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Autore: Nicole and Lizzie    01/09/2014    0 recensioni
Quando alla fermata dell’autobus le vite di due ragazzi si incontrano, tutto cambia.
Scelte sbagliate, obbiettivi diversi.
Tratto dalla storia:
"Posso vero?" Mi chiese.
"Mi sembra che ti sei già seduto" dissi in un sussurro.
"Umh, io sono Nathan" disse porgendomi la mano.
"Sam" dissi semplicemente.
"Sam? L'abbreviazione di Samantha?" Chiese.
"Già l'abbreviazione di un nome orribile che si porta dietro brutti ricordi" dissi di getto, senza pensare.
***
"La luna è piena, si ghiaccia, è buio e c'è solo silenzio. Una serata perfetta no?" Disse il ragazzo vicino a me.
“Già, perfetta per essere l'ultima" dissi.
***
[conteggio parole: 2.6k][tematiche delicate quali autolesionismo e suicidi][unhappy story][by Nicole]
Genere: Angst, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Disclaimer: storia scritta senza alcun scopo di lucro. I personaggi sono di mia invenzione. Se prenderai qualcosa da questa storia, ti troverò e ti ucciderò.

Era giunto il momento. Finalmente potevo andarmene. Scappare da quella gabbia dorata senza dare spiegazioni o senza preoccuparmi di mancare a qualcuno.
Guardai la mia stanza un ultima volta, poi aprii la finestra e uscii senza far molto rumore.
Tutto il necessario era dentro al mio zaino nero, foderato da scritte, insignificanti agli occhi degli altri, ma molto profonde per me.
Cominciai a correre sull’ asfalto umido da una leggera pioggia, fino ad arrivare alla fine della strada, alla fermata dell’ autobus. Era illuminata dai lampioni, ma aveva comunque un aspetto tetro e pauroso. Sarebbe stato fantastico per girare un film, il film della mia vita. Ma questa pellicola finiva male.
Torniamo indietro, prima di quando cominciasse ad andare tutto storto.
Eravamo una famigliola felice prima che i miei litigassero. Mia madre e mio padre stavano divorziando, quando cominciai a sentirmi sbagliata a questo mondo. Tutto quello che facevo era sbagliato. I miei voti a scuola, la mia fissa per tagliarmi i capelli da sola, le mie poche amicizie, il mio peso, il mio aspetto, le faccende di casa mal fatte.
Anche la mia camera da letto era sbagliata. O meglio, era in disordine. Un autentico casino. Peccato che quel casino mi rispecchiasse molto, e nessuno l'ha mai capito, o almeno questo credevo.
Quando mio padre se ne andò da casa fu quasi un sollievo ma mia madre mi obbligava a restare chiusa in camera, mentre lei usciva a quelle cene "per lavoro". Certo lavoro. Tornava a casa ubriaca e io dovevo prendermi cura di lei, ovviamente, senza contare tutti gli oggetti che accidentalmente rompeva da sbronza.
Era in quei giorni che cominciai a mangiare di meno, cominciai ad osservare le lame affilate dei coltelli più del dovuto. Era in quei giorni che cominciai la mia guerra. Era in quei giorni che cominciai a formulare quelle frasi per rispondere alla domanda "che cosa ti sei fatta li?" "che sbadata, devo essermi tagliata col coltello" oppure "ah, quelli dici? È stato il gatto" o ancora "mi sono graffiata mentre scavalcavo qualcosa".
Stavo meglio con quelli, ero quasi in pace con me stessa. Trascorrevano mesi e io stavo quasi bene. Fino a quel giorno, dopo alcune settimane da quando era iniziata la mia guerra. La solita routine, lama, polso, sangue, acqua, braccialetti. Ma qualcosa era andato storto diciamo. I primi due erano perfetti come sempre, ma il terzo cominciava ad abbondare, troppo, finché non vidi tutto a puntini.
Mia madre mi aveva trovata sdraiata in bagno, in una pozza di rosso, che di certo non era smalto o tinta per capelli.
Mi avevano tenuta 20 giorni in una stanza schifosamente bianca, per tenermi sotto osservazione. Avevano anche consigliato a mia madre di mandarmi da uno psicologo, ma noi soldi ne avevamo a malapena per pagare le bollette e l'affitto.
Cosi decisi di smettere. Gettai tutte le lamette nel cestino e chiusi il coperchio, definitivamente.
Cosi ora mi ritrovavo a quella fermata ad aspettare quello stupido pullman che passava alle 2.37 e che tardava. Se vogliamo aggiungere che a novembre inoltrato fa un freddo cane e che la mia giacchetta primaverile non faceva poi cosi caldo come credevo, allora si il ritardo di quel pullman era una condanna. O forse no.
Sentii dei passi riecheggiare e vedi una figura slanciata avanzare verso di me.
L'ansia cominciò a divorarmi da dentro, diedi un occhiata attorno a me per vedere se c'era qualche passante ma rimasi sconfortata quando vidi solo lui. Cercai nelle tasche della giacca qualcosa con cui difendermi ma con un fazzoletto mezzo usato e una caramella alla menta non potevo fare granché.
Non volevo essere ne stuprata, ne rapinata, ne uccisa da mano altrui.
Intanto il "tizio" avanzava. A quasi 5 metri di distanza, parve accorgersi di me.
Aveva delle cuffiette ficcate nelle orecchie e la musica metal si poteva sentire benissimo in quel silenzio tombale. I miei occhi azzurri lo fissavano. Avevano scorto ogni dettaglio o quasi: skinny jeans scuri, una maglia bianca di qualche band rock metal, una giacca in pelle nera, un schifosissimo capello di lana blu notte che stonava con tutto, da cui sbucavano alcuni ciuffi di un colore indefinito tra il biondo e il castano, i lineamenti del viso abbastanza marcati, le labbra leggermente schiuse screpolate dal freddo che condensava in una nuvoletta i suoi respiri regolari e un accenno di barba sul mento. Nulla di più, nulla di meno.
I suoi occhi non riuscivo a vederli poiché la fioca luce dei lampioni non me lo permetteva.
Si tolse lentamente le cuffiette e le ripose in tasca, senza degnarsi di spegnere quella maledetta musica. Il tutto senza staccare gli occhi dai miei. Quando cominciò ad avanzare verso di me, sentii le mie mani tremare involontariamente, e indietreggiai ad ogni suo passo, finché non sentii qualcosa di duro e cilindrico dietro di me. Il palo col cartello della maledetta fermata.
Quando rimase solo un metro tra noi, chiusi gli occhi. Speravo soltanto che quello che doveva fare, lo facesse velocemente.
Ma quando, tra le note delle sue canzoni metal sentii "ciao", riaprii velocemente gli occhi, per trovarmi il suo viso molto vicino al mio, poiché si era abbassato verso di me. Doveva superarmi di 15 buoni centimetri.
Non dovevo essere una bella visione, gli occhi vuoti, le labbra schiuse e il respiro che si infrangeva sul suo viso. E poi successe il finimondo: gli angoli della sua bocca si alzarono, scoprendo una fila di denti bianchissimi contornati dalle labbra screpolate. I miei occhi si posarono proprio su quel sorriso.
Le ipotesi erano: o mi sta prendendo per il culo, o mi vuole far morire senza toccarmi, o mi sta sorridendo.
Lo guardai ancora negli occhi e risposi "ciao". Non potevo sapere che quel ragazzo mi avrebbe condizionato con le sue idee stravaganti o che mi avrebbe cambiato la vita.

Misi il braccio a penzoloni verso la strada per far capire al conducente che volevo salire in quell’ autobus. Si fermò sul ciglio della strada e quando aprì le porte mi ci fiondai dentro. Era deserto tranne per una coppietta che si scambiava effusioni e per un ubriaco marcio che dormiva sdraiato su due sedili. Il puzzone di alcool mi fece storcere il naso, cosi mi sedetti più distante possibile, ovvero in fondo al pullman.
Inaspettatamente anche il ragazzo della fermata si sedette vicino a me.
"Posso vero?" Mi chiese.
"Mi sembra che ti sei già seduto" dissi in un sussurro.
"Umh, io sono Nathan" disse porgendomi la mano. Mi voltai verso il ragazzo. Guardai prima essa e poi i suoi occhi. Ora potevo scorgere che erano occhi chiari di un colore indefinibile tra il verde e l’azzurro. Qualcosa di spettacolare.
"Sam" dissi semplicemente, stringendo appena la sua mano con la mia, avvolta dal guanto. Con quel semplice contatto potevo sentire che le sue mani erano calde a differenza delle mie che sembravano ghiaccioli. E poi fece ancora quel sorriso.
"Sam? L'abbreviazione di Samantha?" Chiese.
"Già l'abbreviazione di un nome orribile che si porta dietro brutti ricordi" dissi di getto, senza pensare. Mi tappai subito la bocca con la mano libera visto che Nathan stringeva ancora la mia. Il ragazzo scoppiò a ridere ed estrasse le sue cuffiette azzurrine dalla tasca. Ancora si poteva sentire la canzone assordante sopra il rumore del motore del pullman. Ne mise una e l'altra me la porse.
"Sarà un viaggio lungo" mi disse sorridendomi. Non poteva immaginare che quel viaggio sarebbe durato molto meno di quello che pensava.

Mi risvegliai per colpa di un dosso sulla strada.
La mia testa aveva sbattuto sulla spalla del ragazzo di fianco a me. Alzai lentamente la testa strofinandomi gli occhi. Mancava poco per arrivare a destinazione.
Girai lo sguardo verso il ragazzo seduto affianco a me: stava dormendo anche lui.
Avrei voluto bruciare quel cappello perché davvero stonava, troppo. E poi nascondeva i suoi capelli, quindi non potevo nemmeno sapere se erano lisci o ricci, magari mossi.
Non potevo permettermi di pensare ai capelli di quel ragazzo, dovevo fare semplicemente una sola cosa.

Quando il pullman si fermò facendo intendere che la corsa era finita li, presi il mio zaino e scesi senza segnare di uno sguardo Nathan. L'aria gelida si infranse sul mio viso procurandomi dei brividi.
Cominciai a camminare verso la mia meta. La strada era illuminata dai quelle luci fioche e regnava il silenzio se non fosse stato per l'eco dei miei passi. E quelli di qualcun'altro.
Mi voltai e vidi Nathan dietro di me, camminare con quelle dannatissime cuffiette nelle orecchie, la testa che ondeggiava avanti e indietro a tempo. Mi avvicinai a lui e non so con quale forza, gli tolsi una cuffietta.
"Perché mi segui?" Chiesi guardandolo negli occhi di cui non avevo ancora capito il colore.
"Le strade sono pubbliche, chi ha detto che ti seguo?" Disse.
Non gli risposi nemmeno, ricominciai a camminare, non avevo tempo da perdere. Finalmente arrivai a destinazione. Mi sporsi sulla ringhiera metallica di un colore scuro. Altrettanto scure erano le acqua di quel enorme fiume. Non importava se fosse il Tamigi, la Senna o qualsiasi altro fiume. Bastava ci fosse acqua.
Mi appoggiai con gli avambracci sul metallo freddo e persi minuti ad osservare il mio capolinea, la fine della mia corsa. Quando sentii qualcosa appoggiarsi vicino, molto vicino a me non girai nemmeno lo sguardo. Sapevo già chi era. Il contatto tra le nostre braccia bruciava anche se tra essere c'erano strati di stoffa.
"La luna è piena, si ghiaccia, è buio e c'è solo silenzio. Una serata perfetta no?" Disse il ragazzo vicino a me.
"Già, perfetta per essere l'ultima" dissi.

Potevo sentire l’acqua gelida attutire la mia caduta verso quell’ignoto che aveva preso forma di acqua scura. La corrente trascinarmi giù verso la libertà, i polmoni bruciare per la mancanza d’aria.
Ma sfortunatamente per me quel ragazzo era riuscito a farmi cambiare idea.
Avevamo passato delle ore a parlare di qualsiasi cosa, a scherzare e a ricordare le nostre infanzie.
C’eravamo seduti in un prato di un parco, senza curarci di bagnarci i pantaloni e in silenzio avevamo osservato l’alba. Poi avevamo fatto colazione in un bar di quel paesetto sperduto di cui non ricordavo nemmeno il nome. Ma un nome sicuramente lo avrei ricordato per sempre.
Avevamo scoperto che andavamo alla stessa scuola, ma lui era un anno più grande di me, quindi aveva cominciato il college già l’anno scorso.

La mattinata era cominciata bene, se così si può dire. Come sempre io e Nat eravamo andati a scuola camminando, avevamo preso il solito cornetto alla cioccolata e il solito caffè con un pochino di latte.
Le prime tre ore, spagnolo, letteratura e matematica erano andate bene o almeno non ero ne stata interrogata ne avevo avuto verifiche scritte. Mancava solo una lezione, l’ultima prima dell’ ora del pranzo, con cui la passavo solitamente in giardino con Nat e i suoi amici, fumando una paglia.
La campanella suonò facendomi tornare alla realtà. Ora di educazione fisica, la migliore ovvio. Ma non per me.
Mi cambiai con riluttanza negli spogliatoi lerci della scuola e scesi in campo. Il prof ordinò di fare 5 giri.
Cominciai, primo giro: tutti avevano qualcuno con cui parlare o almeno correre a fianco, mentre io ero sola, asociale com’ero. Ovvio.
Secondo giro: ero già a corto di fiato, ma le gambe non mi dolevano, dovevo resistere anche se i polmoni bruciavano. È risaputo che i miei non sono polmoni sani. Non dopo tutti quei pacchetti.
Terzo giro: iniziavo a sentire il piacevole dolore ai polpacci. Ma non ci feci caso, mi piaceva il dolore fisico.
Quarto giro: oltre ai polpacci sentivo anche un formicolio al braccio sinistro, ma non ci diedi molto peso. Ero troppo impegnata a immagazzinare aria nei miei polmoni neri.
Quinto giro: troppo dolore. Troppo stanca. Troppo. Ero a 20 metri dalla fine quando caddi in ginocchio. E questa volta non erano i polmoni a bruciare.
Una fitta al petto mi fece appoggiare i palmi al suolo. Mi distesi a pancia in su, feci solo in tempo a portare il palmo destro sul petto per sentire che li, non batteva più nulla. E sorrisi. Sorrisi perché finalmente potevo essere libera. Libera da tutti i miei problemi, libera dalla mia famiglia, libera dalla scuola, dagli impegni presi per il pomeriggio e da tutte quelle persone che urlavano cose incomprensibili per le mie orecchie, i miei occhi vedevano tutto sfuocato e la mia bocca era a formare un sorriso, ma credo che tutto ciò che mi riusciva era una smorfia.
Ma quello che i miei occhi videro quei secondi, prima che l'anima lasciasse davvero il mio corpo per sempre, non lo dimenticherò mai. La vidi, bellissima, vestita completamente di nero.
Si inginocchiò vicino alla mia testa, sfiorandomi i capelli lisci. Si avvicinò abbastanza per fare ciò che non credevo possibile: vidi la mia anima venire risucchiata nella sua bocca.
Si era mangiata la mia anima. Si era nutrita di me. E come era venuta se ne andò lasciandomi impressa nella mente la sua falce splendente e i suoi vestiti di un nero impossibile per gli umani.

I medici arrivarono solo alcuni minuti più tardi, e cercarono di rianimarla.
Il giorno seguente un articolo nel giornale recitava questo: ragazza di sedici anni ha avuto un infarto nel bel mezzo delle lezioni di ginnastica. Si crede che questo sia stato dovuto a un anomalia del cuore ma per accertamenti si prevede un autopsia.


Sam si era solo dimenticata un piccolo dettaglio, forse insignificante per lei: si era dimenticata di noi due, di me.
Invano le avevo detto molte volte quanto ci tenessi a lei, ma evidentemente non mi ascoltava, o non mi prendeva sul serio.
Fatto sta che ora sono qui di fronte a questa lastra di marmo con inciso il suo nome, la sua data di nascita e quella data che è giusto un anno esatto fa. I fiori, rose rosse, i suoi preferiti, sono appassiti, come lei quel maledetto giorno. Sua madre continua a portare quegli stupidi tulipani gialli, ma lei non sa quali erano i fiori preferiti di Sam. Lei non sa proprio niente di Sam.
Non sa dei suoi segni, che come li definiva lei erano "cicatrici della mia guerra che combatto dentro", non sa che finito il pranzo o la cena quei minuti passati al bagno non erano spesi per lavarsi i denti o sistemarsi i capelli e il trucco, non sa che rubava le mie felpe per nascondersi ma diceva "sanno di buono, sanno di te", non sa che quella smorfia era semplicemente un sorriso.
Nessun altro sa a parte noi due. Io e Sam. Nessuno sa delle nostre giornate passate a letto con una spalla a sfiorare la sua, una cuffietta nell'orecchio e le dita delle mani ad intrecciarsi tra loro. Quei pomeriggi passati a insegnarle a suonare la chitarra, a pizzicare le corde giuste, a sentire i suoi lamenti perché "fanno male! Avrò dei calli giganteschi domani!".
Nessuno sa dei nostri abbracci, delle nostre carezze, delle nostre debolezze, dei nostri momenti a piangere insieme. Nessuno sa di quei baci rubati, magari per sbaglio o semplicemente per voglia di farlo. Nessuno sa che i suoi capelli profumavano di pesca, perché quello shampoo era il mio regalo di compleanno per i suoi sedici anni. Nessuno sa che i libri di storia non li leggevamo nemmeno, era molto più divertente lanciarceli addosso e farci il solletico. Nessuno sa quanto le piaceva appena sveglia bere il caffè con una puntina di latte freddo. Nessuno sa che tra quell'azzurro dei suoi occhi mi ci perdevo ogni volta.
E quando piangeva poi, per quanto mi dispiaccia dirlo, erano ancora più meravigliosi, da pozzi d'acqua si trasformavano in mare in tempesta. E io naufragavo in quegli occhi. Occhi che ora sono chiusi, sotto due metri di terra. Occhi che non mi parleranno più.

Note d’autrice (già questa volta solo una autrice)
Salve popolo di efp :D qui è Nikki che vi parla.
Ok, mettendo da parte le stronzate, ho scritto questa OS quando ero leggermente giù di morale per cui è un po’ malinconica. Spero di non avervi mandato in depressione.
All’inizio la trama era leggermente diversa ma l’ispirazione alle due di notte mi ha portato a scrivere questo aborto. Mi dispiace se ci sono orrori di grammatica o altro, ho cercato di rendere la storia leggibile.
Mi dispiace se magari qualcuno ha versato delle lacrimucce, non volevo farvi piangere.
Il titolo riprende la canzone degli Bring me the horizon Chelsea smile (la amo).
Vi invito a lasciare una recensione, un commento o qualsiasi cosa che contenga tre parole anche “fa semplicemente schifo” a me va bene lo stesso. Oppure leggete e basta, fate come me lettori fantasma :D
Quindi questo è tutto da Nikki, alla prossima gentaglia mia.

Nicole xx


Ps: vi amo tutti incondizionatamente <3
  
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