Dodici
passi evanescenti
Scappa!
Corri!
Corri più forte che puoi, anche se le tue gambe dovessero
spezzarsi, i tuoi legamenti strapparsi e le tue ossa frantumarsi.
Corri o ti raggiungerà!
Diventerai la sua preda e allora non potrai più
scappare. Per te sarà la fine, l’inizio di un lungo cammino senza ritorno.
«Vorresti
provare il gioco della morte?»
Un sogghigno spettrale rincorre gli occhi colmi d’orrore
di una ragazza. Fugge da un viso senza forma, mentre fasci di rami le feriscono
gli arti troppo fragili e le ostruiscono la corsa. Dopo l’interminabile
foresta, finalmente scorge una luce, quello che la sua mente figura come una
speranza, una via di fuga… tuttavia vana. Sbuca sul limitare di una scogliera,
dove un tiepido sole viene ben presto oscurato da banchi di nuvole. Un
singhiozzo di terrore le scivola dalle labbra alla vista del mare, che presenta
una colorazione nerastra e s’infrange contro le rocce, inglobando carcasse di
animali marini. Un urlo disumano le esplode nella cassa toracica, il suo corpo
crolla al suolo, come attratto da una forza troppo grande per essere
contrastata. Le mani affondano disperatamente nel terreno e una risata le
sibila alle orecchie.
Una scossa violenta trapassa le terminazioni nervose di
Arielle, ridestandola dall’incubo. Sbatte più volte
le palpebre, con il cuore che sembra in procinto di esplodere. Avverte un
fastidioso dolore alle mani e, quando i suoi occhi si sono abituati alla
semi-oscurità della stanza, scorge rivoli rossi scorrerle sui palmi e sulle
lenzuola. Tuttavia non vi presta particolare attenzione, attonita da ciò che la
circonda.
“Credevo di trovarmi sullo strapiombo di una scogliera…
invece sono a casa.” riflette, osservando i contorni scuri della sua stanza da
letto: il morbido profilo della poltrona, sulla quale indugia spesso a leggere
fino a tarda notte, le ante della finestra socchiuse, con le tende che
ondeggiano al fresco vento primaverile.
Questa visione la rassicura un po’, senza tuttavia
riuscire a placare i brividi che le corrono lungo la schiena. Scuote la testa,
decisa a dimenticare l’incubo, conscia che l’abbia traumatizzata più del dovuto
e desiderosa di liberarsi in fretta di quella sensazione di fastidio alla gola.
In bagno Arielle si sciacqua
il viso e si disinfetta i palmi delle mani, ma la paura sembra non volerla
abbandonare. Rientra in camera, con l’idea di tornare a coricarsi, quando un
rumore la fa sobbalzare.
Vrrr. Vrrr. Vrrr.
Il cuore ricomincia a batterle forte e le gambe
diventano improvvisamente molli e tremanti. Cercando di regolarizzare il
respiro, Arielle avanza lentamente verso la fonte del
rumore. Una fredda folata di vento le scompiglia i lunghi capelli e le gonfia
la maglia, accarezzandole le gambe. Un altro brivido, un altro passo.
Si morsica il labbro e con uno strattone lancia
lontano il cuscino, scoprendo il proprio cellulare che vibra insistente a causa
di una chiamata. Sospira, un po’ arrabbiata per essersi spaventata senza motivo
e un po’ per sollievo. Risponde al telefono e una voce gioiosa la travolge.
«Arielle!»
«…Yasmine?»
«Oui, ma chérie!
Come stai?»
«Uhm… sì, tutto bene. Piuttosto, perché mi chiami a
quest’ora della notte? Non ti senti bene?»
«Non riuscivo a prendere sonno, così ho deciso di
chiamarti.» risponde Yasmine ridendo.
Arielle
sbuffa a causa della stravaganza della sorella, che però, proprio per questo, riesce
sempre a farla sorridere.
«Sono sicura di non aver interrotto un appuntamento romantico,
quindi basta sbuffare.»
«Se invece il mio uomo mi stesse aspettando nel letto?»
«Ciao bell’uomo!» esclama Yasmine.
Arielle
sorride davanti all’allegria contagiosa della ragazza. «Stai bene?»
«Oui! Ti ho chiamata perché
avevo voglia di importunarti un po’: posso venire a trovarti domani?»
Arielle
si accorda con la sorella per trovarsi l’indomani nel pomeriggio e chiude la
chiamata.
Con un sospiro si lancia sul letto, più tranquilla,
ringraziando mentalmente la sorella che, inconsapevolmente, l’ha strappata dai
suoi incubi. Ben presto il sonno le ottenebra la mente e la trascina in un mondo
privo di presenze inquietanti.
L’aria frizzante del mattino investe il viso di Arielle, scompigliandole i capelli ramati. Con passo svelto
si dirige verso l’ufficio, situato nel centro della cittadina dove abita. Non è
un luogo molto affollato, a sud-ovest della capitale dello Stato della
Bretagna, a pochi chilometri dalle caratteristiche scogliere della Francia
settentrionale. La decisione di abitare in quella cittadina non è stata
casuale: dolci ricordi infantili sono legati ad essa, assieme a splendidi
paesaggi naturali, dove la sua famiglia organizzava picnic nelle domeniche di maggio.
Un sorriso le affiora sul volto al pensiero di tali memorie.
Un buffetto delicato sulla guancia richiama la sua
attenzione.
«Ehilà, Arielle.» la saluta
il suo collega, Chris.
«Buon giorno.» risponde la ragazza, mentre si dirigono
nella loro stanza d’ufficio.
«Cosa sono quelle occhiaie? Le ha la signora Roux
quando il martedì sera resta sveglia per guardare la sua telenovela.»
Al pensiero della sua caporeparto, che arriva il
mercoledì mattina in ufficio con il trucco sbavato e il cipiglio alzato, Arielle scoppia a ridere, contagiando Chris.
«Non ti puoi certo ridurre così all’età di vent’anni,
sai? C’è tempo per invecchiare, tra un po’ d’anni ne riparleremo.»
«Ricorda che sei sempre più vecchio di me: ti reggerò
il bastone prima di quanto ti aspetti.»
«Oh, smettila! Trent’anni non si sentono.»
«Sì, sì…» lo asseconda divertita la ragazza.
La giornata trascorre senza particolari intoppi: il
caffè della macchinetta ha poco sapore come al solito, la stampante ha bisogno
di essere riparata dal tecnico, ma la signora Roux non è presente quel giorno,
il che può essere considerato positivo, altrimenti Arielle
e i suoi colleghi avrebbero dovuto sorbirsi il riassunto degli episodi della
sua sitcom preferita.
Mentre rincasa Arielle si
sente più stanca del solito e la testa sembra non voler smettere di dolerle, ma
cerca di non dar peso a quelle sensazioni, rasserenata dall’imminente visita
della sorella. Giunta al portone del condominio, trova ad aspettarla una bella
ragazza, dalla carnagione ambrata, dai lunghi capelli, neri come l’ebano e dal
sorriso smagliante.
Yasmine le corre incontro, avvolgendola in un
abbraccio caloroso e così familiare, nonostante siano trascorsi due mesi dal
loro ultimo incontro.
Dopo essere entrare nell’appartamento, Arielle prepara uno spuntino sfizioso per la sorella e
qualcosa da bere.
«Che bello essere qui dopo tanto! Hai modificato l’appartamento?»
«Niente in particolare. Ho solo comprato delle nuove
tende per il bagno e un tavolino per la stanza da letto.»
«Dopo allora mi fai vedere tutto, ma prima… ho portato
una cosa!»
Arielle
scruta incuriosita la sorella, che estrae dalla borsa un oggetto quadrangolare,
avvolto da uno strato di carta di riso.
«L’album fotografico di famiglia.» esclama, sorpresa
di rivederlo dopo tanto tempo.
«Già, l’ho trovato in soffitta nella casa di papà.
Settimana scorsa sono stata da lui e dalla mamma, perché poi sarebbero partiti
per la Svezia.» spiega Yasmine, sorseggiando una bevanda fredda.
«Come sta Kiran?»
Kiran
è il nome della madre di Yasmine e seconda moglie del padre di entrambe. Quando
Arielle aveva due anni, il rapporto tra i suoi genitori
era ormai diventato problematico da parecchi mesi, di conseguenza avevano
optato per il divorzio, soprattutto per non far risentire alla piccola la
tensione che vigeva in casa. Tre anni dopo, il papà di Arielle
si era costruito una nuova famiglia, con un’altra donna, conosciuta in India
durante un viaggio di lavoro: Kiran. Tra i due era subito
scoccata la scintilla, così avevano deciso di andare a convivere in Francia,
terra natia dell’uomo. Non molto tempo dopo era nata Yasmine, cui Arielle si era affezionata fin da subito. Qualche anno più
tardi, entrambe le sorelle erano divenute abbastanza grandi da comprendere la
situazione familiare, ma ciò non aveva influito sullo splendido rapporto che
fin da bambine le aveva unite. Arielle non serbava
nessun risentimento verso suo padre, che aveva deciso di rifarsi una vita,
siccome le attenzioni dedicate a Yasmine erano le medesime nei suoi confronti.
Inoltre l’uomo aveva cercato fin da subito di avvicinare le bambine, senza far
gravare la diversità della madre. Riguardo alle due donne, nonostante
l’iniziale freddezza e riservatezza, con il tempo si erano avvicinate e avevano
costruito un rapporto fondato sul rispetto e la fiducia.
«Bene, era un po’ in pensiero per il viaggio in aereo.
Mi hanno detto di salutarti e di passare da loro quando vuoi.»
«Adesso sono un po’ impegnata, ma al loro ritorno
andrò sicuramente; se ti va potremmo andarci assieme.» propone Arielle, scostandole una ciocca di capelli dal viso e
accarezzandole una guancia.
La sorella annuisce e apre l’album fotografico. Benché
abbia più di dieci anni, è stato conservato perfettamente e
le foto sono accuratamente sistemate dentro gli scomparti di plastica
trasparente. I ricordi affiorano vivacemente mano a mano che le pagine scorrono
e raccontano di particolari e giornate dimenticate. Le foto scattate in
Provenza sembrano richiamare alla mente il profumo delle distese di lavanda,
attraverso le quali correvano e ridevano, la mente spensierata e la gioia
genuina che appartiene ai bambini.
«Quando stavamo raccogliendo la lavanda, ti si era
posata una farfalla su un dito e la volevi portare a casa.» ricorda Arielle.
Entrambe si lasciano andare a una risata argentina e
Yasmine annuisce. «È vero! Quando te l’avevo detto, mi avevi risposto che non
era possibile e volevo mettermi a piangere, perché era ingiusto.»
Gli ultimi raggi del sole penetrano attraverso le
finestre della sala, annunciando il loro ultimo manifestarsi quel giorno e le
pagine dell’album non ancora riviste sono poche. Ad un tratto, Yasmine si
sofferma su una fotografia, indicandola con il dito.
«La prima volta che siamo state in questo luogo ci era
piaciuto molto e papà è stato costretto a riportarci
lì il giorno seguente.» commenta ridacchiando.
L’immagine impressa sulla carta mostra un’ampia
distesa di prato verde smeraldo, che riluce al sole e riveste una scogliera,
dove, all’apice di un’altura non molto pronunciata, è posto un faro, dai tipici
colori rossi e bianchi. I soggetti della foto sono Yasmine e Arielle, abbracciate e, alle loro spalle, il padre: i loro
occhi sembrano quasi sorridere, come le loro labbra. La felicità sembra essere
stata catturata dall’obiettivo della macchina fotografica così nitidamente, che
pare possibile accarezzarla, come se fosse un altro personaggio dell’immagine.
Ad Arielle, però, la
fotografia non trasmetta nessuna sensazione di dolcezza o calore.
Improvvisamente lo stomaco le si serra in una morsa
violenta e le labbra, colorate da un piccolo sorriso, si stringono in una
smorfia. Avverte un conato di vomito e ha giusto il tempo di correre in bagno,
evitando di sporcare il tappeto della sala. Con le mani strette saldamente
all’asse del water, la testa prende a vorticarle, mentre gli occhi assimilano immagini
confuse e sfocate. Ad un tratto qualcosa di sottile tocca la schiena di Arielle, che sobbalza spaventata. Riesce solo a rendersi
conto delle dita di Yasmine, che sviene, perdendo i sensi.
«Arielle… Arielle!»
La sorella la prende per le spalle, cercando di
svegliarla, chiamando ripetutamente il suo nome. La calma e la serenità che la
contraddistinguono si frantumano come pezzi di vetro. Angosciata, le bagna il
viso con dell’acqua, ma senza risultati. Con il cuore palpitante d’inquietudine,
si assicura che il respiro ed il battito cardiaco siano regolari e trascina Arielle in camera da letto. Masticando imprecazioni,
afferra il cellulare.
«Chris, sono Yasmine! Arielle
ha vomitato ed è svenuta! Oggi stava bene in ufficio? Ha mangiato qualcosa di
strano?»
«Cazzo! No, ha mangiato e lavorato normalmente.
L’unica cosa che ho notato sono le occhiaie e quando è uscita dall’ufficio mi è
sembrata un po’ stanca. Hai provato a sentirle il battito cardiaco e il
respiro?»
«Sì, è tutto regolare. Penso sia stato un calo di
pressione, mi ha detto che in questo periodo è un po’ impegnata, magari è solo
un po’ di stress. Se non si risveglia entro poco chiamo un medico.»
«Okay, mi sembra la soluzione migliore. Poi fammi
sapere come sta.»
«Sì, a dopo.»
Conclusa la comunicazione, Yasmine corre al capezzale
della sorella. Dopo un tempo che sembra non scorrere mai, fatto di minuti
infiniti, Arielle si sveglia, confusa e stordita.
«Arielle! Come stai? Senti
dolore da qualche parte?»
Yasmine la tempesta di domande, con voce carica di
apprensione, scostandole i capelli dal viso.
La sorella sbatte le palpebre più volte, fino a quando
gli occhi riescono a visualizzare con chiarezza ciò che la circonda. Nega con
il capo, senza riuscire ad aprir bocca. Lentamente, il flusso degli eventi
accaduti le invade la mente e quando anche il ricordo della fotografia si
colloca all’interno di esso, come il pezzo di un puzzle, il terrore la travolge.
Con uno scatto balza giù dal letto, incurante dei
richiami di Yasmine e raggiunge la sala, arpionando l’album fotografico.
Accompagnata dal battito furioso del suo cuore, prende in mano la foto che
ritrae lei, la sorella e il padre nello stesso maledetto luogo teatro dei suoi
sogni e la brucia, di fronte allo sguardo sconvolto della sorella.
La carta prende fuoco, scoppiettando tra le dita di Arielle, che osserva la scena con occhi vacui, come
ipnotizzata.
«Arielle!».
Come se le avessero rovesciato in testa un secchio
d’acqua gelata, la ragazza si riscuote con uno scossone, voltandosi verso
Yasmine.
«Che succede? Perché hai bruciato la fotografia?»
«…Cosa?» mormora Arielle,
sbattendo ripetutamente le ciglia incredula.
I suoi occhi corrono alle mani, dove si è depositato
uno strato di cenere. Sbigottita, rimane a lungo a fissarle, senza tuttavia
riuscire a capire.
«Cos’è successo?» chiede con un filo di voce.
«Come? Hai appena bruciato la fotografia dove eravamo
sulla scogliera.» esclama Yasmine perplessa. «Perché l’hai fatto?»
Arielle
si lascia cadere sul divano, sospirando. La sorella le si siede affianco,
circondandola in un abbraccio.
«Davvero ho bruciato la fotografia?»
«Cosa? Non te ne ricordi?»
La giovane nega con il capo. Le tempie hanno ripreso a
dolerle, ma cerca di non prestarci attenzione.
Yasmine la osserva preoccupata: sua sorella non è
cagionevole di salute, non l’ha mai vista in quelle condizioni. Inoltre il suo
comportamento è incomprensibile. Avverte una strana sensazione, come un
richiamo a stare all’erta, ma scuote la testa e adduce come causa di quelle
stranezze lo stress. Come per cercare di solidificare quell’idea, la ripete ad
alta voce, suggerendo ad Arielle un bagno caldo e un
buon riposo.
La notte sopraggiunge velocemente e la luna rischiara
il cielo di tenebra, sgombro da nuvole.
«Scusami per averti fatta preoccupare, adesso sto bene.»
proferisce Arielle.
«Questo è l’importante.» risponde Yasmine, appoggiando
la fronte alla sua, un gesto che solevano fare quand’erano bambine.
Ad Arielle trasmette una
sensazione di calma e serenità e gli incubi non vengono a disturbarla quella
notte.
Il giorno successivo trascorre all’insegna di passeggiate
per il centro della città, borse cariche di acquisti, un buon pranzo in un
ristorante dalla cucina locale e tante risate. Al termine della giornata,
Yasmine si ritrova sotto al condominio della sorella, pronta per tornare a
casa.
«Mi dispiace dover andare via così presto, ma domani dovremo
tornare al lavoro entrambe…»
«Già, la prossima volta organizziamo le ferie nello
stesso periodo, così riusciamo a stare assieme più tempo.»
Yasmine annuisce, sorridente e replica: «Mi sembra una
buona idea! Anche se ci siamo viste per poco, sono stata bene. Come sempre.»
Arielle
la abbraccia forte, confermando le sue parole. Nonostante non sia
particolarmente espansiva, le viene naturale mostrare tutto l’amore che prova
per Yasmine, spontaneamente, senza reprimere nemmeno un sorriso.
Le ragazze si salutano, accordandosi per rincontrarsi il prima possibile e Yasmine sale in macchina. Dopo aver
trascorso una giornata in allegria e senza complicazioni, quali svenimenti o
atti strani e improvvisi, è tranquilla ad andarsene.
“Arielle sta bene e oggi non
è successo nulla. Domani trascorrerà buona parte della giornata in ufficio, perciò
se le dovesse succedere qualcosa ci saranno i suoi colleghi a soccorrerla.”
riflette, inconsapevole degli incubi agghiaccianti che tormenteranno poche ore
dopo la sorella.
Al mattino, quando Arielle
arriva in ufficio, ha un aspetto peggiore rispetto a qualche giorno prima, se possibile, le fa notare Chris, con
l’intento di sdrammatizzare. Tuttavia la ragazza non coglie l’ironia della
battuta, che, contrariamente all’effetto sperato, la rende taciturna per il
resto della giornata.
Quando esce dall’ufficio, sospira stancamente. La
quantità di lavoro è stata maggiore del solito e durante tutto il giorno ha
avuto la singolare quanto inquietante sensazione di essere osservata.
A passo svelto si dirige verso casa, con la ferma
intenzione di guardare un film per riposarsi: la notte precedente è stata un
inferno. Mentre cammina, sente insistentemente un rumore di passi ravvicinati,
che seguono la sua direzione. Con uno scatto improvviso, si volta, per vedere
chi sia la persona che la sta pedinando, ma ciò che vede la sbigottisce. Non
c’è nessuno che la sta seguendo, la via che sta percorrendo è deserta: un
vecchio negozio all’angolo ha la saracinesca abbassata e la porta di un
condominio è chiusa, così come le persiane verdi. Un brivido freddo le striscia
lungo la schiena, mentre nella sua mente si ripete che sarà stata solo un’impressione.
Le sue azioni, tuttavia, tradiscono la sua ferma autoconvinzione: stringendosi
nelle spalle, riprende il tragitto verso casa, con passo trafelato. Una volta
giunta alla sua abitazione, Arielle tira un sospiro
di sollievo.
Il giorno successivo, la sgradevole sensazione di un
paio d’occhi che le trafiggono la schiena è scomparsa. In compenso è comparso
il mal di testa, che sembra non volerla abbandonare e l’indomani la costringe a
chiedere un giorno di ferie causa malattia.
Il mattino non si rivela migliore della sera
precedente e Arielle riposa nella sua stanza da
letto, eppure qualcosa le impedisce di abbandonarsi ad un sonno ristoratore.
Le persiane sono socchiuse, per evitare ai fastidiosi
raggi solari di penetrare nella stanza e un incenso emette fili di fumo profumati,
nell’appartamento vigono silenzio e una calma che sembra preannunciare l’arrivo
di una tempesta. Arielle si stringe nelle coperte,
scossa da un brivido freddo. Con lo sguardo passa in rassegna la stanza, come
per paura di trovarvi qualcosa di indesiderato
e le appare insolitamente lugubre. Gli esuli raggi solari che sono riusciti a
filtrare all’interno illuminano fiocamente l’ambiente, creando ombre e sagome
inquietanti sulle pareti, che sembrano volersi staccare dal muro e divenire reali. Il fumo prodotto dall’incenso
assume forme mostruose, scomparendo effimero in pochi istanti. Arielle scuote la testa, pensando che è solo la sua
immaginazione e nulla di ciò che la circonda è così sinistro.
Improvvisamente un rumore attira la sua attenzione. In
silenzio cerca di capire cosa sia, ma un mormorare sommesso la fa sobbalzare.
Proviene dall’ingresso e, di tanto in tanto, alle voci che sussurrano, si
uniscono delle risate isteriche.
Arielle
deglutisce, in preda al terrore. Nessuno può essere entrato nel suo
appartamento, poiché nessuno possiede le chiavi, eccetto Yasmine. In un istante
il vociare si zittisce e la giovane, mossa da un moto di coraggio, scende dal
letto, intenzionata ad andare a controllare, ma i rumori riprendono, più acuti
di prima. Con passi leggeri e tremanti, raggiunge la cucina, passando per la
sala. Stringendo in mano un coltello affilato, torna in sala, il cuore in
procinto di scoppiare per il troppo sangue che sta pompando. Le voci non
sembrano essersi accorte dei suoi spostamenti furtivi o, semplicemente, hanno preferito ignorarli. Rischiando di
inciampare nel tappetto, con un balzo irrompe nell’ingresso… dove ad attenderla
non trova nessuno.
«Chi c’è?!» urla.
Le voci hanno smesso e
l’appartamento è piombato nuovamente nel silenzio. Immobile, con il respiro
rotto e le gambe pesanti, Arielle attende diversi
minuti, ma non accade nulla. Decide di ritornare nella sua stanza, ma senza
abbandonare il coltello, che stringe ancora saldamente nella mano. Si volta per
tornare in sala quando una risata raccapricciante le sibila all’orecchio e,
come se una mano avesse afferrato la sua, l’arnese scivola dalla sua presa,
ferendole i polpastrelli e cadendo sul pavimento con un tonfo metallico. Arielle rimane paralizzata alcuni istanti, il tempo di percepire
che la presenza che le si è avvicinata è scomparsa e un grido divampa tra le
mura dell’appartamento. Tenendosi la testa fra le mani tremanti, urla con
quanto fiato ha in gola, finché, con un singhiozzo rotto, dalle sue labbra non
esce più nemmeno un filo di voce. Dopo diversi minuti, stremata, con lo stomaco
chiuso in una morsa di angoscia, si avvia verso la stanza da letto, lasciandosi
alle spalle una scia di macchie vermiglie.
Il giorno seguente Arielle
si trascina giù dal letto, con la ferma intenzione di andare a lavorare per
distrarsi e per stare lontana da strani
avvenimenti.
Quando varca la soglia della sua stanza d’ufficio,
Chris le piomba addosso, sommergendola di domande riguardanti la sua salute. La
ragazza cerca di sviare il discorso, giustificando la sua assenza a causa di un
malessere poco significativo. Il collega, però, si accorge dei cerotti che le
fasciano le dita e si allarma ancor di più.
«Arielle… cos’è successo?
Sei certa di stare bene?»
«Sì, ti ho detto di non preoccuparti. Ieri stavo
cucinando e mi sono accidentalmente tagliata. Sono solo dei graffi.» mente la
ragazza, abbozzando un sorriso.
A dispetto di ciò che si sarebbe aspettata, la
giornata scorre con tranquillità, senza dolori e senza spaventose apparizioni.
Un invito ad uscire a cena da parte di Chris le risveglia il buon umore, che
sembra sopito da diversi giorni. La serata trascorre piacevolmente,
permettendole di distrarsi dai brutti pensieri, che ormai la tormentano
continuamente. Anche il giorno seguente si rivela altrettanto sereno, inducendo
Arielle a pensare che, forse, la tempesta sia
passata. Almeno così cerca di convincersi, fino all’arrivo di un nuovo giorno.
Quella mattina, la giovane non si reca in ufficio,
essendo un giorno di festa. A causa di alcune commissioni, tuttavia, è
costretta a uscire da casa. Preso un cambio di abiti puliti, in bagno accende
l’acqua della doccia per farla scaldare. Quando il vapore comincia ad appannare
lo specchio, apre lo sportello della doccia, dalla quale fuoriesce un liquido
nerastro. Arielle indietreggia con uno scatto, fissando
la scena con occhi inorriditi: l’acqua che dovrebbe fuoriuscire è stata
sostituita da un liquido della stessa consistenza, dal colore torbido. Sgrana
gli occhi, colpita da un flash: nel sogno ricorrente che la tormenta il mare
che imperversa ai piedi della scogliera è del medesimo colore. Il cervello
impiega una frazione di secondo per permetterle di capire cosa sta succedendo:
tutto quello in cui sperava è crollato all’istante, come un fragile castello di
carte. All’improvviso la presenza che ossessivamente la perseguita, torna a farle
visita con la sua vocina raccapricciante. Le orecchie di Arielle
si riempiono delle sue risate e la sua schiena viene carezzata lascivamente da
mani inconsistenti. I muscoli sembrano non voler rispondere ai suoi comandi,
urla continue nella sua mente, che incitano il suo corpo a muoversi, senza
risultato. Le carezze scivolano lungo la linea delle sue gambe, tracciandone
con precisione i contorni. Un’altra risata, un altro brivido che la scuote. Tutto
scompare, così com’è apparso, in un istante di tempo che pare incessante. Il
liquido ha smesso di scorrere e un silenzio piatto aleggia nel bagno. Un
violento singhiozzo coglie Arielle, che cade sulle
ginocchia e le labbra le si bagnano di lacrime. Ci aveva sperato, davvero e solo in quel momento si è resa
conto che era sempre stata solo un’utopia,
effimera, deludente. Cazzo! Come aveva potuto credere che niente l’avrebbe più
torturata, gli incubi non l’avrebbero più sorpresa nel cuore della notte,
quella strana presenza sarebbe scomparsa per sempre? Con le lacrime a solcarle
il viso e il corpo scosso da tremiti se ne rende conto. È questo che le fa
alzare la testa, con le labbra strette in una smorfia di rabbia e il cuore
pulsante di paura. Vorrebbe nascondersi sotto le coperte e dimenticare ogni
cosa, ma è proprio la consapevolezza che presto o tardi sarà schiacciata dal
terrore, che la sprona a reagire, a combattere, anche contro qualcosa che non dovrebbe esistere.
Si rialza da terra e con furia si riveste, intenzionata
a chiudere definitivamente quella storia. Con passo svelto attraversa la sala,
diretta all’ingresso, ma i suoi occhi vengono catturati da qualcosa di
colorato, poggiato sul tavolino. Si arresta bruscamente e raccoglie la
fotografia, la stessa che aveva bruciato qualche giorno prima.
«Sto venendo a cercarti…» proferisce, sbattendo la
porta d’ingresso dietro di sé.
L’asfalto corre veloce sotto le ruote della macchina
di Arielle, il paesaggio si confonde in macchie di
colore indefinite oltre i finestrini, così come appare indefinita la sua meta.
Non sa esattamente dove si sta dirigendo, non conosce la strada per giungervi
ed è l’istinto a guidarla. Quando l’autostrada termina, infinite praterie si
dispiegano davanti ai suoi occhi, così verdi da creare contrasto con la tinta
buia del cielo. L’aria si è fatta umida e più fresca, man mano che la strada procede
lontano dai centri abitati. Un senso d’inquietudine si fa largo dentro ad Arielle, che avverte il cuore battere irregolare. La strada
termina con una recinzione, che impedisce di proseguire oltre. Ferma la
macchina imprecando.
«Ero sicura che si dovesse andare in quella direzione…
perché la strada è sbarrata?» riflette ad alta voce, infastidita.
La giovane smonta dall’automobile, perlustrando la
zona, in cerca di una casetta o una cascina, in cui poter trovare qualcuno per
chiedere delle indicazioni. Ad un tratto, aguzzando la vista, intravede una
stradina snodarsi tra il fitto bosco. Il cuore le scalpita nel petto e la
razionalità presente in lei grida a gran voce di fuggire da quel posto e non
farvi ritorno mai più, ma Arielle segue l’istinto e
si tuffa nella vegetazione. La vista le si oscura d’improvviso, a causa della
scarsa luminosità e per i primi metri procede a tentoni, finché i suoi occhi si
abituano. Di tanto in tanto i vestiti le si impigliano tra i rami degli alberi
e più volte rischia di cadere a terra, a causa delle grosse radici che spuntano
dal terreno. Tutto ciò che la circonda le rammenta il suo sogno e mentre una
spina le ferisce una guancia e avverte dolore, capisce che, questa volta, nulla
è immaginario. Come se fosse stata spinta fuori dal bosco, si ritrova nella
distesa verde che ricopre la scogliera. La tasca posteriore, nella quale ha
infilato la fotografia, sembra bruciare.
«Sei dunque
giunta…» sibila una voce, perdendosi nel vento.
Arielle
sobbalza, presa alla sprovvista: la presenza non le ha mai rivolto la parola e
non se lo sarebbe mai aspettata. Cercando di ingoiare un groppo di saliva,
inspira faticosamente.
«Sì. Sono venuta per chiederti cosa vuoi.» replica,
cercando di assumere un tono di voce fermo.
La paura si è impossessata nuovamente di lei e sente
il coraggio allontanarsi, strisciando via come un serpente.
«Cosa voglio?»
La presenza sembra sorpresa dalla domanda e resta in
silenzio, come per riflettere sulla risposta. Alla fine esclama con una risata:
«Te!»
Arielle
rabbrividisce a causa del tono, un misto fra ripugnanza e lascivia. Scacciando
il ricordo degli avvenimenti accaduti poche ore prima, afferma: «Non ho nulla
di speciale o nulla da poterti dare.»
La presenza non risponde e tutto ciò che si ode sono
le onde del mare burrascoso, che si infrangono contro la scogliera e il vento
impetuoso, che le scuote i capelli d’ambra. Il desiderio di scappare è così
forte che quasi Arielle gli si abbandona, ma la paura
le ha inchiodato i piedi al suolo.
Una nebbia sottile prende forma di fronte ai suoi
occhi inorriditi: un essere identico a lei la fissa, sorridendo mellifluo.
«Io sono te.»
La ragazza trasalisce all’udire la voce: è uguale alla
sua. Scuote la testa, tenta di convincersi che ciò che sta vedendo è solo un
trucco, una squallida menzogna. Eppure qualcosa le ripete insistentemente che l’essere
che le si staglia di fronte è lei.
«Balle!» bercia istericamente. «Tu non sei me!»
«Cosa ti spinge
a pensarlo?»
«Non bastano sembianze simili o la stessa voce per
essere me!»
La testa ha preso a pulsarle insistentemente e la gola
le brucia, a causa dello sforzo. La sua corrispettiva sembra accorgersene e
gioirne silenziosamente, sempre con il sorriso impresso sulle labbra di nebbia.
Sventolando una mano, crea un cerchio di fumo, al cui interno cominciano a
disegnarsi nitidamente immagini. Gli occhi di Arielle
si dilatano, mentre su di essi si riflettono i suoi ricordi infantili: una
giornata al mare con la mamma, il viaggio in America con Yasmine, un pomeriggio
di sole trascorso dai nonni. La gola le si è serrata in una morsa dolorosa e
non ha più parole con cui attaccare il suo nemico. La testa è sgombra da qualsiasi
pensiero, gli occhi rifulgono di folle orrore.
«Io sono te.»
ripete la ragazza di nebbia. «Sono il mostro che nascondi sotto al letto, il riflesso distorto da cui fuggi davanti allo specchio, il male che tenti
di esorcizzare.»
L’espressione mansueta sul suo viso viene spazzata via
da occhi che luccicano di crudeltà e un ghigno sadico affiora lentamente in
modo innaturale, deformandole i lineamenti. Con uno strattone, avvicina a sé Arielle.
«Sono Rabbia!»
ulula iraconda.
«Sono Paura…»
sussurra debolmente al suo orecchio.
«Sono Cattiveria.»
proferisce freddamente, afferrandole una ciocca di capelli e costringendo la
sua testa a piegarsi.
Arielle
spalanca gli occhi, come risvegliatasi da una trance e urla, con quel poco di
fiato rimastole in gola. La sua corrispettiva ghigna, stringendo più forte la
presa e reclinandole la testa ulteriormente.
«Sono Follia!»
esclama sadicamente, lasciando la ciocca di capelli.
La giovane cade rovinosamente al suolo, sbucciandosi
un ginocchio e ferendosi i palmi delle mani.
«Perché?» mormora stancamente, come se le avessero
prosciugato tutte le energie.
Il coraggio con cui era uscita da casa, ringhiando
irosa è scomparso, assieme alla determinazione con cui ha stretto la fotografia
tra le dita ferite. Osserva il viso di nebbia, dalle sfumature intangibili e
terribili, quello di un essere partorito per uccidere i buoni sentimenti.
La presenza si abbassa all’altezza di Arielle, mormorando: «Perché
ti voglio.»
Con uno scatto, la ragazza alza il busto, in preda ad
un conato di vomito. Il sapore acre le sale lungo l’esofago crudelmente, senza
però arrivare in bocca.
«Abbandonati a me. Non hai nulla da perdere.»
La nebbia dissolve la forma acquisita, frammentandosi
velocemente. La prateria scompare, inglobata nel grigio, il rumore del mare si
perde nel vento, il faro viene cancellato, il cielo scompare all’orizzonte.
«Avanti.»
Scosso da spasmi violenti, il corpo della giovane si alza
faticosamente. Comincia a camminare, andando in contro alla nebbia.
Un
passo.
La sua coscienza e i suoi pensieri si zittiscono
gradualmente.
Due.
Le iridi perdono il loro vivo colore, diventando
opache.
Tre.
Sulle sue labbra esangui si disegna un tetro sorriso.
Quattro.
Il respiro che soffia dalla sua bocca si fa lento ed
instabile.
Cinque.
Il cuore le rimbalza furiosamente contro la cassa
toracica, come se volesse uscire.
Sei.
Le gambe le fanno male e sembrano in procinto di
spezzarsi sotto il suo peso.
Sette.
I suoi vestiti si lacerano lentamente, esponendo
porzioni di pelle al gelo.
Otto.
Le ferite sui polpastrelli hanno ripreso a sanguinare,
inzuppando i cerotti ormai logori.
Nove.
I piedi inciampano più volte nel terreno impervio,
facendola cadere.
Dieci.
La follia le ottenebra i sensi, diminuendo la loro
sensibilità.
Undici.
«Arielle...»
Dodici.
L’Oblio.
Buon giorno a tutti! Sono
nuova nel fandom e questa è il mio primo
esperimento!
E' la prima volta che mi cimento in questo genere (mi sa
che i racconti scritti alle elementari non contano... ahahah), quindi
accetto volentieri critiche e consigli per poter migliorare. Nonostante ci
abbia messo parecchio a scrivere questo testo (è stato un parto per certi
aspetti!), mi è piaciuto. Il finale è incompiuto e l'ho lasciato volutamente
così: ognuno può immaginarlo come preferisce. Se qualcosa non dovesse risultare
chiaro, non esitate a domandare!
Sayonara :3