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Autore: Kerberos 1001    04/09/2014    2 recensioni
Dal prologo: "I nostri esperimenti iniziarono con i primi esseri viventi in grado di provare sensazioni ed emozioni.
Piccole, semplici prove, al principio, ma dai risultati incoraggianti, che ci spinsero a continuare, a perseverare, in cerca di qualcosa di più e di meglio: dimostrandoci che eravamo sulla giusta via, ci invogliarono, ci ingolosirono.
Migliorammo.
Vi migliorammo."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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La Marea
I nostri esperimenti iniziarono con i primi esseri viventi in grado di provare sensazioni ed emozioni.
Piccole, semplici prove, al principio, ma dai risultati incoraggianti, che ci spinsero a continuare, a perseverare, in cerca di qualcosa di più e di meglio: dimostrandoci che eravamo sulla giusta via, ci invogliarono, ci ingolosirono.
Migliorammo.
Vi migliorammo.
PARTE PRIMA - IL GRIFONE E IL VISCHIO
Il corridoio è illuminato a giorno, la luce scialba e grigia di una giornata temporalesca, ed è vuoto, tanto che i miei passi risuonano secchi come colpi di pistola. Piastrelle dozzinali in gres; pareti dipinte di verde lucido dallo zoccolino fino a novanta centimetri da terra, poi di bianco come il soffitto: un ambiente freddo come l’aria che mi circonda.
Ci sono solo porte opache, ai due lati, sfalsate, marcate con anonime targhette d’ottone; niente nomi, solo acronimi per la maggior parte indecifrabili. Brusii e rumori sopiti filtrano da sotto le soglie, mentre passo, e mi seguono, diretti verso la mia stessa meta …
Possibile? Forse si tratta soltanto di suggestione, ma ho come l’impressione di non essere più solo lungo il corridoio: qualcosa mi sta seguendo già da un po’, lo so perché sento i suoi occhi piantati sulla nuca; mi studia, quasi stesse cercando il momento, il modo migliore per (attaccare) attirare la mia attenzione, iniziare una conversazione che io non voglio sostenere. Mi chiederà qualcosa cui non saprò rispondere, cercherà di scoprire (i miei punti deboli) le mie opinioni, di saggiare i miei limiti.
O forse no. Forse mi sbaglio: magari sta soltanto cercando un ufficio particolare, magari già sa qual è e non sarò costretto a rispondergli, a rivolgergli la parola. Chissà, magari è una bella ragazza!
Penserà che sono scortese. Ora mi volto e mi presento. Ora …
Dio! Cos’è questa sensazione? Questo freddo improvviso! Paura, ansia, panico. Non è una bella ragazza, non è nemmeno una persona, ne sono sicuro! Corri! Scappa, subito! Raggiungi la porta in fondo al corridoio, prima che quella cosa ti raggiunga! No! Non guardare le porte che si stanno aprendo sul corridoio: le parole, i brusii … usciranno in processione, pronti a ghermirmi se non sarò abbastanza veloce, se non riuscirò a superare le loro soglie un attimo prima che loro le attraversino! Più veloce, ancora più veloce! Non ce la farò, mi manca il respiro, i muscoli si spezzano; ancora un minuto e sputerò il cuore …
La porta! Ci sono! Ci sono riuscito! La maniglia, dolce, elettrizzante sensazione, dura e fresca e liscia contro il palmo sudato … Sono salvo, non mi hanno raggiunto! Ce l’ho fatta!
La maniglia … non si abbassa, non cede di un micron, nemmeno caricandoci tutto il mio peso. Perché?
 Alle mie spalle, una risatina di scherno: mi volto lentamente, spalle alla porta, premuto contro le costolature metalliche di rinforzo e me li trovo davanti, tutti i brusii, tutte le parole soffocate, in lunghe file a formare creature fantastiche e fameliche, senza volto. Ma hanno bocche, enormi e rivestite di zanne.
«Io … non parlerò! Giuro!» Il mio filo di voce, appena intelligibile, si fonde con la più vicina mostruosità, formandone il tentacolo che mi saggia per qualche istante prima di mordere a fondo …
Uri Leitzener si risvegliò urlando, un lusso che poteva permettersi sia per il grado, che gli dava diritto ad un alloggio privato, sia perché non aveva più nessuno con cui passare le notti già da un paio di mesi. Cercando di controllarsi, si strofinò vagamente il bicipite appena sotto la spalla, là dove il tentacolo … Rabbrividì al pensiero e smise di massaggiarsi. “Questa volta è stato persino peggio delle altre!”
Sospirò, alzandosi per andare in bagno: una rinfrescata non poteva fargli che bene. Qualcuno diceva che, al risveglio, gli incubi venivano dimenticati in fretta, stemperandosi nell’inconscio come neve al sole: quanto gli sarebbe piaciuto che fosse stato vero anche per lui! Per qualche motivo, lui ne ricordava ogni singolo particolare, arrivava persino a riviverli in pieno giorno, quando e se un avvenimento del tutto casuale contribuiva a risvegliare la sua memoria: pazzesco! E pensare che non aveva realmente motivo di avere degli incubi: il suo incarico di pilota collaudatore lo teneva lontano dal campo di battaglia, lontano dalla guerra e dalle uccisioni, dagli orrori che gli uomini tornati dal fronte rivelavano con frasi smozzicate.
Forse … No! Impossibile: lui non era un tipo suggestionabile; non a quei livelli, almeno: certo, gli era capitato di provare un senso di nausea nell’ascoltare il resoconto di una battaglia sul Fronte Orientale fatto da un reduce delle Waffen SS, ma non era tipo da sognarsi di notte mucchi di cadaveri smembrati solo perché un borioso cretino glieli aveva descritti dettagliatamente!
Eppure …
Ne avrebbe parlato con lo psicologo della base, se gli incubi fossero continuati e se il suo ruolino di servizio gliene avesse concesso il tempo: del resto, non poteva certo permettersi di venire sollevato dall’incarico per così poco.
«Hauptmann Leitzener! La missione di oggi prevede, in primo luogo, una prova di rullaggio a pieno carico. Successivamente, tenteremo un vero e proprio decollo, volando lungo un circuito di circa 400 Km attorno alla base. Prima di atterrare, scaricherà la zavorra alle coordinate che troverà indicate sulla mappa. Le chiedo di monitorare attentamente la strumentazione per tutta la durata del test e di riferire via radio. È di fondamentale importanza per il progetto. Domande?»
«Nessuna, signore.»
«Bene. Non la trattengo oltre, capitano: vada pure a prepararsi.»
Uri Leitzener salutò formalmente, batté i tacchi, e con un perfetto dietrofront uscì dal locale istruzione piloti, diretto verso le piste, in superficie. Fuori splendeva un bel sole, con pochi cirri che striavano il cielo, e pochissimo vento, giusto quel tanto sufficiente ad alzare un velo di polvere dall’asfalto. Salutando gli addetti alla pulizia della pista, si incamminò verso il riparo corazzato che ospitava il suo incarico odierno: sotto le reti mimetiche paraschegge, il Mistel  veniva preparato alla partenza.
Nel corso della guerra, erano state elaborate diverse versioni di quello strano connubio di aerei eterogenei – bombardieri ormai giunti a fine vita operativa trasformati in bombe volanti dotate di autopilota, portate nelle vicinanze del bersaglio da caccia parassiti; bombe di grosso calibro attaccate a caccia monoposto più piccoli di loro e persino, aveva sentito dire, grossi bombardieri a lungo raggio che avrebbero dovuto portarsi dietro la propria scorta a dorso di cammello in forma di agili caccia Focke-Wulf – ma nel suo caso, il complesso era decisamente atipico: lui avrebbe dovuto portare in volo una speciale combinazione costituita da un bombardiere pesante in qualità di aereo madre e da uno medio, in qualità di parassita.
In teoria, la componente pesante, satura di carburante e di carico bellico, avrebbe dovuto fornire sufficiente potenza al decollo da trascinare in aria l’intero complesso, con il parassita che, motori in folle per ridurre la resistenza, avrebbe conservato il proprio combustibile per il volo di ritorno. Sempre secondo la teoria, portato il complesso alla massima distanza possibile consentita dall’autonomia del proprio apparecchio, il pilota del parassita avrebbe dovuto impostare la rotta finale nell’autopilota dell’aereo madre, per poi sganciarsi e virare per il ritorno alla base. L’autopilota avrebbe utilizzato una piattaforma giroscopica e uno dei nuovi sistemi televisivi Fernseh per confrontare le proprie coordinate con quelle di precisi punti di riferimento al suolo, fino all’obbiettivo. Personalmente, pur avendo constatato l’efficacia del sistema di guida avendolo testato in volo su di un apparecchio più piccolo, nutriva seri dubbi riguardo a tutto il progetto, a partire proprio dalla prova che avrebbe dovuto effettuare di lì  a poco. Il carrello costituiva da sempre il punto debole dei Mistel: troppo peso! Quello del mostro davanti a lui era stato più che rinforzato, ma …
Dentro di sé, pregò fervidamente che gli addetti alla pista stessero svolgendo bene il loro lavoro. Sarebbe bastato un unico sassolino sfuggito alle ramazze per causare un autentico disastro.
Tecnici specializzati di ogni tipo attraversavano a passo rapido lo spazio attorno ai velivoli, avvicinando tubi, collegando cablaggi, misurando con i manometri più precisi ogni goccia di carburante, olio e liquido refrigerante caricato nei serbatoi di bordo. Discrete ma non troppo, un certo numero di SS montavano la guardia, lasciando più campo libero fosse possibile a quel bailamme umano. Sogghignando, il capitano Leitzener prese nota del fatto che si erano disposte in modo da poter spazzare facilmente tutto il riparo con le MP-40, al bisogno, senza per questo rischiare di colpirsi a vicenda.
«Questa sì che si chiama efficienza!» borbottò fra sé, scorgendo qualcuno che conosceva in mezzo alla ressa.
Il suo marconista, Berthold “Bert” Grösse, l’aveva preceduto sotto le reti e girava attorno al Mistel spuntando con una matita un’interminabile lista di controlli pre-volo, incurante delle occhiatacce e delle imprecazioni a mezza bocca rivoltegli dal personale di terra come poteva esserlo un panzer Tiger di una cerbottana. «Ehilà, Bert! Allora, come sta il nostro piccolo?»
«Benissimo, capitano! Almeno così dicono questi signori tanto premurosi … Comunque sia, quando si tratta della propria buccia, ritengo sia meglio eccedere in prudenza, non crede?»
«L’ho sempre detto che la tua saggezza supera di gran lunga la tua età, Bert!» Leitzner strinse con forza la mano che l’altro gli aveva porto, dopo averlo salutato come si conveniva ad un superiore. «Anche per questo, se ti va, dopo la riunione post-operativa gradirei che mi raggiungessi al circolo ufficiali: vorrei offrirti qualcosa da bere.»
«Per festeggiare?» chiese Grösse, alludendo con un cenno del capo all’apparecchio accanto a loro.
«Anche. Ma vorrei parlarti di una faccenda privata e personale.»
«Il capitano è sicuro che io sia la persona adatta?»
Cortese ed educato come sempre, il vecchio Bert! Leitzener sorrise, compiaciuto: «Non preoccuparti, Berthold: non è così importante come può sembrare. È solo che da qualche tempo faccio degli strani sogni, ecco tutto.»
«C’entrano forse delle donnine allegre? Delle donnine cordiali, discinte e molto, molto disponibili? Eh, capitano?» Grösse diede di gomito al superiore, con fare complice, perfettamente conscio di poterlo fare solo in virtù della loro lunga e proficua associazione, e solo perché era stato il capitano a consentirlo.
Sapeva che Leitzener era un tipo abbastanza riservato, schivo, e riteneva a buon diritto di potersi considerare suo amico, anche se nel modo particolare del capitano: sei mesi prima, Berthold aveva chiesto al superiore di fargli da testimone di nozze e lui aveva accettato con piacere, comportandosi da perfetto gentiluomo. Aveva anche fatto agli sposi un dono che li aveva fatti arrossire, sfilandosi l’anello con lo stemma di famiglia tempestato di pietre preziose e deponendolo nelle loro mani giunte. “In segno di riconoscenza e per la vostra felicità.” aveva detto guardando Berthold e la sua giovane sposa. Poi aveva salutato con un inchino e si era allontanato da solo, verso gli alloggi. Lui era fatto così.
«Magari! Sono mesi che non vedo una donna! Tu invece …» Rise a fior di labbra vedendo il giovanotto arrossire. «Come sta Martha? Comincia ad ingrossare un po’?»
«Oh, sì! Comincia a vedersi, capitano! Comincia proprio a vedersi! Vede, ieri sera ho provato ad accarezzarle la pancia e …»
«Temo proprio che dovrai raccontarmelo in un altro momento, Bert.» l'interruppe Leitzener: «Mi spiace, ma ci stanno chiamando.» Ed infatti dal fondo del riparo un aviere stava arrivando a grandi passi, sbracciandosi per farsi notare da loro: il controllo finale del Mistel era terminato.
«Buongiorno capitano! Sarà felice di sapere che il mio personale, dopo aver effettuato tutti i controlli necessari, riferisce che l’apparecchio è in ottime condizioni di funzionamento ed è pronto per il decollo. Lei conferma, Herr Grösse?» chiese il responsabile del personale di terra al sottotenente, con un tono solo di una tacca al di sotto del sarcasmo più puro, accennando col mento alla cartelletta metallica tuttora sotto il braccio di Grösse. Massiccio ma non grasso, alto poco più di un metro e settanta, quell’uomo si era guadagnato la propria posizione con la sola forza di volontà, imponendosi persino al comandante del centro sperimentale e trattando lo Sturmbannführer delle SS di stanza alla base come se fosse un comune caporale della Wermacht! Nella sua notevole saggezza, Bert passò sopra al sarcasmo, rispondendo unicamente con un sobrio «Sissignore!»
«Ottimo! Allora direi che non abbiamo altro da dirci, per un po’.» L’uomo sfogliò alcune carte, poi si rivolse a Leitzener: «Capitano, mi serve la sua autorizzazione per iniziare il traino alla testata della pista. Ha già verificato le condizioni meteo?»
«Sì. Qualche nuvola nella parte Nord della rotta, sul mare, ma niente di preoccupante. Userete il Kettenkrad o il camion?»
«Lei cosa riterrebbe più opportuno?» Non c’era ironia nella voce del capo equipaggio: sapeva benissimo anche lui, come il capitano, che il minimo errore in quella come nelle altre fasi prima del decollo avrebbe letteralmente trasformato la prova in una bomba.
Leitzener ci pensò su per qualche minuto: la moto semicingolata veniva comunemente usata per trainare i piccoli velivoli da e verso gli hangar, garantendo ovviamente un ottima trazione su tutti i terreni; era però poco manovrabile, come tutti i cingolati. I camion, d’altro canto, non erano sempre così affidabili come i costruttori decantavano. Si volse a guardare la pista inquadrata dai muraglioni di protezione, oltre le reti: un tragitto rettilineo di poco più di duecento metri … «Direi di usare il semicingolato, anche perché questo non è di certo leggero!» concluse, indicando col pollice il Mistel alle sue spalle.
Il capo equipaggio sorrise: «Benissimo: farò preparare il treno in cinque minuti. Se nel frattempo volete salire a bordo e prepararvi …» disse, indicando la scaletta che era servita ai suoi tecnici per esaminare la strumentazione di cabina.
La sera, nel suo alloggio, Uri faticava a prendere sonno. La prova era stata un successo: come da programma, avevano volato unicamente con l’ausilio dei motori del Greif che, per una volta tanto, non avevano dato alcun segno di surriscaldamento. Quattrocentocinquanta chilometri ad alta quota, con il bombardiere Heinkel che rispondeva prontamente e maestosamente ad ogni minima sollecitazione dei  comandi da parte sua. Qualcuno aveva avuto la geniale idea di sostituire le vecchie catene cinematiche fatte di aste e cavi con i nuovi servocomandi elettrici su entrambi gli apparecchi e di installare un semplice selettore che consentiva di escludere l’uno o l’altro impianto spostando un interruttore: altro che la doppia serie di controlli stipata nell’abitacolo di un caccia dei primi Mistel che aveva ispezionato!  Era stata una vera e propria pacchia! Al punto prestabilito, avevano svuotato i serbatoi della zavorra – alcune migliaia di litri di acqua colorata di blu di metilene – ed avevano proseguito fino al punto previsto per l’avvicinamento finale: l’atterraggio era stato un poco brusco, ma d’altra parte non era previsto che là da dove erano decollati in due, atterrassero in due …
Dopo aver stretto mani, sopportato felicitazioni e complimenti, aver fatto rapporto alla seduta post-operativa, Leintzener si era concesso una lunga doccia rinfrescante, aveva indossato un’uniforme pulita e si era diretto al circolo ufficiali, per cenare con calma mentre aspettava Berthold Grösse. Il sergente era giunto trafelato, scortato da un’ordinanza in veste di maggiordomo, perché i sottufficiali, anche se invitati, non avevano diritto di passeggiare da soli per le sale del circolo: ridicolo, ma tradizionale, quello stesso tipo di tradizione che, in certi circoli privati londinesi, vietava severamente l’ingresso alle donne …
Avevano bevuto, avevano chiacchierato di tutto tranne che di lavoro; Berthold era persino riuscito a raccontare al capitano cosa aveva provato nel sentir muoversi per la prima volta suo figlio sotto la pelle calda e vellutata di sua moglie. Poi Uri aveva parlato dei suoi sogni, che non erano tutti incubi, no certo, ma comunque abbastanza strani da lasciarlo turbato; della sua sensazione che non si trattasse di eventi del tutto casuali, di libere associazioni dell’inconscio lasciato ad elaborare senza freni sensazioni e ricordi.
In realtà, Leitzener aveva costantemente l’impressione di essere osservato, come nell’incubo che aveva vissuto quella mattina, prima di alzarsi per prendere servizio. Grösse era rimasto ad ascoltare in silenzio, lo sguardo fisso sulle decorazioni a sbalzo del boccale di birra; non aveva interrotto il superiore, non aveva commentato. Perché? Era questa la domanda che assillava il capitano Leitzener: chiunque altro avrebbe detto qualcosa, se non altro gli avrebbe dato del pazzo, del paranoico … Non Bert: lui si era limitato a fornirgli tutto il suo silenzioso appoggio, espresso in un saluto ed una stretta di mano.
In fondo, era o non era il suo marconista? E lui, Leitzener, era o non era il suo capitano?
Questo era tutto, e doveva bastare.
Ciliegina sulla torta, prima di tornare agli alloggi, il capitano era stato chiamato al banco, per ricevere una telefonata: il comando aveva già visionato i risultati del volo di prova, trovandoli molto incoraggianti e soddisfacenti. In conseguenza di ciò, aveva dato l’approvazione per l’operazione GB: il Mistel veniva caricato ed approntato al decollo in quello stesso momento, mentre parlavano. La partenza era prevista per le 9.00 del giorno seguente, rotta Nord-1, come previsto dagli incartamenti segreti in suo possesso.
Dannazione! Altro che paranoia! Se tutto fosse andato come previsto, avrebbe faticato a prendere sonno per mesi. Se mai ci fosse riuscito …

Nell’ottobre del 1944, una cittadina costiera nel Nord-Est degli Stati Uniti non si svegliò.
Trattandosi di una comunità di una certa rilevanza, anche se solo a livello regionale, le autorità si mossero con celerità notevole e giunsero sul posto quando ancora c’era qualcosa da trovare, anche se poco: su tutta l’area urbana gravava un silenzio di tomba; non un’auto in giro; per le strade, neppure un cane. Il furgone del lattaio era parcheggiato accanto al marciapiede, col motore che tossiva piano sulle ultime gocce di carburante; il lattaio era all’interno, riverso sul volante, gli occhi strabuzzati, la bocca spalancata in cerca d’aria. Risultò che era così per tutti gli abitanti: morti nei loro letti, nei loro bagni, nelle loro cucine; morti mentre cercavano di scavalcare le sponde dei lettini o di aprire una finestra. Gli ispettori girovagarono per le vie imbambolati, incapaci di reagire, incapaci di pensare, insensibili alle nuove scoperte che facevano ispezionando le case che via via sorpassavano a passo greve.
Quello che li scosse, che li indusse ad urlare maledizioni al cielo, alla terra e al mare, a chiunque potesse ascoltarli, fu il rendersi conto che erano morti tutti per davvero; che il loro tutti, il quale inizialmente comprendeva soltanto gli abitanti, era riduttivo: cani, gatti, bestiame, uccelli ...
Persino la maggior parte degli insetti. Stecchiti, là dove si erano trovati al momento della catastrofe.
Non c’erano prove, alcun indizio che potesse aiutare a far luce su quanto era accaduto. O quando. O perché. Questo almeno fino a quando un giovane chimico, aggregato alla squadra investigativa, ripensò agli insetti morti, alcuni giorni più tardi, e maturò un orrendo sospetto, memore degli esperimenti di laboratorio compiuti per trovare un rimedio ai parassiti che infestavano le piantagioni di patate. Le analisi svolte sulle salme gli diedero ragione e quando la commissione incaricata dell’indagine gli chiese quali fossero le sue ipotesi, lui parlò per ore, a porte chiuse, senza interrompersi mai, neppure per un minuto.
L’operazione GB rimase un segreto anche dopo la fine della guerra: come nel caso dei palloni da bombardamento giapponesi, il governo americano stese un velo di riserbo sull’intera vicenda; per le esequie, ai parenti delle vittime vennero consegnate bare sigillate, ognuna avvolta con cura nella sua brava bandiera a stelle e strisce; venne fatto loro credere che la morte fosse sopraggiunta a causa di una recrudescenza della spagnola, portata sin laggiù da qualche pescatore. Gli animali si erano ovviamente dati alla macchia nei giorni trascorsi prima del ritrovamento ufficiale. Le voci diffuse dalla stampa nazista riguardanti un devastante attacco compiuto oltre oceano con armi segrete, al puro scopo di incutere terrore nel nemico e fiaccarne la volontà, vennero ridicolizzate ad arte, definendole l’ennesimo sfogo di qualche mattoide con un piede nella fossa.
D’altra parte, il Greif era stato riprogettato appositamente per non lasciare tracce: il suo profilo di missione, registrato nei cilindri di una variante di Enigma, prevedeva un’ampia traiettoria a semicerchio, dall’Atlantico verso Ovest, all’interno, continuando a puntare verso Nord, per terminare di nuovo verso Est, verso l’oceano. Nel tratto finale della rotta, mentre sorvolava il bersaglio, aveva irrorato con superba precisione tutta la cittadina e i campi attorno con le sue sei tonnellate di Sarin, per mezzo degli ugelli installati nei portelli della stiva bombe. Giunto nuovamente sopra l’Atlantico, ad una trentina di chilometri dalla costa, aveva completato la sua missione con una brusca richiamata ad alto numero di g, che aveva sollecitato come previsto gli elementi indeboliti ad arte della sua struttura: come risultato, una pioggia di minuscoli frammenti metallici si era sparsa senza eccessivo rumore su almeno tre chilometri quadrati di fondale.
Nonostante la disinformazione operata dal governo nei confronti del nemico e della sua stessa popolazione civile, nonostante i baldanzosi cinegiornali che riferivano i progressi dell’avanzata sia sul fronte europeo sia su quello del Pacifico, gli Stati Uniti erano rimasti colpiti, feriti nel profondo delle loro alte sfere militari e politiche: non importava che solo loro conoscessero la verità, il seme del dubbio era stato piantato in profondità nel loro mondo. Qualcuno era riuscito ad attaccare non visto quella madrepatria che ritenevano inviolabile, circondata com’era da ben due oceani. Dopo quel giorno di ottobre, molte personalità iniziarono a sudare freddo, nell’attesa di una nuova ecatombe.
È questo uno dei motivi per cui l’operazione GB viene considerata un successo, anche perché fu una delle prime occasioni in cui la cavia superò le aspettative dello sperimentatore: erano occorsi lunghi millenni per raggiungere un simile eclatante risultato, ma, come per tutte le ricerche, anche in questo caso gli sviluppi successivi avrebbero mostrato una notevole accelerazione, dovuta all’accumularsi delle esperienze maturate da altri. Purtroppo, il successo non giunse senza un costo: anche con tutta la buona volontà, non sempre è possibile indurre qualcuno a svolgere un compito che sia diametralmente opposto al suo modo di vedere le cose; persino l’ufficiale più ligio al dovere, di fronte a certe situazioni, decide di anteporre la propria coscienza agli ordini. Uri Leitzener era sempre stato un ottimo ufficiale, intelligente, deciso, perspicace: probabilmente proprio queste sue qualità, che lo rendevano così idoneo al comando, gli avevano permesso di sospettare la realtà che si celava dietro le cortine; quella sera, al circolo ufficiali, dimostrò di aver compreso quasi l’intero quadro, vanificando tutti i nostri tentativi occulti di indurlo a tacere. Ovviamente, in quelle condizioni costituiva un pericolo troppo grande per noi, minacciando di rivelare troppo presto al mondo la nostra esistenza. Per fortuna, il rimorso per aver condotto a buon fine l’operazione GB si dimostrò troppo pesante da sopportare: come dicevo prima, un uomo con una visione del mondo troppo rigida alle volte si spezza quando va a cozzare contro la realtà delle cose. Partecipammo alle esequie in lacrime, mia moglie ed io, e decidemmo di onorare il nostro buon amico dando il suo nome a nostro figlio, di lì a tre mesi.
Era un uomo forte, robusto: le mani mi dolsero per una buona settimana, dopo avergli stretto il cavo dell’abat-jour attorno al collo …
PARTE SECONDA – OTTOBRE xx17
Fu un gran giorno, quando la razza umana si rese conto di non essere sola, nell’universo: ci si spalancarono le porte su di un’infinità di nuovi soggetti! Soprattutto, anche noi scoprimmo di non essere soli, di avere delle controparti in quasi tutte le razze conosciute. Il che, se ci pensate, è abbastanza logico, visto che la nostra esistenza è una conseguenza inscindibile dall’intelligenza. Il pianeta su cui ci sviluppammo costituiva un serbatoio quasi inesauribile di materiale per la nostra ricerca: la complessità biologica che ne riempiva ogni singola nicchia era stupefacente …  solo fino a quando uno non si rendeva conto che in buona mmisura era dovuta a noi. Qualcuno ha affermato che l’intelligenza si sviluppa fuggendo, perché chi resta muore; non è del tutto esatto, sapete, perché se uno fugge nella direzione sbagliata, guardandosi alle spalle, rischia di morire comunque …
Noi guidammo la fuga, non fosse altro che per facilitare, con la vostra, la nostra evoluzione.
Egoismo? Certo! Noi lo consideriamo uno dei motori primi dell’Universo. Banchettammo con la vostra energia, ci saziammo con le vostre reazioni alle fantasie indotte che perfezionavamo adattandoci alla vostra nuova percezione, alla vostra sempre più affinata sensibilità …
Chiedete perché? Per quale motivo? Semplice: la sopravvivenza.
«Signore, abbiamo un problema in sala macchine.»
Il comandante dell’Aurora alzò lo sguardo dallo schermo ed osservò per qualche istante il suo primo ufficiale: Reginald Bentley-Farth era di pura discendenza anglosassone, aveva servito con onore nella flotta di difesa durante la Guerra Lunga un Giorno e in quell’occasione era rimasto ferito in modo talmente grave che i medici della Magno Quasar Gmbh, una volta avutolo sotto i ferri alla base lunare, non avevano potuto far altro che trapiantare il suo cuore e il suo cervello – pardon, parte del suo cervello! – nell’organismo artificiale che ora gli stava davanti, sull’attenti. Tutto sommato, Reginald l’aveva presa bene: in fin dei conti, era vivo e poi il suo nuovo corpo era praticamente organico, costituito com’era di nano polimeri a base carbonio, era decisamente più robusto del precedente ed aveva eliminato buona parte degli inconvenienti, ad esempio quelli legati all’eliminazione dei rifiuti …
«Che genere di problema, tenente? E perché è lei ad inoltrare il rapporto? Il capo ingegnere sta ancora dormendo, per caso?» Secondo l’ora di bordo, erano le quattro del mattino. Il capitano era sveglio perché erano finalmente giunti gli ordini di missione: dopo quattro settimane di pattugliamento in quell’angolo sperduto della galassia, l’incrociatore pesante Aurora avrebbe dovuto scortare un convoglio di rifornimenti diretto verso il nuovo avamposto in costruzione su Thermis-3
«No, signore: credo che in questo preciso momento il signor Weinstraub abbia appena terminato di rimettere a nuovo la sezione imprecazioni e bestemmie del vocabolario galattico.» Bentley-Farth sorrise, ben sapendo che il capitano avrebbe compreso alla lettera la sua allusione.
«É così grave?»
«Citando il capo ingegnere, è un miracolo che noi due si sia qui a discuterne, signore.» Il tenente diede una scorsa agli appunti sul suo schermo portatile «A quanto sembra, abbiamo centrato in pieno un’anomalia gravitazionale; oppure è lei che ha centrato noi, il risultato non cambia. Fatto sta che non era elencata nel database e ci ha disastrato il sistema energetico: in questo momento stiamo andando con l’ausiliario, perché Weinstraub ha dovuto disconnettere tutto per evitare ulteriori perdite. Una volta isolato il guasto, tenterà di rimettere in linea il sistema principale.»
«Autonomia prevista?» Il sistema ausiliario constava di svariati accumulatori ad alta capacità dislocati quasi in ogni sezione dello scafo lungo poco più di mezzo chilometro, ricaricati dai convertitori annegati nel rivestimento esterno: operando a bassa intensità, avrebbero potuto tranquillamente durare per settimane, mentre le squadre si occupavano delle riparazioni; ma loro non potevano permettersi di trascorrere settimane a velocità sub-luce: dovevano incontrarsi con il convoglio di lì a tre giorni!
«Possiamo durare quattro giorni in condizioni operative, prima di doverci dichiarare battuti e chiamare una nave officina. Capitano, posso suggerire di cominciare a razionare l’uso dell’energia sin da ora?»
«Andiamo a parlare con Weinstraub, prima di decidere.»
«Come vuole, signore.»
Risultò che la sala macchine in sé non aveva subito danni rilevanti: il buco lasciato dal passaggio della singolarità nelle paratie corazzate del compartimento non costituiva certo un bello spettacolo, ma si poteva turare con del polimero ad alta densità in poco più di mezz’ora. Il guaio era che per arrivare sin lì e poi dissolversi, quella microscopica bastarda aveva attraversato di sbieco tre buoni quarti della nave, da prua a poppa, tranciando e distruggendo una quantità di linee essenziali al funzionamento dell’incrociatore.
«Ha mancato il contenitore del nucleo principale di non più di mezzo metro, capitano!»
Il capo ingegnere ancora sudava freddo all’idea di quanto poco c’era mancato a che la sua amatissima nave evaporasse in una vampata di neutrini: il generatore principale era costituito da una singolarità quantistica alimentata da un sottile flusso di idrogeno e mantenuta stabile per rotazione da potenti campi magnetici auto-indotti; collassando nel nucleo della singolarità, gli atomi di idrogeno rilasciavano energia alla stessa intensità di una fusione, senza però la necessità di temperature stellari. Questo, ovviamente, fintanto che il contenimento reggeva: lasciata libera di reagire, la singolarità si sarebbe espansa nell’arco di nanosecondi, trasformando la nave e tutto ciò che conteneva in radiazioni dure.
«Capo, quando pensa di potermi ridare piena potenza?» chiese il capitano, bloccando sul nascere la veemente obiezione dell’ingegnere: «Abbiamo ricevuto ordine di scortare un convoglio di rifornimenti attraverso la fascia esterna, fino ad un nuovo avamposto in costruzione: dobbiamo essere al rendez-vous tra tre giorni e dobbiamo arrivarci in condizioni operative!»
«Dannazione, signore! Così non mi lascia alcuno spazio di manovra!»
«Neppure io ne ho, signor Weinstraub: quel convoglio potrebbe non arrivare mai a destinazione, senza l’appoggio di una nave da guerra!»
«Ma potrebbero inviarne un’altra, se segnalassimo l’emergenza! Potrebbero mandar loro incontro la nave a presidio dell’avamposto …»
«Non hanno nessun’altro a distanza utile, mi dispiace. Quanto al Nimega, non potrebbero distaccarlo per più di quarantott’ore: vede anche lei che sarebbe inutile, perché, a quel punto, il convoglio non avrebbe più bisogno di una scorta!»
Weinstraub chinò il capo, rimuginando fra sé e sé per un paio di minuti: «Capitano, mi dia un paio d’ore per eseguire la diagnostica di base: una volta avuti i risultati, isolerò le sezioni più danneggiate e mi concentrerò sulle riparazioni necessarie a rimettere in linea il generatore. Il resto delle riparazioni, tutte quelle che potremo effettuare al di fuori di un cantiere, le completeremo durante la traversata. Le sembra ragionevole?»
«Certo! Ma perché ha parlato di cantieri? Ci sono danni che richiedano lavori di raddobbo?»
«Questo lo saprò con certezza tra due ore, signore. Ma ho preso la buona abitudine di aspettarmi il peggio, quando vengo svegliato dall’allarme alle quattro del mattino!»
Lasciando la sala macchine, seguito dal suo primo ufficiale, il capitano sorrideva, evidentemente rassicurato.
Come risultò dall’analisi approfondita dei sistemi, l’Aurora era stata notevolmente fortunata: i danni provocati dall’anomalia erano rilevanti, ma non fatali. «È curioso, non trova, capitano? Sembra quasi che abbia evitato di proposito i sistemi critici. Come se fosse stata senziente …»
Il capitano sbuffò, poco interessato alle speculazioni del suo secondo: «Weinstraub ha già iniziato il sezionamento?»
«Sissignore! Le sue squadre hanno isolato tre compartimenti a prua, cinque a centro nave e un paio verso poppa, classificandoli come secondari; secondo il suo ultimo rapporto, potrà ripristinare l’energia principale tra diciotto ÷ venti ore. Si sta dimostrando decisamente in gamba, se posso esprimere un parere.»
«Oh, sì, può scommetterci, tenente! Il capo ingegnere è uno di quelli che più brontolano e si lamentano, prima aggiustano le cose!» Il capitano lisciò più volte l’angolo del tovagliolo che aveva usato a cena: «Sa, tenente, questa potrebbe essere una missione importante, per l’Aurora …»
Bentley-Farth annuì: «Perché potrebbe essere l’ultima, vero, signore?»
«Esatto!» rispose il capitano «Esatto …» Lo ripeté a voce più bassa, quasi ad impedire che quelli al Comando che detenevano il potere di decidere della sorte della sua nave, potessero sentirlo.
«L’Aurora è una vecchia nave che ha sempre servito con onore, capitano.»
«Questo non significa che debba essere buttata in un canto in attesa di essere smantellata!»
«Capitano, dispiace anche a me, mi creda: è su una nave come questa che mi sono guadagnato la mia attuale silhouette da modello d’alta moda … » Incredibilmente, Bentley-Farth riusciva anche a scherzare sulla sua disgrazia! «Però, provi a vederla in questo modo: questo incrociatore è un vecchio soldato che si è coperto di gloria. Lasciamo che possa trovare finalmente pace e riposo. Magari, dalle sue ceneri nasceranno altre navi che ne perpetueranno a modo loro le gesta, chissà!»
Il capitano fissò a lungo il cyborg dall’altra parte del tavolo della mensa ufficiali: «Reginald, mi tolga una curiosità: quand’è che ha trovato il tempo di studiare poesia? Oppure è una qualità innata dei primi ufficiali, instillata a forza in accademia per consolare i comandanti?»
«Non saprei, signore: un mix di tutte e due le ipotesi, forse?»
A quella risposta, il capitano non poté far altro che scoppiare a ridere.
«Siamo operativi, capitano. Non del tutto, ovviamente; sicuramente non come vorremmo lei ed io, ma siamo operativi!» Il capo Weinstraub fece rapporto piantato sulle gambe nel bel mezzo del Centro Operativo, come se sfidasse gli altri ufficiali presenti a contraddirlo, il capitano in primis.
«Ottimo lavoro, capo! Davvero un ottimo lavoro! Prendetevi dodici ore di permesso, lei e i suoi uomini: ve le siete meritate!»
«Capitano …»
«È un ordine, ovviamente. Vuole per caso disubbidire, signor Weinstraub? Tenga presente che, in questo caso, sarei obbligato a metterla agli arresti e si riposerebbe comunque.» Il capitano posò un mano sul braccio del capo ingegnere: «Mi ascolti, Andrej: ho bisogno di lei e della sua squadra. Tra poco partiremo per il rendez-vous e potremmo incontrare non pochi problemi. Se voi non siete al massimo dell’efficienza perché vi ostinate a non volervi prendere un po’ di riposo, potreste non essere in grado di farvi fronte, non crede?»
Riluttante, Weinstraub annuì: «Però mi faccia chiamare immediatamente, se doveste riscontrare qualche nuova avaria!»
«Non ha nemmeno bisogno di dirlo, capo!» Poi, rivolto alla Navigazione: «Guardiamarina: imposti le coordinate del rendez-vous, per favore.»
«Coordinate impostate, signore!»
«Ottimo! Sequenza di lancio tra due minuti.»
«Confermato! Il generatore di campo non presenta anomalie. Sessanta secondi.»
Un minuto più tardi, l’incrociatore lasciava il normale continuum, scivolando senza scosse nella multidimensionalità nota, in mancanza di un termine migliore, come iperspazio. Il capitano si guardò attorno soddisfatto: «Complimenti, signori! A quanto pare non siamo esplosi, e questo è già di per sé un sollievo! Signor Bentley-Farth, arrivo previsto?»
«Circa quaranta ore, signore. Il capo ha espressamente richiesto di non superare il fattore cinque, per evitare di sollecitare eccessivamente le riparazioni.»
«E noi gli daremo ascolto, allora: direi che se lo è meritato! » Il capitano sorseggiò un bicchiere d’acqua, prima di dirigersi all’uscita: «Sarò nel mio alloggio per le prossime quattro ore: se dovessero esserci problemi …»
«L’avvertirò, capitano.»
«Bene, a lei il comando, tenente.»
Fattore cinque: nella fisica dell’iperspazio, l’equivalente del passo di un buon marciatore. Si trattava ovviamente di un paragone piuttosto impreciso, quasi una metafora, perché non era possibile stabilire una relazione tra il concetto di velocità nel normale continuum e quello nell’iperspazio: fuori, eri tu a muoverti da un punto all’altro dello spazio, di solito piuttosto velocemente, se non volevi invecchiare durante il tragitto; razzi chimici, vele solari, propulsori nucleari, sistemi gravitazionali: la scelta si era ampliata notevolmente nel corso della storia del volo spaziale, tanto che, al giorno d’oggi, persino piccole navi da diporto potevano permettersi di bypassare le distanze tra due sistemi stellari relativamente vicini utilizzando propulsori a distorsione. Quando però si trattava di coprire centinaia o migliaia di anni luce, occorreva qualcosa di più prestante. Erano occorsi decenni per scoprire i segreti della topologia multidimensionale, per comprenderne leggi e scorciatoie: nell’iperspazio, uno non si muoveva; meglio, poteva anche muoversi, se lo desiderava, ma non era strettamente necessario, visto che era possibile, manipolando accortamente alcune variabili, far sì che fossero tempo e spazio a muoversi per lui. Naturalmente, una tale possibilità presentava anche alcuni lati negativi: occorreva spendere una notevole quantità di energia, per generare lo speciale campo necessario alla manipolazione, e solo le navi più grosse potevano permettersi di farlo. Comunque, nessuno, finora, aveva scoperto né tantomeno sondato il limite superiore di questa manipolazione che era possibile effettuare, e …

Le riflessioni del primo ufficiale vennero interrotte dall’ufficiale di guardia: «Tenente! Venga a vedere!»
«Qualche problema con la propulsione?»
«No, signore! È arrivata una richiesta da parte di un addetto al laboratorio diagnostico.»
Bentley-Farth si avvicinò alla console occupata dal guardiamarina: «Una richiesta? Di che genere?»
«È una richiesta di ricerca personale, signore.»
«E perché la inoltrano al Centro Operativo?» chiese il tenente, aggrottando la fronte: per qualche strano motivo, un brivido di freddo gli corse lungo la schiena.
«Hanno bisogno di accedere alla rete sensoriale interna della nave, signore. Sembra che un membro del loro staff sia scomparso.» Il guardiamarina, una giovane donna dai tratti asiatici, fece ruotare la poltroncina per guardare direttamente il superiore: «Devo autorizzare la richiesta, tenente?»
«Sì, sotto la mia responsabilità. Esegua immediatamente, per favore.»
«Devo avvertire il capitano?»
«Prima è meglio verificare che ci sia qualcosa di cui avvertirlo, non crede?» Sorrise, per quel poco che poteva: nonostante gli anni trascorsi, gli riusciva ancora difficile padroneggiare completamente la muscolatura espressiva ricostruita e la sua mimica facciale risultava sempre un po’ stentata.
Il guardiamarina sorrise a sua volta con calore: «Ha ragione, signore: siamo già abbastanza nei guai …»
rispose, alludendo al ben noto caratteraccio del comandante. Le sue dita curate volarono sullo schermo, sfiorando decine di contatti e punti sensibili, dapprima leggere, quasi fosse un banale esercizio, un passatempo, poi sempre più frenetiche, fino a fermarsi all’improvviso, mentre si appoggiava allo schienale, perplessa: «Tenente, credo che dovremmo fare rapporto al capitano …»
Bentley-Farth la invitò a proseguire con un cenno: «Il dottor Leroux, il responsabile del laboratorio …»
«Sì?»
«Bè, ecco … È sparito!»
«In che senso, sparito?»
«Nel senso che da circa dodici ore non risulta essersi più mosso a bordo della nave!»
L’alloggio del capitano era dotato di una piccola dependance con accesso indipendente, che poteva essere utilizzata per ricevere ospiti importanti, oppure, come in questo caso, per ascoltare in privato rapporti assurdi da parte di un primo ufficiale che di colpo sembrava essere diventato paranoico …
«Mi ripeta un po’ cos’è successo, tenente!»
Senza mostrare di aver minimamente notato l’accenno di acredine nel tono del capitano, il tenente ripeté il suo rapporto per filo e per segno: «Circa dodici ore fa, nel pieno del sezionamento da parte delle squadre di riparazione, il dottor Leroux ha lasciato il laboratorio analisi, per recarsi alla mensa ufficiali più vicina …»
«Quella sul terzo ponte!»
«Esatto! Non è più tornato indietro. Preoccupati per la sua assenza prolungata, i colleghi lo hanno cercato estesamente per tutta la nave: non riuscendo a trovarlo, hanno inoltrato richiesta per una ricerca personale al Centro Controllo.»
«Che lei ha autorizzato.»
«Mi sembrava corretto.»
«Umph! E cosa è venuto fuori, dalla ricerca sensoria?»
«Il dottor Leroux risulta essere entrato nei locali della mensa, ma risulta pure che non ne è più uscito. Tra l’altro, la mensa del terzo ponte è una delle sezioni dichiarate inagibili dalle squadre di riparazione.»
«Quindi sono stati loro a trovarlo?»
«La mensa è stata dichiarata inagibile e chiusa prima dell’ingresso del dottore, capitano.» puntualizzò Bentley-Farth.
«Ma allora come diavolo ha fatto ad entrarci?!» sbraitò il comandante; nonostante tutto, cominciava a credere che il tenente non fosse poi così paranoico come aveva ritenuto in un primo momento.
«È quello che vorrei scoprire, signore. Con il suo permesso.»
Il capitano annuì trucemente: «Certo! Ha la mia autorizzazione. Anzi, sa che le dico?, verrò anch’io con lei a controllare!»
Pochi minuti più tardi, si trovavano entrambi davanti alla doppia porta scorrevole della mensa; sopra la soglia, campeggiava il segnale rosso d’emergenza, ad indicare che quell’area era off-limits per il personale non autorizzato. Oltre ai due ufficiali, soltanto una squadra della sicurezza, in tenuta anti-sommossa. «Meglio avere un qualche aiuto. Non si sa mai, tenente!» aveva commentato il capitano, chiudendo l’interfono prima di uscire.
Il comandante della squadra, un sergente grande e grosso, stava effettuando un’accurata scansione dell’area con i sensori in dotazione. Nonostante la mole, dimostrava la stessa grazia di un gatto in equilibrio su di una corda tesa.
«Allora, sergente! Che mi dice? Ha già ottenuto qualche risultato?»
Il sergente rispose soltanto dopo aver verificato e trasferito i dati raccolti al server informativo centrale della nave, salutando come da regolamento i due ufficiali mentre parlava: «Spiacente, signori: per il momento, l’unica cosa che posso dirvi con certezza è che quella porta è bloccata.»
«Infatti: era stata dichiarata inagibile dalle squadre di Weinstraub a seguito dell’incidente con la singolarità.» Bentley-Farth stava esaminando i dati sul proprio visore portatile.
«Mi scusi, tenente, non mi sono spiegato bene: non intendevo una chiusura ufficiale, elettronica, aggirabile con le debite autorizzazioni, da lei, dal capitano o da me, per esempio. Quella porta è morta.»
«Non sia assurdo, sergente! Come può …»
«Credo, capitano, che abbia ragione lui: guardi.» Reginald porse il visore al superiore che osservò ingrugnito le colonne di dati. «Nessuna risposta. È possibile che avvenga per un normale guasto?»
«Temo di no signore: anche in caso di guasto grave, l’elettronica segnalerebbe, se non altro, il malfunzionamento. L’unica condizione, a mia conoscenza, che potrebbe dare letture simili è la distruzione fisica.» Mentre discutevano, il sergente aveva discretamente ordinato ai suoi uomini di continuare le rilevazioni lungo tutto il corridoio.
«Distrutta o no l’elettronica, dobbiamo aprirla: sergente, si faccia mandare dall’officina un servo-bot: lo usi come ariete, se necessario, ma apra quella porta!»
Il tenente Bentley-Farth si era avvicinato alle ante scorrevoli e le stava osservando attentamente da varie angolazioni: «Sarebbe inutile, capitano: non si aprirebbero.» Indicò la linea di separazione tra le due semi-porte «Vedete? È irregolare. E questo significa …»
« … Che è stata deformata!» Il sergente si passò una mano sul viso: «Questo è un bel problema, comandante!»
«Perché, di grazia?» Il capitano cominciava visibilmente a perdere la pazienza.
«Quella è la stessa lega ceramica di cui è costituita la corazza esterna dello scafo: la usano nelle porte degli ambienti come questo per scongiurare eventuali danni da esplosione dei replicatori.» rispose imperturbabile il sergente della sicurezza «Le posso assicurare che è estremamente difficile deformarla, persino usando un battle-ram
«Per di più» si intromise educatamente il tenente «questa mi sembra più fusa che deformata …»
«Va bene! Credo di essermi fatto un quadro chiaro della situazione: vi ringrazio!» capitolò di mala grazia il capitano «Adesso che facciamo? Là dentro c’è pur sempre il dottor Leroux, probabilmente in pericolo di vita.»
Il sergente fece spallucce: «Secondo la mia esperienza, è di gran lunga più probabile che del dottore sia rimasto al più qualche amminoacido sparso, se è accaduto quello che temo. Comunque, vedremo di trovare un modo per entrare: quella roba» disse, indicando la soglia «fonde a temperature sopra i quattromila gradi. In officina dovrebbe esserci una torcia al plasma, di quelle usate per le riparazioni in EVA. Mi autorizza lei, capitano?»
«Tagli pure, sergente: una porta possiamo sempre sostituirla.»
Come risultò una mezz’ora più tardi, purtroppo per lui, il sergente si era sbagliato: il dottor Leroux era ancora nella sala mensa, tutto quanto. Persino il suo segnalatore. Appena messo piede nella sala illuminata a giorno dai riflettori, il sergente vomitò la cena; il soldato che lo seguiva in copertura diede una lunga occhiata all’interno, impallidì, si voltò e fuggì piagnucolando come un bambino, per finire a rannicchiarsi al suolo dietro la prima svolta del corridoio; dopo queste due reazioni estreme, gli altri non vollero nemmeno avvicinarsi alla soglia squarciata dal plasma. Forse il capitano era un po’ più duro; forse era soltanto un po’ più insensibile: non scappò, non rimise l’anima, assunse a malapena una tinta giallognola. Qualcuno aveva attirato Leroux in sala mensa prima di chiuderla; qualcuno  lo aveva legato ad una sedia; qualcuno lo aveva imbavagliato. A quel punto, avevano iniziato il sacrificio. Dovevano aver utilizzato un kit per le riparazioni, di quelli portatili, perché era evidente che alcune delle ferite erano state inflitte con dei laser di precisione; altre, invece, le avevano inferte con una lama a vibrazione di grosso calibro. Per finire, avevano bloccato la porta fondendola dall’interno con la torcia contenuta nel kit. E si erano suicidati …
«Hanno … masticato … le celle energetiche di riserva dei laser??»
«Esatto, capitano.» Bentley-Farth era tetro, nel presentare il suo rapporto «Diamine! Non immaginavamo neppure che fosse possibile farlo, sino ad ora! Comunque sia, le esplosioni derivanti sono risultate abbastanza potenti da ridurli in quello stato.»
«Impedendo il riconoscimento! Possibile che non si possa risalire a quei bastardi attraverso i ruolini di servizio? Qualcuno dovrà aver segnalato la loro assenza, no?!»
«È questo il vero problema, signore: sembra che in quelle dodici ore di caos a bordo, a causa del sopralluogo e delle riparazioni, si siano perse le tracce di almeno un terzo dell’equipaggio non in servizio attivo …»
A quella notizia, il capitano non poté fare altro che boccheggiare.
Prendete un ambiente chiuso, senza possibilità alcuna di uscirne.
In seguito, mettete a convivere in questo ambiente un gruppo eterogeneo di esseri viventi, per un lungo periodo e in condizioni di stress latente; nel corso di lunghi mesi, in apparenza tranquilli al punto da risultare noiosi, lo stress lieviterà lentamente, di nascosto, percepibile unicamente come un’ombra, con la coda dell’occhio. Un disagio, un malessere indefinibile che richiede però un qualche tipo di cura.
A questo punto, iniziate ad instillare in soggetti adatti, selezionati con cura, delle particolari credenze, sottolineando che si tratta di semplici esercizi di fantasia, di stile e che comunque è meglio che rimangano a livello di confidenza personale, un segreto tra voi e i vostri interlocutori: nel giro di qualche settimana, voci e sussurri si spanderanno a macchia d’olio, modificandosi e ingigantendosi nel corso stesso del processo di diffusione. Debitamente rinforzati per mezzo di stimoli opportuni, nelle menti dei soggetti influenzabili acquisiranno ben presto lo status di fatti, sebbene in realtà non lo siano. Non ancora …
Restate in un sicuro anonimato, non assumete un ruolo preciso, in tutto questo: ci sarà sicuramente chi sarà ben lieto di farlo al posto vostro, per mania di grandezza, per smania di notorietà, per senso di responsabilità, persino. Arriverà il momento in cui potrete tranquillamente dissociarvi dalla cosa, consci del fatto che, oramai, tra le vostre indiscrezioni iniziali e lo stato attuale del fenomeno corre un abisso.
Il palcoscenico è pronto, lo spettacolo è pronto; ora non resta altro che chiamare gli attori alla ribalta con qualche artificio ad effetto!
Reginald Bentely-Farth stava guidando una quadra della sicurezza verso l’hangar principale: dovevano riuscire a bloccare gli ammutinati, se volevano sopravvivere. Assurdo, come tutto si fosse svolto alla luce del sole e nonostante questo, nessuno se ne fosse accorto. Fantasie apocalittiche, l’idea di essere soli in un universo vuoto, di essere stati, in realtà, rinchiusi per mesi all’interno di un ambiente artificiale, a fare da cavie nell’esperimento di chissà chi: queste erano le follie paranoiche che allignavano tra l’equipaggio, segrete, quasi inconsce; qualcuno aveva detto a qualcun altro di conoscere persone in grado di svelare la verità, di riportare la realtà nelle loro vite, la vera realtà. In seguito, da quanto era riuscito a ricostruire, aveva cominciato a circolare la voce che l’Aurora sarebbe presto finito in pezzi, perché tutto aveva un termine ed i loro aguzzini avevano deciso di porre fine all’esperimento in modo letteralmente esplosivo; a rinforzare questa convinzione aveva contribuito involontariamente il capitano, lasciandosi scappare, così, a livello di discussione, la notizia che il comando stava pensando di dismettere l’incrociatore entro breve tempo.
In questo contesto, l’incontro accidentale con la singolarità aveva agito da catalizzatore e il bubbone era scoppiato. In meno di trentasei ore, sette diversi gruppi di invasati si erano dati battaglia lungo i corridoi e nelle sale della nave, perpetrando tali e tante atrocità che, al confronto, gli orrori derivanti dalla guerra in cui il tenente era rimasto menomato sembravano solamente gli effettacci di un film horror di serie B.
Erano comparse armi improvvisate e non, nelle mani di fanatici guidati da pseudo guru invasati dalla necessità di instillare fisicamente negli avversari la propria visione del mondo, e al diavolo le conseguenze.
Risultato, le letture dei sensori ambientali tracciavano un quadro per nulla rassicurante della situazione: tutta la sezione di prua era isolata, senza energia principale; secondo le stime ufficiali dell’A.I. di bordo, un terzo dell’equipaggio stava volontariamente lasciandosi morire per asfissia appena oltre la paratia quindici; sempre che non si facessero a pezzi prima facendo implodere la prua: erano stati segnalati preoccupanti tentativi di aprire al vuoto la sezione, da parte di alcuni di quei pazzoidi, forzando le camere stagne e i portelli corazzati dei pozzi di lancio. Fortunatamente, i sistemi di sicurezza automatici erano intervenuti immediatamente, sigillando tutto come se si trattasse di un danno da combattimento; ma questo avveniva  quando alimentazione e sistemi vitali non erano ancora stati tagliati …
Il tenente ricordava ancora le ultime parole del capitano, mentre si chiudeva alle spalle il portello del Centro Operativo: «Reginald, deve fermarli! Stanno cercando di cortocircuitare i propulsori delle navette! Se dovessero riuscirci, l’effetto combinato delle esplosioni sventrerebbe la nave!»
«Capitano …» Bentley-Farth si era interrotto a metà: sapeva benissimo che era inutile continuare, prima ancora di aprire bocca, ma un tentativo aveva dovuto comunque farlo.
«Tenente, io devo tenere questa posizione, non fosse altro che per fornirvi quel minimo di supporto tattico ancora ricavabile dai sensori.» Era una scusa, lo sapevano entrambi, ma andava bene così: appena scoppiati i primi disordini, il capitano era stato assalito dal medico capo, in cerca di proseliti, mentre si dirigeva al Centro. Un paramedico era riuscito in qualche modo a tamponargli le ferite, ma non sarebbe durato ancora per molto. Lui e il sergente avevano salutato militarmente e si erano affrettati a raggiungere il resto degli uomini, già schierati lungo il corridoio in assetto da battaglia.
Non era stato facile, raggiungere la meta – il sergente e due dei suoi erano caduti cercando di sfondare una barricata – e il morale di tutti aveva ormai toccato il fondo: tiravano avanti unicamente per cieco senso del dovere e dell’onore. Bentley-Farth lo sapeva, lo sentiva. Se aveva ottenuto un vantaggio dalla sua menomazione, questo era la pazienza: nei due anni trascorsi ad imparare nuovamente ad avere un corpo, il tenente aveva sviluppato una notevole capacità analitica, oltre ad una spiccata tendenza all’introspezione, necessaria, quest’ultima, per scoprire come coesistere pacificamente con un corpo artificiale del  tutto estraneo; aveva preso l’abitudine di analizzare ogni minimo particolare, elaborando sempre più di una possibile spiegazione per quanto gli accadeva intorno. Ed era certo di quanto si andava delineando nella sua mente, mentre avanzavano di soppiatto lungo i corridoi di servizio, evitando accuratamente i più ampi ed illuminati passaggi principali: aveva riflettuto a lungo sulla loro situazione e le sue conclusioni si potevano riassumere in un’unica parola: artefatta.
 Proprio così, artefatta: la sequenza di avvenimenti, fughe di notizie, incidenti, sussurri era troppo ben congegnata, troppo casuale, per esserlo davvero; la tensione era andata in crescendo sin da quando avevano raggiunto quel settore in missione esplorativa, gonfiata ad arte come un pallone. C’era di sicuro una regia, dietro quel disastro, un’unica mente che aveva seminato vento in maniera molto accurata, solo per raccogliere quel genere di tempesta che stavano vivendo. Chi? Chi c’era dietro? Bentley-Farth avrebbe pagato per saperlo.
Dopo, quando il disastro imminente nell’hangar fosse stato scongiurato, avrebbe potuto dedicarsi alla caccia …
“Pazienza, sì! Pazienza, Reginald. Non è ancora venuto il momento di scoprire le tue carte.”
Le porte interne dell’hangar principale giacevano al suolo, divelte da micro-cariche termolitiche: non il minimo rumore, niente fumo; gli uomini del defunto sergente evidentemente sapevano il fatto loro, tanto che i facinorosi stavano ancora lavorando alla bomba improvvisata, ignari di tutto, quando furono abbattuti a colpi di storditore. «Ci sono tutti, caporale?»
«Sissignore! I rilevatori di segni vitali non captano nessun altro soggetto nelle vicinanze. Adesso provvederemo a …» Il graduato fissò con stupore la macchia rosso vivo apparsa all’improvviso sul petto del superiore: «Tenente …?» biascicò in tono interrogativo, prima di accasciarsi al suolo, sventrato da un colpo di grosso calibro.
Bentley-Farth si lanciò verso il riparo offertogli dalle grosse paratie tagliafiamma che proteggevano i serbatoi dell’ossigeno liquido di emergenza. Non era un nascondiglio ottimale, ma da quello che vedeva, poteva ritenersi fortunato ad averlo raggiunto incolume: metà dei suoi uomini e tutti i ribelli giacevano morti sul pavimento graffiato dell’hangar; i rimanenti cercavano di riorganizzarsi per opporre un minimo di resistenza, chiamandosi a gran voce per stabilire le rispettive posizioni.
Dal suo nascondiglio, il tenente valutava rapidamente la situazione, cercando al contempo la posizione del cecchino. Un colpo impattò sfrigolando contro la lega a dieci centimetri dalla sua testa, tanto che ne avvertì il calore. Troppo rischioso rimanere ancora: il colpo successivo avrebbe potuto benissimo far esplodere i serbatoi.
Raccolta una chiave – “Un sentito ringraziamento al meccanico distratto che ti ha persa, bellezza!” – la lanciò da una parte, non troppo lontano, per non insospettire gli avversari e scattò lungo una traiettoria perpendicolare; come si aspettava, partirono due scariche, una ad incenerire l’attrezzo, l’altro a spazzare il metallo nella direzione opposta, rasente ai tagliafiamma. Quello che non si aspettava era il terzo colpo, un laser militare di precisione che segò l’aria alle sue spalle: si era salvato soltanto perché i suoi muscoli artificiali erano risultati più potenti ed elastici del previsto! Comunque, grazie a quell’ultimo colpo, era riuscito ad individuare con precisione il cecchino. Sorrise, mentre si preparava all’azione: di chiunque si trattasse, avrebbe presto avuto una bella sorpresa!
Non è un compito facile, indurre il terrore. Mesi di preparazione, la programmazione accurata di ogni singola mossa, ogni singola parola, perché tutto sia pronto al momento opportuno. Pronto ad esplodere.
Analizzare i soggetti per scoprire i loro timori, le loro fobie; tessere e dipanare contemporaneamente molte diverse trame per diversi obiettivi: potremmo dire che si tratta di un’arte, paragonabile a quella di un cuoco che riesce a portare in tavola ogni piatto cotto a puntino per ogni commensale … solo che, in questo caso, il commensale sei tu, unico e solo. Ed è una grande responsabilità, perché un errore potrebbe compromettere non soltanto il tuo lavoro personale, ma anche quello di tutti gli altri.
Quella a bordo dell’incrociatore pesante Aurora in gergo veniva chiamata operazione comparativa: riproporre, a distanza di tempo, un esperimento condotto con successo in passato, ricostruendo le condizioni ambientali e psicologiche dei soggetti, aggiornandole al periodo storico in esame; in pratica, una sorta di arrangiamento, di riscrittura creativa. Nel 1917, la situazione socio-economica dell’Impero aveva portato i marinai ad ammutinarsi e a dare il via a quella che sarebbe risultata essere una delle più grandi e controverse rivoluzioni della vostra storia.
La preparazione era stata lunga, intensa, anche perché si considerava l’Aurora  come una sorta di promettente trampolino di lancio per altre, ben più complesse operazioni; nel mio caso, invece, si trattava unicamente di comprovare un metodo già sperimentato.
La risonanza della Rivoluzione, con tutti i suoi strascichi, ci aveva indotto ad accelerare alcuni filoni, perfezionandoli, ed ad abortirne altri, poco promettenti; ci aveva anche fornito energia e nutrimento a basso costo in quantità, con l’enorme ondata di sensazioni che aveva generato: banchettammo per anni interi senza muovere un dito, grazie a quei marinai devoti alla causa del popolo! Anche se ci sarebbe da chiedersi quale popolo …
Imbarcandomi sull’incrociatore spaziale, sapevo che sarebbe stato molto diverso, per un verso, e perfettamente uguale, per un altro. Il capitano, gli ufficiali, i marinai rappresentavano un modello talmente standardizzato da rasentare lo stereotipo: carriera, lavoro, ruolini di servizio, la paura latente ma profondamente radicata di udire quel sibilo sottile, assassino, che indica la perforazione di un qualche punto dello scafo a pressione, la vita che sfugge nello spazio insieme al prezioso ossigeno …
Altre paure più prosaiche – un incidente in sala macchine, l’esplosione di una testata in santabarbara – erano facilmente arginabili per dei professionisti che avevano scelto di vivere correndo dei rischi, primo fra tutti quello di navigare nello spazio interstellare; ecco dunque che una lieta sorpresa, la presenza di un ufficiale atipico come il tenente Reginald Bentley-Farth, non poteva che rendere più vivace l’atmosfera, la sfida più allettante: lui non era standard, non poteva esserlo. A rigore, non era neppure più del tutto umano, cosa questa che imponeva una revisione della strategia.
Il gioco è iniziato quasi spontaneamente, una partita lunga settimane, io che spargevo inquietudine insieme ad una quantità di indizi sottili, che il tenente recepiva immediatamente, quasi a livello inconscio, reagendo come uno strumento perfettamente accordato. Io mettevo in giro la voce che un sensore si era guastato nell’impianto di contenimento delle testate quantum? Lui, sempre attento a tutto, lo veniva a sapere e avviava una routine di verifica del sistema. Io suggerivo che l’impianto di aerazione degli alloggi sul ponte F era rumoroso e diffondeva odore di lubrificante? Le squadre di manutenzione inviate sul posto da lui, scoprivano una delle membrane semi-organiche parzialmente disseccata, là dove un motore dell’impianto di condizionamento, guastatosi per fatica, aveva subito una perdita. Inutile dire che questa giostra a distanza contribuiva grandemente ad aumentare a livello subliminale ansia ed angoscia a bordo dell’Aurora;
Bentley-Farth stesso contribuiva a farlo aumentare: «È una nave vecchia, tenente: è facile che ci siano dei guasti di poco conto!» Il defunto capo ingegnere Weinstraub lo disse in mia presenza, una mattina sul ponte; al che, Bentley-Farth replicò che quella non era una scusante e che l’efficienza della nave era fondamentale. Piccato, Weinstraub se ne andò borbottando, senza neppure prendersi la briga di rispondere. Capite? Un protagonista inconsapevole, ma che protagonista! Oltre tutto, durante questo mese deve aver maturato dei sospetti, ragionando per conto proprio, in solitudine, come è sempre stato solito fare. Non ne ha parlato neppure al capitano, perché, come suo solito, lui tiene tutto per sé sino a quando non è sicuro di una cosa almeno al 98%. Nonostante questo, si deve essere fatto un quadro piuttosto preciso degli avvenimenti. Ne è la prova il fatto che ora si stia preparando a spiccare il balzo per raggiungermi qui, sulla passerella di servizio; non ha neppure badato ai tre membri dei reparti da sbarco che hanno falciato la sua squadra insieme ai facinorosi che avevano appena catturato, qui nell’hangar: ha schivato l’attacco, si è portato al riparo ed ha sfruttato quel vecchio trucco della chiave per scoprire il vero cecchino.
«Ottimo, Reginald! Plaudo a te, che ti sei dimostrato l'unico in grado di raggiungermi!»
Devo ammetterlo: mi è sempre piaciuto un po’ più degli altri, con quel suo aspetto legnoso conferitogli dal corpo prostetico. E poi è riuscito a sorprendermi anche adesso: non avrei mai creduto che potesse essere tanto agile; che la sua goffaggine sia sempre stata una finzione? In effetti, avrei dovuto immaginarlo, dedurlo da tanti piccoli particolari, come ha fatto lui nei miei confronti. Eccolo, che mi guarda incredulo, proprio non se l’aspettava: «Tu?!» Eh, sì! Io, il guardiamarina che lo ha informato del caso Leroux, questa donnina timida e carina, schiva … che ora gli sta puntando addosso un laser di precisione, con l’intenzione di tagliarlo in due!
Quando emerse dall’iperspazio nel punto stabilito,in ritardo di tre giorni per delle avarie, il convoglio diretto all’avamposto su Thermis-3 trovò l’incrociatore Aurora ad attenderlo. A giudicare dai sensori a lungo raggio, sembrava che qualcuno si fosse divertito a testare la resistenza dello scafo sforacchiandolo qua e là con un cannone a particelle di grosso calibro; giungendo a portata visiva, però, ci si rendeva conto che gli squarci nelle corazze erano stati tutti provocati dall'interno, probabilmente con degli esplosivi. Le scansioni preliminari mostrarono che l’energia principale era al minimo, così come i segni vitali. La squadra di soccorso trovò un unico superstite, ridotto letteralmente ad un rottame: stabilizzato per quanto era possibile, il tenente Bentley-Farth chiese un colloquio privato con il comandante della squadra, cui consegnò le registrazioni dei sensori interni ed esterni della nave delle ultime quattro settimane, facendosi promettere – ed era facile, viste le sue condizioni – che le avrebbe esaminate attentamente e diffuse il prima possibile; poi insistette per farsi riportare a bordo. Mentre il convoglio si allontanava a tutta velocità verso la sua destinazione, un immenso fiore rosso-fuoco sbocciò dal nucleo dell’Aurora rimanendo visibile per ore, incredibilmente bello, sugli schermi di poppa.

La storia si ripete, indubbiamente: come accadde al suo omonimo nel ’17, dalle azioni intraprese a bordo dell’Aurora sortirono effetti epocali. Devo ammettere che quella che era partita come una banale operazione comparativa fruttò al contrario dei risultati tutt’altro che banali: grazie all’abilità insospettata del nostro agente, l’umanità e i suoi alleati vennero a sapere della nostra esistenza!
Con quella promessa strappata in punto di morte, sostanziata dal sacrificio finale che corroborava e rendeva inconfutabile il contenuto delle registrazioni, il nostro agente ottenne quello che tutti noi, per secoli, dopo essere maturati, avevamo cercato invano – il tempo e il modo di rivelarci – senza mai trovare l’optimum.
Teatralità eccessiva, dite? Forse, ma comunque magistrale, come magistrale fu l’uso di quella pedina, il guardiamarina, come alter ego, un agente-ombra che era convinta di essere il nostro vero agente. Chissà, forse, sotto sotto, lo era davvero, almeno un po’: la sorpresa che dilagò in lei, scoprendo la realtà dei fatti, unita al rammarico per essere stata usata, è uno dei gioielli che pregiamo maggiormente, nel nostro particolare modo di considerare il tempo e lo spazio, forse perché è intimamente collegato ad una pietra miliare della nostra/vostra storia.
A seguito all'incidente dell'Aurora, infatti, non  veniste soltanto a conoscenza della nostra esistenza: ci dichiaraste guerra …
 
 
PARTE TERZA – NELLA PACE DEL CHIOSTRO
Il dormitorio è tranquillo, questa notte. La Marea degli incubi è passata anche per quest’anno. Qualcuno degli ospiti ancora si agita nella sua stanza all’ostello, ma è cosa da poco. Passeggiando per il chiostro, è bello ripensare alla giornata appena trascorsa: fratello Guthbert stamane, ha aperto lo scriptorium in ritardo, mandando su tutte le furie il bibliotecario, ma bisogna scusarlo: il poveretto era stato male, durante la notte, tanto da dover ricorrere ai servigi di fratello Martino, lo speziale.
Quando sono sceso per iniziare il mio lavoro quotidiano, Guthbert si stava ancora scusando con fratello Benedict, spalleggiati ciascuno da una nutrita schiera di sostenitori. A giudicare dagli animi infervorati, devono essere volate parole grosse, prima del mio arrivo. Pazienza! Tutto si è risolto, come sempre, e lo scriptorium è tornato ad essere quel luogo di studio e silenzio che tanto amo.
Accomodatomi sullo scranno, il tomo davanti agli occhi, mi sono immerso nella lettura, cullato dal sottile brusio delle discussioni dotte intavolate qua e là dai confratelli. La storia dell’Ordine mi affascina ed è stato con gioia che ho accettato dall’abate l’incombenza di ricercare nel passato le origini della nostra fratellanza: un compito duro, difficile, ma ricco di soddisfazioni. Ad esempio, ho scoperto uno stretto legame tra noi e i Cacciatori, quelli che chiamano il Popolo dei Vagabondi: loro compito è ricacciare indietro la Marea ovunque questa rischi di compromettere la pacifica esistenza della gente comune, anche con metodi che alle volte non sono propriamente ortodossi. Può sembrare cinico, detto così, ma è indubbio che un sacrificio, alle volte, si renda necessario per la salvaguardia dei molti che popolano questo nostro Creato.
I Vagabondi, secondo le cronache più antiche conservate negli archivi, vennero reclutati tra i più forti di tutti noi, allorché si rese evidente l’esistenza della Marea. Ritenendo che si trattasse di un fenomeno passeggero, essi vennero selezionati, addestrati fino alla perfezione e dopo aver ricevuto armi ed equipaggiamento, vennero spediti incontro al nucleo della Marea che si stava avventando ai confini.
I sopravvissuti, i più forti tra i più forti, giurarono di non tornare indietro fintanto che non avessero adempiuto al loro dovere. E così le grandi arche rabberciate alla bell’e meglio presero a solcare il Creato, con il loro carico vivente intento a perpetuare tradizioni millenarie.
Pranzo leggero, nel refettorio. Trovo che le letture di quest’oggi abbiano stimolato particolarmente quella facoltà del mio intelletto dedita alle speculazioni metafisiche: compulsando gli archivi, ho trovato vari accenni al gruppo degli Osservatori, coloro i quali riportano all’Ordine le informazioni che costituiscono la base per le estrapolazioni che ci hanno reso famosi; senza queste estrapolazioni il braccio armato dei Cacciatori Vagabondi non potrebbe colpire nel punto giusto. Perché è tristemente noto che la Marea degli Incubi si è rivelata non già essere un fenomeno una tantum, bensì qualcosa di ricorrente, quasi periodico nella sua pericolosità. Ed allora mi sorge spontaneo un dubbio: siamo davvero noi, l’Ordine, il fulcro della difesa delle genti libere? È vero, noi sappiamo estrapolare dati con una precisione che spesse volte rasenta la predizione, ma senza la massa di informazioni recateci dagli Osservatori, itineranti o stanziali che siano, riusciremmo lo stesso a produrre queste mirabili concatenazioni di deduzioni logiche? L’orgoglio mi dice di sì; la logica mi fa dubitare dell’orgoglio. Forse che siamo tutti e tre elementi interconnessi e necessari? Meglio che l’abate, uomo di grande lignaggio e saldi principi, non venga mai a conoscenza di questi miei dubbi.
Ho trascorso il pomeriggio a conversare amabilmente con fratello Edgardo: viene da molto lontano, inviato dal suo Capitolo per ottenere un aiuto in certe astruse analisi che là stanno compiendo. Secondo loro è possibile che la Marea non provenga da qualche punto al di fuori  del Creato, che non si tratti di una forza d’invasione, ma di qualcosa d’altro, molto più subdolo e pericoloso, proprio perché è così sfuggente. Ipotesi decisamente suggestiva, la sua, che mi ha dato da pensare: se la difesa dei confini si rivelasse inutile …
La luce delle stelle illumina il mio cammino qui nel chiostro. A quasi ognuna di quelle stelle corrisponde almeno un mondo abitato da senzienti, i più dotati dei quali confluiscono nel nostro Ordine. I Vagabondi ormai si sono staccati definitivamente da noi, le loro navi generazionali, partite secoli fa, costituiscono una nazione a sé stante, le nostre interazioni ridotte unicamente alla comunicazione delle estrapolazioni sulla Marea. Anche gli Osservatori oramai si limitano a comunicare le informazioni dagli angoli più remoti del Cosmo. Va tutto bene, va tutto per il meglio: poco alla volta, manipolando accuratamente le registrazioni degli archivi, sto recidendo i legami più forti. Divide et Impera! Davvero un saggio consiglio.
Peccato per fratello Edgardo: la traccia che aveva scovato avrebbe portato il suo Capitolo dal sospetto alla certezza. Disgregare il nemico al centro, distraendolo con falsi attacchi ai confini, è sicuramente rischioso, ma altamente pagante; io, fratello Kain, Marea dell’incubo che vivo in mezzo a voi, posso dirlo con certezza: dopo la Prima Guerra – durante la quale abbiamo portato a termine con successo i test finali delle nostre teorie di base, elaborate nel corso dei millenni – nelle successive abbiamo optato per questa strategia: non siamo dei dominatori, neppure vorremmo esserlo. Potete considerarci dei parassiti altamente specializzati, dei brillanti amministratori: noi coltiviamo e facciamo evolvere il nostro cibo, per mantenerlo sempre attivo ed efficiente. Il nostro prossimo obiettivo? Cercare le nostre origini, tra i meandri e le pieghe delle multidimensionalità.
Anche noi, in quanto senzienti, siamo curiosi, sapete?

   
 
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