
mattoni
rossi dei giardini fuori dalla palestra dove si allenavano.
La
palla arancione dimenticata a pochi centimetri da sé.
Era
scalzo e a dorso nudo perché era estate, addosso solo un paio di
pantaloncini
corti neri con i profili bianchi sui fianchi stretti.
Teneva
le ginocchia piegate e le gambe divaricate in una posa rilassata, le
braccia
appoggiate sulle cosce e le mani abbandonate nel mezzo.
E
non c’era nulla di particolare nella posa.
Aveva
il viso girato di lato, il profilo perfetto baciato dal sole del
pomeriggio, lo
sguardo perso lontano che guardava un punto qualunque.
Ma
l’espressione era particolare.
Era
rapita da un pensiero che gettava un’ombra dolce e melanconica sui suoi
tratti.
Gli
aveva incurvato impercettibilmente le labbra nell’accenno di un sorriso
pieno
di nostalgia e gli aveva messo negli occhi una luce dolorosa e tenera
al tempo
stesso.
Hiro.
Dove
sei?
Quell’espressione
aveva colpito la fotografa.
La
donna lo aveva sorpreso in quella posizione e ne era rimasta
inspiegabilmente
turbata. Aveva voluto immortalarlo così ed era stata categorica sulla
propria
volontà di volere proprio “quello” scatto per l’articolo.
Ricordava
che gli aveva chiesto a cosa stesse pensando in quel momento da
trasfigurarlo
in modo così meraviglioso e struggente.
Che,
non sapeva perché, ma gli era parso di intravedere in quel breve
istante di
tempo, il frammento di un Akira tormentato e addolcito da un ricordo
doloroso e
dolce.
Lui
le aveva semplicemente sorriso, ma non le aveva svelato il segreto.
E
le aveva dato il permesso di usarla.