Pioggia
Mai
avrebbe pensato di incontrare di nuovo quello sguardo.
Eppure,
in quella fredda mattina carica di una foschia quasi oppressiva,
quello sguardo la colpì come un pugnale in pieno petto.
Non
era cambiato affatto. Gli stessi occhi neri, enormi ed espressivi,
incorniciati da ciglia scurissime, troppo lunghe e troppo folte per
essere quelle di un uomo. Ciononostante, quegli occhi che un tempo
esprimevano solamente esuberanza e sfrontatezza, la fissarono con
estrema fragilità.
Lei
non riuscì a muovere più nemmeno un passo e
rimase
immobile in mezzo alla strada, le braccia abbandonate lungo i fianchi
e un'espressione turbata sul viso. Attorno a lei, la gente continuava
a camminare, ignara di quanto stesse succedendo.
Lui
iniziò a muovere qualche passo nella sua direzione e a lei
sembrò di smettere di respirare.
«Ho
vinto ancora una volta! Sono il migliore!» un bambino di
sì
e no dieci anni fissava il compagno di giochi steso a terra, un
piccoletto con gli occhi umidi di lacrime e la bocca imbronciata.
«Tu
hai barato, mi hai colpito alle spalle! Sei davvero uno... Stronzo.»
si lamentò il ragazzino più piccolo, mentre
tentava di
rimettersi in piedi.
«Mamma,
hai sentito cosa mi ha detto? L'hai
sentito?» il bambino più
grande cercò
immediatamente l'appoggio della madre.
«Io
non ho detto assolutamente niente, mamma! È stato lui che mi
ha preso a pugni!» si affrettò a specificare
l'altro,
tirando su col naso.
In
piedi sulla porta, la donna fissava quei due bambini che la
chiamavano mamma con un misto di preoccupazione e di tenerezza.
Nessuno
dei due era davvero figlio suo.
Alessandro,
il più grande, era il figlio di sua sorella, morta di parto;
mentre Valerio, il più piccolo, era stato abbandonato dai
genitori quando aveva solo pochi mesi, così aveva deciso di
occuparsi anche di lui.
Per
lei che non si era mai sposata e che non era riuscita ad avere figli,
quei due ragazzini iperattivi rappresentavano tutta una vita.
Il
caso aveva voluto che quei due fossero l'uno l'opposto dell'altro.
Alessandro
era estremamente sicuro di sé ma mai arrogante, spesso si
chiudeva in pensierosi silenzi e, a soli dieci anni, aveva dimostrato
di essere molto più sveglio e intuitivo di molti suoi
coetanei; Valerio, invece, era impulsivo e spesso violento,
strafottente, temerario fino all'incoscienza e sembrava non riuscire
a tenere mai la bocca chiusa.
«Ragazzi,
smettete di litigare e rientrate in casa: dovete ancora fare i
compiti.» li ammonì la madre, le mani incrociate
al
petto, nel tentativo di risultare più imperiosa.
Alessandro
e Valerio, tuttavia, tornarono ad urlare e ad avventarsi l'uno
sull'altro.
Non
era mai stato molto bravo con le parole e così, quando
finalmente si trovò di fronte a lei, le afferrò
il
polso e fece per trascinarla via.
«Si
può sapere cosa stai facendo?» sbottò
lei,
tentando di divincolarsi.
«Non
qui. Non in mezzo alla strada. Andiamo da qualche parte, dobbiamo
parlare.» spiegò lui, senza lasciare la presa,
mentre si
guardava attorno alla ricerca di un luogo più appartato.
Qualche
passante, intanto, si era fermato un istante ad osservare quella
scena, ma tutti ripresero a camminare, supponendo si trattasse
solamente di un litigio tra due innamorati.
«Ci
puoi scommettere.» concluse lei, laconica e stizzosa, mentre
acconsentiva a seguirlo.
Tutto
il vicinato conosceva quei due ragazzini chiassosi, che trascorrevano
le giornate girovagando per il quartiere e, il più delle
volte, creando qualche scompiglio.
Eppure,
Anita incontrò Valerio quando aveva solamente quindici anni,
ed era ancora timida e inesperta. D'altro canto Valerio, che di anni
di aveva sedici, sembrava non aver ancora capito bene come
comportarsi con le ragazze.
Ovviamente,
il diciannovenne Alessandro faceva già strage di cuori, con
quel suo atteggiamento cortese e un po' malizioso.
«Usciamo
insieme.» chiese Valerio ad Anita, seduto sul muretto che
costeggiava il campo da calcio, fissandola con quei suoi enormi occhi
neri. «Sarebbe un peccato se dicessi di no.»
aggiunse
subito dopo, scoppiando in una risata esuberante.
Anita,
spiazzata, convenne all'istante che ad uno sguardo del genere non si
poteva certo dire di no, per nessuna ragione. E così,
sistemandosi una ciocca di capelli scuri dietro l'orecchio, accettò
timidamente quell'invito. L'impulsivo Valerio, allora, scendendo dal
muretto con un salto, si avvicinò ad Anita e le
stampò
un bacio all'angolo della bocca, prima di allontanarsi canticchiando.
Poco
lontano dall'affollata via in cui si erano finalmente rincontrati
c'era un caffè dall'aria antiquata. Era un locale piuttosto
piccolo, in cui i tavolini rotondi erano ammassati a pochi centimetri
di distanza tra di loro e davano su un'ampia vetrata che quella
mattina era coperta di condensa. Le pareti del locale erano rivestite
di legno scuro, dello stesso colore del parquet e il bancone era
ampio e con il piano di marmo nero. Dietro di esso stava il barista,
un uomo sulla quarantina che elargiva sorrisi gentili a tutti i
clienti e alla cassa (un oggettino d'epoca davvero molto
caratteristico ma poco funzionale) sedeva la moglie del barista, una
donnina dall'aria anonima con il viso a forma di cuore.
Il
caffè, fortunatamente, non era troppo frequentato e
così
non fu difficile trovare un tavolo un po' più appartato.
Si
sedettero in silenzio e si fecero portare del caffè, lungo.
Lui
si prese del tempo per poterla osservare. Era passato parecchio
tempo, ma il suo viso aveva gli stessi tratti armoniosi, sebbene un
po' squadrati; gli occhi grigi erano luminosi, nonostante qualche
piccola ruga e il sorriso, ne era sicuro, doveva essere meraviglioso
come lo era tanti anni prima. Era una donna, adesso, una donna
bellissima.
Quando
si rese conto che anche lei lo stava osservando, scostò lo
sguardo e prese a guardare fuori.
«Sembra
che si metterà a piovere... E io non ho un
ombrello.»
disse, accompagnando la propria affermazione con una smorfia
infastidita.
Lei
si torceva le mani affusolate, quando finalmente trovò il
coraggio per fargli quella domanda la cui risposta attendeva da
dodici, interminabili anni.
«Dove
sei stato?»
«Ovunque.»
rispose lui, esibendo un sorriso spavaldo ma uno sguardo dolente.
Anita
sospirò, accigliandosi.
«Non
sembri affatto dispiaciuto.» commentò lei,
risultando
più acida di quanto volesse essere.
«Cosa
te lo fa pensare?» fu la risposta immediata di Valerio, che
sembrava essersi già alterato.
Anita
sorrise tra sé e sé, contenta che nemmeno il suo
carattere fosse cambiato così tanto: era sempre stato facile
farlo arrabbiare.
«Una
mattina hai deciso di andartene senza dire niente a nessuno, senza
far sapere né a tua madre, né a tuo fratello, né
a me
dove diavolo fossi
finito!» esclamò allora Anita, anche lei molto
vicina ad
infuriarsi.
«Loro
non erano la mia vera famiglia.» fu la misera scusa che
Valerio
pronunciò abbassando lo sguardo, fissando il tavolino.
«Ma
ti hanno cresciuto come se lo fossi! Dopo che te ne sei andato, tua
madre non faceva altro che piangere e pregare per te. Non ti rendi
conto di quanto l'hai fatta soffrire, di quanto l'hai fatta stare in
pensiero? Per non parlare di tuo fratello, era così...
Deluso.» le parole di Anita sembrarono ridestare Valerio, che
fino ad un momento prima sembrava assorto e imbarazzato.
«E
ti sei mai chiesto come mi sia sentita io? Ero
così
innamorata di te!»
aggiunse, scuotendo la testa, cercando di trattenere rabbia e
commozione.
«Eri?»
le
domandò lui, con un sopracciglio inarcato e un sorrisetto
sbieco.
«Cerca
di essere un po' serio, per una volta!»
Era
la prima mattina di primavera, ma faceva ancora terribilmente freddo.
Anita
si era accoccolata sotto le coperte, in cerca di tepore, e aveva
appoggiato la testa al petto di Valerio, sdraiato accanto a lei. Lui,
accarezzandola, disegnava cerchi sulla sua schiena.
«Cinque
anni.» disse, pensieroso.
«Come?»
chiese lei, ancora un po' intontita dal sonno.
«Stiamo
insieme da cinque anni.» ripeté lui, guardando
dritto
davanti a sé. «Non ero mai riuscito a tenermi
stretto
qualcosa di così bello.» aggiunse, baciandola
sulla
fronte.
Lei
gli sorrise, guardandolo con estrema tenerezza; e lui, con mani
abili, la accarezzò facendole scivolare i vestiti.
«Ti
avevo lasciato un biglietto.» proseguì lui, come a
volersi giustificare.
«E
ti ricordi cosa avevi scritto, su quel biglietto?» gli
domandò
allora Anita, appoggiando rumorosamente la tazzina di caffè
sul piattino di porcellana.
“Tornerò.”
Anita
lesse quella singola riga con gli occhi che le bruciavano e le mani
di Alessandro che le stringevano le spalle.
«Oh,
vaffanculo.» disse quest'ultimo, dopo che ebbe letto a sua
volta il misero messaggio lasciato dal fratello.
«Smettila
di piangere, non ne vale la pena.» concluse, prima di
lasciare
la stanza, furioso.
«Il
solito esibizionista.»sbottò la donna, guardandolo
con
biasimo.
Non
aveva lasciato che nessun altro leggesse quel biglietto, nemmeno la
madre di Valerio.
Voleva
che quella parola, quell'unica parola, rimanesse per lei per sempre,
poiché lui l'aveva scritta per lei.
Tuttavia,
il fatto che lui si fosse congedato da lei in maniera così
sbrigativa e fredda l'aveva fatta soffrire a lungo.
«Però
sono tornato. Sono tornato.» disse lui, con enfasi e una
piccola speranza.
«Non
lo capisci che è troppo tardi?» gli rispose, con
voce
rotta.
«Cosa
vuol dire che è troppo tardi?» chiese lui, e il
suo
sguardo mutò un'altra volta.
«Sono
passati dodici anni. Io non ho avuto tue notizie per tutto questo
tempo. Per quanto ne sapevo, potevi essere morto!» Anita
ripensò a tutte quelle sere passate a domandarsi dove lui
fosse o cosa stesse facendo, ripensò a tutte quelle volte in
cui, scoraggiata, cercava di convincersi che ormai lui l'aveva
dimenticata e che quindi lei avrebbe dovuto fare lo stesso.
«Avresti
dovuto aspettarmi.»
«L'ho
fatto. Ma quanto pensi che sarei potuta andare avanti? Non potevo
continuare a vivere nel tuo ricordo.»
«Dell'altro
caffè.» mormorò Valerio, in direzione
del
cameriere, mentre si prendeva qualche secondo prima di rispondere.
«Ora,
però, io sono tornato. Possiamo ricominciare!»
Anita
abbassò lo sguardo, fissando il fondo della sua tazzina
«Ora,
però, io sono sposata.» replicò, mentre
lo
sguardo di Valerio cadde per la prima volta sulla mano di lei, al cui
anulare luccicava una semplice fede d'oro bianco.
«Anita?»
«Sì?»
«Sposiamoci.»
La
donna, gli occhi sgranati, era sbiancata.
«Io...
Io non saprei...» dichiarò lei, sincera ed incerta.
Lui
le sorrise, un po' sconsolato, e le carezzò il viso con il
dorso della mano.
«Anita,
sono anni ormai che provo a renderti felice. Ti chiedo di provare a
dimenticarlo. Per
favore.»
«D'accordo.
Sposiamoci.» acconsentì lei, con dolcezza,
guardando a
terra.
Lui
le sollevò il mento e la baciò delicatamente
sulle
labbra e lei, facendosi trasportare, gli mise prima una mano dietro
la nuca e poi iniziò a sbottonargli la camicia.
«Sposata?!»
esclamò Valerio, sgomento, il caffè bollente che
gli
andò di traverso.
«Con
Alessandro.» precisò lei, mordendosi nervosamente
il
labbro inferiore.
Valerio
si mise la testa fra le mani, non sapendo cosa dire.
«Sai,
un po' ti invidio...»
«Tu
invidiare
me?»
sorpreso,
Valerio guardò
il fratello con aria interrogativa.
«Tu
sei riuscito a trovare la persona che ti ha messo la testa a
posto.»
spiegò, con una risata un po' amara.
«E...
Quando?» fu l'unica cosa che Valerio riuscì a dire.
«Solamente
due mesi fa.» gli rispose Anita, con un filo di voce.
Come
predetto da Valerio all'inizio di quell'incontro, aveva iniziato a
piovere forte e le gocce di pioggia battevano incessanti sulla
vetrata del caffè, scandendo inesorabili i secondi che
passavano.
«Se
io fossi tornato prima, l'avresti sposato ugualmente?»
«No.»
Valerio
sorrise e prese la mano di Anita tra le sue e ne baciò il
palmo.
Si
alzò facendo rumore con la sedia e uscì dal
caffè,
incurante della pioggia.