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Autore: Arepo Pantagrifus    06/09/2014    0 recensioni
“L’uomo, nato da donna,
breve di giorni e sazio di inquietudine,
come un fiore spunta e avvizzisce,
fugge come l’ombra e mai si ferma.”
GIOBBE 14, 1-2
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Con la nuova tecnologia delle armi distrussi e ricostruii il mondo a mia immagine e somiglianza. Arrivò il tempo di porre l’uomo, forte e potente, nel trono di Dio e deporre le antiche divinità corrotte. L’uomo, l’uomo, l’uomo perfetto e immortale! Solo nell'uomo nuovo si avrebbe potuto riporre la fiducia per costruire il futuro dell’umanità intera! Un uomo creato apposta per eseguire i miei ordini con inflessibile rigore e spietatezza. L'uomo corrotto e sterile doveva essere eliminato, decimato, per lasciar spazio alla nuova generazione, la nuova specie per dominare sui deboli popoli del mondo. Passarono anni, decenni, secoli, millenni. Feci accrescere sempre di più il mio potere e divenni il padrone di tutto: pensai addirittura di essere felice. Ebbi ogni cosa: donne, ricchezze, lusso, potere, ma soprattutto salute. Bastava che pronunciassi un desiderio e presto era esaudito. Scienziati crearono le peggiori macchine di tortura solo per il mio divertimento. Raggiunsi l’apice della magnificenza e grandiosità, fui guardato da tutti con terrore e rispetto, e non esistette mai un uomo che osò contraddirmi. L’umanità fu e rimase per il resto della sua breve vita nelle mie mani. Spianai le disuguaglianze tra gli uomini, tra le razze, plasmai l'uomo nuovo: una nuova razza umana. Creai sulla Terra un unico popolo, un’unica nazione, con le stesse leggi e le stesse idee, con un unico e potente esercito in grado di radere al suolo qualsiasi regione della Terra. Costruirono templi e palazzi in mio nome. Fu eretta una capitale di meraviglie , costruzioni portentose di tecnologia e di scienza, con colonne in marmi pregiati, pietre, ori e stoffe esotiche. Una nuova capitale per un nuovo impero!

Furono anni di pace e prosperità, ma provai più che mai la sensazione che le generazioni mi passassero tra le dita come acqua. Una dopo l’altra si susseguirono senza lasciar traccia: miliardi di impronte spazzate dalle onde del tempo. Neanche il ricordo tramandato bastava a contarne il numero; ed io sempre sopra di loro con il pane e con la forca. Sembrava che mentre io guardavo le opere della mia città, mi passassero davanti mille fantasmi, che poi sparivano per farne ricomparire altri, senza interruzione: una scia interminabile di anonime apparizioni. Diventai uno spettatore delle ridicole vicende umane, per contare poi le lapidi nei cimiteri. Mi stupii di quanto l’uomo si logorasse nel cercare di vivere. Sempre con qualcosa da fare, sempre in movimento, sempre in cerca di qualcosa. Qualcosa che lui ambiva con tutte le sue forze. Qualcosa che non trovava mai, ma che fingeva di conoscere. Eppure lui credeva di vivere. Ma forse la vita non la conosce nessuno. Viviamo per morire e moriamo guardando la nostra vita riempita di ipocrisie e stoltezza. Neppure io saprei che cos’è la vita; io che di vite ne ho viste tante… La vita era sempre destinata a morire.

Un giorno chiamai in udienza un gruppo di saggi e sapienti, per chieder loro: «Che cos’è la morte?» Dopo sette giorni di interrogazioni e dotte consultazioni, mi risposero che non erano in grado di darmi una risposta precisa e tutti i loro sforzi e i tentativi di rispondermi rimanevano vaghi e inconcludenti. Li feci giustiziare il giorno seguente, e ordinai ai miei servitori di portarmi il primo povero mendicante che avessero trovato fuori dal palazzo. Quando me lo presentarono gli chiesi: «Dimmi, che cos’è per te la morte?» Lui subito mi rispose: «La morte è un sollievo dalle sofferenze della vita. Tante volte l’ho invocata, ma quella non mi ha voluto ascoltare, quindi eccomi, costretto a mendicare per le strade della città.» Mi piacque tanto la sua risposta che lo nominai consigliere e lo riempii di ricchezze. Al contrario degli uomini di scienza lui seppe darmi la risposta migliore, perché, onesto e paziente, aveva imparato direttamente dalla sua esperienza, e venne premiato.

I contadini piantarono semi, i germogli crebbero e diventarono alberi, foglie dopo foglie, inverno dopo inverno, gli alberi maturarono di volta in volta i loro frutti, seminarono nuovi germogli, fino a quando i tronchi non si inaridirono, e non vennero tagliati per il focolare. Così passarono gli anni.   
Eppure i figli dei figli diventarono come più deboli, esitanti ed inaffidabili. Cominciò a mancare l’iniziale decisione e vigore nella difesa degli ideali dell’Impero. Serpeggiò il malcontento nella popolazione, soprattutto nei ceti più umili e poveri. Una ad una insorsero diverse nazioni, si ribellarono e crearono uno schieramento opposto all’Impero. L’esercito eliminò queste nazioni, ma le lotte e gli scontri si moltiplicarono in tutto il mondo. Anche l’efficienza dell’esercito imperiale cominciò a venir meno. In tutta la Terra si verificarono sommosse, battaglie, guerriglie urbane e disordini. Componenti dell’esercito abbandonarono i ranghi per andare a difendere i ribelli e rifornirli clandestinamente di armi e munizioni. Il più grande e potente impero che la Terra avesse mai visto si stava logorando in terribili guerre civili. Le nubi della rovina si stavano affacciando all’orizzonte presagendo l’imminente tempesta e oscurando, così, la splendente luce di verità creata dagli uomini, ovvero da me! Si accesero cruente e violente insurrezioni da parte di povera gente, e da stati che imploravano liberà. Ma non capivano che io li avevo liberati dalla malvagità. Avevo aperto loro gli occhi. Li avevo costretti ad aprirli. Avevo donato loro la vera libertà! Erano solo degli ingrati! Irriconoscenti! Dopo la gloria era questo il modo in cui mi ripagavano? Non avrebbero saputo neanche immaginare il mondo se non ci fossi stato più io! Non potevano, o se l’erano dimenticato…

Si sterminarono da soli, come tante piccole formiche: assistetti alla morte della civiltà. La Terra e l’intera popolazione mondiale non si riscossero più dalle continue e insistenti devastazioni e bombardamenti a cui erano stati soggetti. La gloriosa età d’oro venne pian piano dimenticata o ricordata come una leggenda: un sogno lontano e mai più realizzabile. Le città si ridussero drasticamente, iniziando così il declino e lo sprofondamento dell’umanità in un’era cupa, di ignoranza e povertà. I popoli si ridivisero e ricominciarono a farsi guerra tra loro per sciocche e stupide motivazioni. Ma per quanto impegno ci mettessero, le nazioni rimasero ingovernabili, perché l’uomo, abituato com’era ad essere comandato, aveva dimenticato come si dirigeva e come veniva organizzato uno Stato. Questi regimi diventarono sempre più piccoli e sempre più numerosi, finché non si arrivò al punto che ogni città si autogovernava, alla meno peggio. Non esistettero più nazioni ma infinite singole comunità. Queste si chiusero se stesse recidendo più rapporti possibili con l’esterno e recuperando fantasiose usanze magiche e pagane. Anno dopo anno, lentamente, come agonizzando, l’umanità si disperse, ed io venni dimenticato. Rimasi a vivere nella solitudine del mio palazzo, trasformato in un oscuro ed inaccessibile castello, e lontano da ogni centro abitato. I cittadini, quelli rimasti, si raccolsero in piccoli villaggi, dove praticarono l’agricoltura e l’allevamento, e dove, ogni tanto, passava qualche compagine di soldatacci e vagabondi in cerca di cibo e donne, depredando e razziando ogni abitazione. Con il passare delle stagioni la Terra fu percorsa da numerose popolazioni nomadi, che erravano di paese in paese. Gli ultimi uomini vagarono in steppe dove millenni prima sorgevano splendide città, in deserti dove secoli prima si coltivavano i più diversi raccolti, in paludi dove anni prima c’erano prati verdi e foreste. Sparuti gruppi di cacciatori nomadi inseguivano i branchi di animali selvatici per cacciarli con rudimentali lance e frecce. L’ultima volta che incontrai personalmente un uomo, o forse qualche suo successore, mi trovai davanti un rozzo selvaggio: straccione, peloso e privo di ogni cura personale.
Non sopportai oltre tale vista. A questo, dunque, era destinata l’evoluzione?

Gli uomini sopravvissero in simili maniere, cibandosi di bestie selvatiche e dei frutti raccolti, gruppi familiari allargati, che si spostavano appena se ne sentiva l’esigenza, finché una straordinaria unione di condizioni climatiche, eventi catastrofici e fenomeni naturali di eccezionale intensità causarono un periodo di terribili difficoltà. Si stava verificando, secondo il loro prevedibile ciclo, l’ennesima glaciazione: i ghiacciai delle due calotte polari si espansero tanto da occupare quasi metà dell’intera superficie terrestre. Inverni rigidissimi e quasi eterni, estati brevi e di un calore irrisorio. Mi rifugiai nei bunker sotterranei del mio palazzo, che, a suo tempo, avevo fatto opportunamente attrezzare per ogni tipo di evenienza. Qui vissi secoli senza più vedere la luce del Sole, procurandomi autonomamente l’energia necessaria, grazie a sofisticati macchinari tecnologici. Anni di solitudine forzata, in cui mi si rifecero avanti paure, riflessioni, pensieri e ricordi. Anni di riflessioni, ripensamenti e nuove meditazioni, che si fecero lentamente largo nella mente.

   
 
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