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Autore: Molly93    06/09/2014    0 recensioni
Anno 167X. L'Italia è scossa da numerosi tumulti. L'infuriare del popolo è all'ordine del giorno.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Anno 167X.

L'Italia è scossa da numerosi tumulti. L'infuriare del popolo è all'ordine del giorno.

Sicilia.

La popolazione, oramai allo stremo, cercava di resistere con tutte le proprie forze; negli animi ardeva la sete di libertà e giustizia. Negli occhi, affaticati dalla lotta che si protraeva da anni, si rispecchiava ancora un’antica fierezza. Da ogni parte della città si sentivano grida, spari, bombe.
Era l'anno 1678 e a Messina i cittadini, messosi d'accordo nelle notti precedenti, si erano disposti secondo quanto prestabilito. Armi alla mano, correvano qua e là in cerca del nemico.
Il regno delle due Sicilie da anni si trovava sotto la potenza spagnola; durante questo periodo di dominazione la società italiana si era lasciata trascinare dal paese dominante, adattandone i costumi oziosi e parassitari della nobiltà, la mania per l'etichetta, ma non solo. La Spagna stava affrontando un periodo di crisi economica dalla quale riusciva a stento a risollevarsi, e i paesi sotto il suo controllo non se la cavavano meglio: i soldi faticosamente guadagnati erano ingurgitati dalle tasche dei viceré che, incuranti delle sofferenze del popolo e accecati dalla sete di ricchezza, abusavano di continuo del proprio potere.
La situazione era diventata insostenibile, così erano scoppiate le prime rivolte, dalle quali ben presto le altre città presero esempio. Messina era una di queste.

Tra i rivoltanti, che quel giorno si erano riuniti in piazza, fece la sua comparsa un ragazzo. Era giovane e, come molti altri ribelli, doveva avere pressappoco una ventina di anni. Lo sguardo rabbioso, i capelli castani con un ciuffo ribelle e il fisico magro facevano di lui, nel complesso, un bel ragazzo.
 Guardò con sprezzo l'abitazione del viceré che, al riparo nella sua fortezza, ordinava la repressione di ogni tentativo di sommossa.
Romano – era questo il nome del ragazzo- fu certo che, seppur per un istante, qualcuno si era affacciato alla finestra. Antonio Fernández Carriedo, per la precisione. L’italiano lo conosceva bene, da molti anni. Si ricordava chiaramente quando l’aveva conosciuto; all’epoca era solo un bambino, ma non gli era piaciuto fin dall’inizio. Del resto, a chi piacerebbe uno sconosciuto che, apparso dal nulla, t’impone la propria superiorità?
 
 Sputò a terra, disgustato. Erano anni che combattevano, ma presto le cose sarebbero cambiate, e sarebbe stato finalmente libero.
Si voltò verso i compagni, soffermando lo sguardo su alcuni di essi. Davanti ai suoi occhi c’era una folla variegata, composta sia da donne che da uomini, dai più anziani ai ragazzini di soli undici anni. Fece un paio di passi avanti, e salì su un carretto, a mo’ di palco. Nonostante la sua giovane età era uno dei capi della rivolta e, tra i suoi compiti, vi era anche quello d’incitare il popolo. Prese fiato, e parlò a voce forte e chiara.

"I francesi ci hanno tradito."

Fece una seconda smorfia di disgusto. Se c'era una cosa che aveva imparato in tutta la sua vita, era il non fidarsi degli altri, mai. Quando la città di Messina si era rivolta a Luigi XIV, la Francia aveva fornito subito un sostegno ai ribelli. Gli alleati erano stati accolti con entusiasmo, come liberatori, e il popolo aveva creduto di poter finalmente tirare un sospiro di sollievo.
Gli spagnoli, dopo un’aspra battaglia presso le isole eolie, erano stati sconfitti rovinosamente. Ma presto la popolazione si era resa conto di come la nuova presenza si stava rivelando, se possibile, più nociva della precedente: I francesi non erano mossi dal desiderio di aiutare i bisognosi, né si curavano dei danni che provocavano. La loro improvvisa ritirata, infine, aveva reso nulla tutte le fatiche.

“Quei musiù* hanno richiamato a sé le truppe, lasciandoci soli contro i nemici! Ci hanno dimostrato solo che dobbiamo fare affidamento solo su noi stessi. Gli spagnoli ci hanno privato di tutto, ma noi ancora non ci siamo arresi. Dimostriamo  di saper ottenere ciò che vogliamo!"

Ma, pur cercando di non darlo a vedere, nel suo intimo sapeva che la fine era giunta; eppure non voleva mollare. Non poteva, non dopo aver visto quei cittadini morire per un ideale, non quando si faceva affidamento su lui.
Rapidamente, appena i soldati spagnoli iniziarono ad avanzare, cercò di spingersi il più possibile tra le prime file. I cittadini si sostenevano l'un l'altro, difendendosi e attaccando come meglio potevano.
Romano afferrò un lungo bastone: Non era l'arma migliore, ma per il momento poteva bastare; ne avrebbe sottratta una con la forza, al momento propizio. Occasione che, fortunatamente, si presentò presto. A pochi metri più avanti vide la sua futura vittima. Un giovane soldato, di cui l'intero aspetto metteva in risalto l'inesperienza bellica. Lo sguardo nervoso, che saettava da una parte all'altra, il tremolio degli arti e della spada impugnata erano segni fin troppo evidenti.
L'italiano gli si avvicinò di soppiatto, alle spalle, per colpirlo quindi violentemente sul collo. Il giovane soldato crollò immediatamente a terra, agonizzante. Le mani lasciarono la presa, e Romano ne approfittò, sfilando la spada e facendola sua. Si fece largo tra i nemici, usando la nuova arma come meglio poteva: Era solito usare bastoni o coltelli, e al confronto quella spada risultava pesante e ingombrante.
Un pugnale lo colpì allo stomaco, facendolo piegare a terra dal dolore. Alzò lo sguardo, terrorizzato. Un soldato spagnolo stava per ricolpirlo con la stessa arma, puntando la testa. L’uomo però si bloccò improvvisamente, e cadde a terra, privo di vita. Alle spalle c’era uno dei ribelli, che sorrise fiero e tornò rapidamente nella mischia.
Romano guardò avanti a sé il morto, e si rialzò subito. La ferita doleva, ma si sentiva ancora pieno di forze.
 Lottare, era quello l’importante. Lottare per il suo popolo.
[…]

Ci fu un lungo fischio acuto, e l’istinto gli disse di riabbassarsi. Si sentì un forte scoppio e poi urla. Una casa era stata appena colpita da un paio di bombe, e ora non ne rimaneva più nulla.
L’italiano si affrettò ad avvicinarsi, controllando che non ci fossero feriti.
Tra le macerie, un corpicino esile se ne stava immobile. Si trattava di una bambina, di circa sette anni. Nonostante il sangue che le inondava il volto, era ancora riconoscibile. Quelle ciocche ricciolute, nere, che mollemente le incorniciavano il volto, e quel vestitino fatto di stracci... Romano le si avvicinò, ammutolito. Quante volte l'aveva vista chiedere i soldi per un tozzo di pane? Spesso, senza farsi vedere, le aveva regalato un po' di cibo. Era una bambina piena di vitalità, solare; forse la più dolce che avesse mai conosciuto.
Si chinò, sfiorandola quanto più delicatamente possibile. Aveva, infatti, la sensazione che anche una lieve carezza sarebbe apparso come uno schiaffo su un corpicino così fragile. Avrebbe voluto darle almeno una sepoltura decente, ma era nel pieno della rivolta e aveva già perso troppo tempo.
Un rumore di passi in lontananza lo fece tornare alla realtà. Si girò di scatto. Amici o nemici? Impallidì e rapidamente si abbassò, cercando di nascondersi. Nemici. E non un nemico qualunque, no. Antonio Fernández Carriedo. Imprecò mentalmente. Doveva incontrare proprio lui, tra tutti?  Ma forse… forse poteva volgere la situazione a proprio favore. Un’ idea gli balenò in testa. Avrebbe potuto vendicarsi direttamente su di lui, fargli assaporare il sapore della sconfitta. Perché lasciarsi fuggire un’occasione del genere?
Approfittando di una breccia in un muro, osservò l'iberico. Sembrava nervoso e stanco, ma non più di quanto lo fosse Romano. Probabilmente, oltre che combattere in prima linea, aveva dovuto gestire le truppe contro la rivolta.
Lo sguardo era rivolto in basso, come se fosse immerso nei suoi pensieri. Non sembrava nemmeno che si fosse reso conto che la battaglia infuriava... ma aveva anche lui una spada, sporca di sangue. Un brivido lo pervase. Aveva ucciso qualcuno? Quanti? Di sicuro aveva risparmiato bambini e donne... o forse no? Antonio aveva il cuore tenero, e questo Romano lo sapeva bene. Ma se si trattava di combattere, a cosa avrebbe dato la priorità? Ai doveri di soldato, o alla vita dei cittadini?
Aspettò diversi minuti, in modo da poter riprendere le forze, e poi decise di uscire allo scoperto. Se avesse aspettato oltre avrebbe perso l'occasione... che fare poi, se fossero giunti altri soldati spagnoli? Non avrebbe avuto scampo, lo sapeva.
Fece qualche passo in avanti, calpestando i resti di quelli che fino a poco tempo fa erano stati mura o solai. Camminare sulle macerie più difficile di quel che pensava, e l'italiano non aveva energie a sufficienza per intraprendere un attacco a sorpresa.
Antonio alzò lo sguardo, ma sul suo volto non apparve alcuna espressione stupita. Che sapesse già da prima, della presenza del ribelle? O semplicemente sapeva che, presto o tardi, si sarebbero incontrati?

"Romano..."

Le vesti del più giovane, oramai ridotti a stracci dalla fatica della rivolta, erano sporchi di polvere mista a sangue. Gli occhi, quei begl’occhi color ambra, erano ora carichi di rancore e odio. Com'era bello, anche ridotto in quello stato!

" Voi... Troppo a lungo avete sfruttato il mio popolo. Lo avete soggiogato e spremuto fino all'osso, derubandoci della nostra amata libertà. Siamo stanchi di sottostare alle vostre assurde richieste. E' giunta ora della ribellione. Io, e tutto il popolo, vi faremo patire le nostre stesse sofferenze, i soprusi sui quali avete rafforzato il vostro impero! "

Il respiro era affaticato dalla ferita che, a giudicare dalla macchia che il sangue gli aveva lasciato sulla camicia, doveva essergli stata inferta di recente. Ma la fierezza che in quel momento provava era tangibile: Stava combattendo con tutte le sue forze, come chi oramai non ha più nulla da perdere.
Alzò il braccio, la mano ben stretta al manico di un lungo coltello, rubato a chissà quale soldato. Con le forze che gli erano rimaste si lanciò all'attacco contro il nemico, ma questo riuscì a schivare i colpi senza problemi, difendendosi con la spada.

" Combatti, bastardo!"

Aveva appena proferito queste parole, che le gambe si rifiutarono di sottostare alla volontà del ragazzo; le ginocchia cedettero, e lui cascò a terra. Cercò di rialzarsi, inutilmente. Le aveva affaticate troppe, ignorando ripetutamente le fitte di dolore, e aveva perso troppo sangue. Si morse il labbro inferiore, non volendo credere a quell'assurda situazione nella quale si era cacciato. Sarebbe dunque morto così? Come un qualunque idiota non in grado di riconoscere i propri limiti?
Preso dalla disperazione, iniziò a singhiozzare rumorosamente, incurvandosi sugli arti inferiori e stringendosi a sé. Era debole, troppo debole, per affrontare la tirannia nemica. Lo sapeva fin troppo bene, ma ammetterlo era ancora più doloroso per lui, così testardo e superbo. Gli sarebbe piaciuto provare l'esperienza di essere veramente liberi, indipendenti dal controllo altrui.
Improvvisamente, come ricordandosi della presenza nemica, si bloccò e lo sguardo saettò in avanti. In piedi, a circa un metro di distanza, il nemico lo guardava. Aveva ancora la mano ben stretta intorno alla propria arma, pronto a reagire in qualsiasi momento. Tuttavia non dava segno di voler attaccare. Se ne stava lì, immobile, aspettando. Si guardarono negli occhi, in silenzio. L'espressione dello spagnolo era indecifrabile: Non c'era né odio, né rimprovero; forse un velo di rammarico. Romano l'avrebbe preso a schiaffi, se solo avesse avuto le forze necessarie.
Tentò di non abbassare lo sguardo, poiché sarebbe stato un gesto di sottomissione fin troppo imbarazzante, ma gli risultava ridicolamente difficile. Puntò gli occhi altrove, parlando con il suo solito tono seccato.

" Che fai? Se vuoi uccidermi fallo, ma piantala di fissarmi."
" E se non volessi?"
" Cos'è, sfotti?"
" No. Sono serio. Ti sto offrendo un'ultima possibilità. Arrenditi, Romano. "

Sputò un fiotto di sangue a terra. Probabilmente lo spagnolo aveva intenzione di risparmiarlo per mostrare ai suoi compaesani, in seguito, la punizione che un ribelle meritava. O forse aveva altri progetti in mente, che l'italiano non immaginava.
Romano non rispose, i pensieri si affollavano nella sua testa. Aveva paura di morire, e se avesse accettato di sottostare agli accordi del nemico avrebbe avuto salva la vita; ma non voleva tradire i propri ideali, gli stessi per i quali molti suoi compagni avevano dato la vita.

"... No."

La fredda lama dello spagnolo lo sfiorò appena. Antonio si chinò e si avvicinò a lui, serissimo. Era a pochi centimetri dal volto dell'italiano.

" Ascolta. Questo non è un gioco. Qui la gente muore, come vedi. Se vuoi salvarli, questa è l'ultima possibilità. Por favor..."

L'ultima frase fu pronunciata come una supplica. In fondo, forse, Antonio voleva ancora bene a quel ragazzo di cui si era preso cura per tanti anni... Ma Romano era fin troppo orgoglioso e testardo per
cambiare idea, e sentiva la responsabilità di coloro che speravano di portare la giustizia nelle città sotto il giogo straniero.

“so che non è un gioco. Non trattarmi come un bambino. Non cambierò la mia posizione.”
“ ...e sia.”

L'iberico si rialzò in piedi, indietreggiando di qualche passo. Teneva ancora l'arma impugnata, ma non avrebbe attaccato finché l'avversario non fosse stato pronto.
A fatica, Romano si alzò, arma alla mano. Non aveva intenzione di sprecare ancora tempo prezioso, non quando avrebbe potuto riposare dopo essersi sbarazzato di Antonio.
Partì all'attacco, ma i colpi che sferrava erano deboli, e lo spagnolo li parava senza fatica.
Fece uno sforzo in più, forse troppo, e le gambe gli cedettero. La vista gli si annebbiò. Chiuse gli occhi e cadde a terra, svenuto.

[…]

Romano sollevò lo sguardo. Si era appena svegliato, e non aveva idea di come fosse arrivato li', appena fuori dalla città. Sicuramente era stato Antonio, per poi tornare a sedare i rivoltosi, come gli era stato comandato. La città era a pezzi, come gli animi della gente.
Il corpo del ragazzo era coperto di ferite, che bruciavano a contatto con il vento e la polvere trasportata da esso. Quella che gli procurava più dolore l’aveva nel petto, ma non visibile all’occhio umano. Sentiva un nodo alla gola, come se delle mani invisibili gli cingessero il collo. Gli mancava l’aria e aveva un gran mal di testa. La conosceva bene quella sensazione, eccome. Rabbia, mista a umiliazione.
Odiava sentirsi così; avrebbe voluto gridare la sua rabbia, ma sapeva che, anche solo per sfogarsi, non sarebbe valso a nulla, soprattutto nelle condizioni in cui si trovava.
Seduto con la schiena poggiata a un tronco, non riusciva a fare nessun movimento. Desiderava solo chiudere gli occhi e sperare che, una volta riaperti, quel macabro spettacolo fosse sparito. Sapeva che tuttavia non sarebbe andata così: la verità, che crudele gli si presentava dinanzi, era che non erano stati in grado di sostenere la rivolta, subendo così una violenta repressione che, se lo sentiva, era solo l’inizio di una serie di catastrofi. Messina era stata privata di tutto, i ribelli puniti. Cos’altro sarebbe potuto accadere? Avrebbe preferito non trovare la risposta a quella domanda.
Chiuse gli occhi. Era stanchissimo. Stanco di tutto. Persino i pensieri sembravano trascinarsi a fatica nella sua mente.
La città bruciava; avrebbe dovuto fuggire, ma le gambe, coperte di sangue, non avevano la forza necessaria. Tossì un paio di volte, sentendo in bocca il sapore ferroso del sangue. Le braccia si rilassarono, e tutto parve tacere.



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nota:

*si tratta di una storpiatura di monsieur.
 
  
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