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Autore: Ekaterina Belikova    07/09/2014    0 recensioni
Dal testo:
"La prima volta che ti ho vista stavi imprecando contro Adrian per non so quale motivo. Eri così piccola, ma avevi un bel caratterino e sapevi tirare dei calci micidiali. Sai qual è la prima cosa che ho pensato? “Cazzo, è perfetta!”
E lo eri davvero con quei capelli lunghissimi, il viso da bambola di porcellana spruzzato di lentiggini con le guance naturalmente tinte di un delizioso rosa pesca, le labbra così rosse e piene, da sembrare imbrattate di sangue, che continuavi a torturare con i denti e quella felpa che di sicuro non era della tua taglia.
Poi è successa una cosa assurda: hai alzato la testa e mi hai guardato con quegli occhi a metà tra il grigio e l’azzurro. Sei arrossita, ma non accennavi a distogliere lo sguardo."
Avevo voglia di venire da te e baciarti fino allo sfinimento, fino a restare senz’aria nei polmoni, fino a farti sanguinare quelle labbra perfette.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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People fall in love in misterious ways


 
Los Angeles, Aprile 2011
 
Quel giorno d’inizio aprile ero contenta, nonostante la discussione avuta a scuola con una compagna alquanto irritante, e mi sbrigai a tornare a casa. Salii di corsa le scale fino al secondo - e ultimo - piano del palazzo nel quale abitavamo da poco più di due settimane e infilai le chiavi nella serratura facendola scattare e aprendo la porta. La casa era in fermento a quell’ora perché i miei genitori erano tornati a casa per pranzare e il mio vivace fratellino di sette anni aveva finito la scuola solo mezz’ora prima. Lasciai le chiavi sopra il mobiletto accanto alla porta, appesi la felpa all’attaccapanni e buttai lo zaino sul divano del soggiorno prima di entrare in cucina - attirata da un delizioso profumino - e salutare la mia famiglia.
Dopo un ottimo pranzo, qualche battibecco con mio fratello e le solite frasi - “com’è andata a scuola?”, “hai preso qualche voto?”, “Michael, mangia composto!”, “Nina, mangia di più!” – mio padre tornò a lavoro, la mamma andò a riposare in camera sua, Mikey monopolizzò la televisione in salotto per guardare un nuovo episodio di “Ben Ten” e io mi chiusi in camera mia.
Nonostante abitassimo lì da poco tempo, avevo avuto il tempo e la voglia di arredare quei metri quadri per rendere tutto più mio. Alle pareti avevo appesi poster, immagini prese da internet che mi avevano particolarmente colpita e una stampa del “Bacio” di Klimt; sulla bacheca c’erano delle fotografie scattate con i miei amici e con i nonni l’estate precedente; la scrivania era piena di libri, quaderni, penne, post-it colorati, il pc per il quale avevo risparmiato per mesi e un sacco di altre cose; la libreria straboccava di libri di ogni genere e non riusciva a contenerli tutti dato che avevo altri due scatoloni in un angolo della stanza che contenevano quello che più avevo di prezioso; il letto era sfatto - come sempre dato che al mattino ero sempre in ritardo e se avessi anche rifatto il letto sarei arrivata a scuola per le dieci - e la maglia extra-large che usavo come pigiama era abbandonata sul bordo del materasso.
Lasciai lo zaino, precedentemente recuperato dal divano, sulla sedia e iniziai a riordinare un poco la stanza. Per quanto potessi essere disordinata - l’ordine nel mio armadio durava al massimo due settimane - non sopportavo che la mia stanza fosse troppo caotica. Indossai una vecchia tuta, legai i capelli in una coda leggera e mi buttai sul letto a leggere il libro che avevo acquistato il giorno prima.
Verso le quattro del pomeriggio, mentre ero completamente immersa nella lettura, la porta della camera si aprì di scatto. Non alzai, però, lo sguardo dalla pagina sulla quale ero concentrata.
“Hey, Nina!” La voce allegra di mio cugino Adrian rimbombò nella stanza. “Su, alzati da qui che usciamo.”
Sbuffai lanciandogli un’occhiataccia e, “non vedi che sto leggendo!”, esclamai infastidita. Lui alzò gli occhi al soffitto e mi afferrò per la caviglia destra cercando di tirarmi giù dal letto.
“Va bene, ho capito, vengo!” urlai prima che potesse farmi cadere, ne sarebbe stato sicuramente capace, provocandomi anche qualche livido. Mi alzai dal letto e lo guardai per un paio di secondi con il sopracciglio inarcato.
“Che c’è?” chiese.
“Devo cambiarmi, esci!” risposi indicando con un cenno la porta aperta.
“Oh, andiamo, ti ho vista nuda un sacco di volte. Abbiamo persino fatto il bagno insieme!”
“Sì, quando avevo due anni e tu quattro. Esci da qui, Adrian!” Lo spinsi fuori e chiusi la porta dietro di lui.
Indossai un paio di jeans, una felpa gigantesca e comodissima blu cobalto e infilai il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni. Lanciai un’ultima occhiata dispiaciuta al libro che avevo dovuto abbandonare per colpa di quel cretino palestrato. In quel momento avevo voglia di mandare mio cugino a farsi fottere per restare a casa a leggere, ma non sapevo che, anche a distanza di più di tre anni, lo avrei ringraziato di cuore per averi trascinata con lui quel pomeriggio.
 
Eravamo andati nel luogo di ritrovo di Adrian e dei suoi amici, un parco isolato di Los Angeles che sembrava uscito da uno di quei film sulla droga. In effetti, alcuni di loro – molti -, erano strafatti a qualsiasi ora del giorno e della notte, ma erano quasi tutti simpatici.
Mi appoggiai ad una vecchia quercia, con le mani affondante nelle tasche della felpa, e un’espressione non proprio amichevole sul viso. Ero concentratissima a lanciare maledizioni su Adrian che mi aveva prontamente mollata in un angolo da sola per provarci con una biondina mai vista prima. Avevo una stramaledetta voglia di avadakedavrizzarlo o qualcosa di simile. Tornò da me dopo una decina di minuti per chiedermi se, più tardi, mi sarei scocciata di tornare a casa da sola. Non resistetti più e scoppiai: “Se mi scoccio a tornare a casa da sola dopo che tu mi hai obbligata a venire qui per poi vederti che ci provi con quella cosa che sembra uscita da una confezione delle Barbie!? Certo che mi scoccio, razza di stupido rimbecillito!”
Adrian mi guardò sorpreso per qualche secondo, a bocca aperta e sbattendo le ciglia un po’ più velocemente del normale. A quel punto avrebbe dovuto chiedermi scusa, ma, conoscendolo molto bene, disse proprio quello che mi aspettavo: “Hai le tue cose, cugina?”
Sbuffai e imprecai contro di lui a voce piuttosto alta - ormai tutta l’attenzione era su di me – per poi, tirargli un calcio negli stinchi. Devo ammettere che in quel colpo ci misi tutta la forza di un piccolo puffo di quarantacinque chili, alto un metro e cinquantotto. Detto così non sembra molta, ma lo feci piegare dal dolore e sul mio viso si dipinse un sorriso divertito e soddisfatto.
“Piccola stronza!” borbottò lui cercando di rialzarsi. Intorno a noi sentivo le risate degli altri.
“Così impari!”
In quel momento, alzai gli occhi e il mio sguardo fu catturato da qualcosa - o, meglio, qualcuno – dall’altra parte del vialetto che mi guardava con un meraviglioso sorriso divertito. Fu lì che lo vidi per la prima volta. Capelli castano chiaro eternamente scompigliati dal vento o dalle sue mani, occhi di un’incredibile sfumatura di verde, il fisico asciutto era fasciato da un paio di skinny jeans neri, una leggera maglietta dei “Green Day” e una giacca di pelle, fra le labbra una sigaretta mezza consumata, in mano teneva una bottiglia di birra ed era terribilmente alto, a occhio e croce, almeno un metro e novanta, forse di più. Non riuscii a fare a meno di pensare “è fottutamente perfetto!”
Quando mi resi conto che lui mi guardava per davvero, arrossii come una scolaretta, cosa che - in effetti - ero, ma non distolsi gli occhi.
 
 
 
La prima volta che ti ho vista stavi imprecando contro Adrian per non so quale motivo. Eri così piccola, ma avevi un bel caratterino e sapevi tirare dei calci micidiali. Sai qual è la prima cosa che ho pensato? “Cazzo, è perfetta!”
E lo eri davvero con quei capelli lunghissimi, il viso da bambola di porcellana spruzzato di lentiggini con le guance naturalmente tinte di un delizioso rosa pesca, le labbra così rosse e piene, da sembrare imbrattate di sangue, che continuavi a torturare con i denti e quella felpa che di sicuro non era della tua taglia.
Poi è successa una cosa assurda: hai alzato la testa e mi hai guardato con quegli occhi a metà tra il grigio e l’azzurro. Sei arrossita, ma non accennavi a distogliere lo sguardo.
Avevo voglia di venire da te e baciarti fino allo sfinimento, fino a restare senz’aria nei polmoni, fino a farti sanguinare quelle labbra perfette.
 
 
 
 
 
Santa Monica, due settimane dopo
 
 
Due settimane. Quattordici giorni.
Era il tempo passato da quando avevo visto per la prima volta Lucas Thompson - sapevo il suo nome e altre cose su di lui grazie ad Adrian - in quel parco dimenticato da Dio.
Lucas aveva diciassette anni, era al terzo anno di liceo e frequentava la Lincoln High School, la scuola dei ricconi snob e viziati. Il mio adorato cugino, che era diventato la mia principale fonte di informazioni, aveva detto che era un ragazzo normale, alla mano che andava d’accordo con tutti quelli del loro gruppo, nonostante la scuola in cui andava e la famiglia dalla quale proveniva.
Avevo passato quei giorni a sperare di rivederlo, ma avevo avuto un litigio piuttosto violento, del quale erano testimoni il mio labbro spaccato e il richiamo disciplinare ricevuto dal preside, con una ragazza del terzo anno. Secondo quell’oca patentata, avevo guardato il suo ragazzo, un giocatore di football grosso come un armadio con il cervello delle dimensioni di una nocciolina, così aveva deciso di affrontarmi nel bel mezzo della mensa rivolgendomi parole poco carine. Non avevo reagito subito, ma quando mi aveva afferrata per i capelli le sono saltata addosso e se l’è prese di santa ragione, nonostante fosse più grande.
Grazie a quella stupida, mi ero beccata una punizione dai miei genitori, fatto che accadeva molto di rado, all’incirca una volta ogni dieci anni. Perciò, non avevo più avuto la possibilità di uscire, andare con Adrian al parco e, di conseguenza, rivedere Lucas.
Quel giorno, il primo dalla fine della punizione, andai a Santa Monica con i miei amici. Il nuovo ragazzo di Stephanie, Jace, aveva la patente quindi potevamo andare in macchina fino a lì.
Mentre Ronnie, Michelle, Alex, Stephanie e Jace giocavano a beach volley schiamazzando, me ne stavo stesa sul mio telo da spiaggia a leggere, un libro diverso da quello di due settimane prima. Non ero rimasta in costume da bagno perché non avevo la minima intenzione di fare il bagno né di prendere il sole. Penserete che fossi un’assurda sfigata asociale, ma amavo leggere e, ormai, i miei amici si erano rassegnati a quei comportamenti.
Spostai dietro l’orecchio una ciocca che mi era finita sugli occhi e alzai la testa dalla pagina per dare un’occhiata in giro. A pochi metri da me c’era Lucas, il mio tormento negli ultimi tempi. Il mio cuore perse un battito appena incontrai quegli occhi meravigliosamente verdi e sprofondò quando vidi che teneva per mano una ragazza davvero bella. Ci guardammo per un tempo indefinibile poi, Lucas si voltò verso la ragazza e le disse qualcosa. Lei fece una smorfia e se ne andò dopo pochi alquanto infuriata. Lui tornò a guardarmi e mi sorrise o, forse, era la mia immaginazione.
Avrei voluto alzarmi e andare lì, ma non sapevo che cosa avrei potuto dirgli. Non ci eravamo mai parlati e avrei fatto la figura della stupida ragazzina illusa.
“Nina” sentii la voce di Alex, il mio migliore amico a quei tempi, chiamarmi. Mi voltai controvoglia verso di loro, distogliendo gli occhi da Lucas, per vedere che cosa voleva. “Vieni a giocare con noi.”
Annuii. Quando girai nuovamente la testa, lui non c’era più.
 
 
La seconda volta che ti ho vista eri con i tuoi amici a Santa Monica, due settimane dopo il nostro primo incontro. Stavi stesa sulla spiaggia con il naso affondato in un libro, come sempre. Anche quella volta ci siamo guardati, ricordi? E i tuoi occhi mi hanno portato ad abbandonare la ragazza con cui ero uscito circa tre secondi dopo aver incontrato quel mare in tempesta.
 
 
Nina’s room, 5 maggio 2011
 
Passò un’altra settimana e mezza da quel giorno a Santa Monica e non rividi più Lucas Thompson, nonostante fosse ancora fisso nella mia mente e mi fossi, ormai, arresa al fatto di avere una cotta per lui. Avevo raccontato tutta la storia ad Alex e Ronnie e loro mi avevano fatto capire quello che provavo. Non era amore, figuriamoci, sarei stata sciocca a pensarlo. Non ti conoscevo nemmeno perciò sarebbe stato assurdo pensare certe stupidaggini, ma ero indubbiamente attratta da te.
Quel pomeriggio non avevo molto da fare. Pioveva a dirotto e la mia scorta di libri era finita, quindi accesi il computer e andai sul mio profilo fake di Facebook. Era un profilo che avevo creato per poter fare amicizia con i fan della mia pagina ed era anche un posto dove potevo essere me stessa senza preoccuparmi del parere degli altri.
Avevo accettato l’amicizia di un certo Lucas Back off e lui mi scrisse in chat dopo alcuni miei commenti positivi nella sua pagina. Confesso che iniziai a parlare con soprattutto per il suo nome, ma in poco tempo entrammo in confidenza. Era simpaticissimo, riusciva sempre a strapparmi un sorriso, intelligente, gentile e adorava leggere. Una specie di ragazzo perfetto, insomma.
Gli confessai anche di avere una cotta per un ragazzo della sua età che aveva persino il suo nome, ma che ci eravamo guardati solo qualche volta.
 
Poi arrivò quel 5 maggio…
Ero sul fake a parlare con questa ragazza simpaticissima, intelligentissima che stranamente aveva il tuo stesso nome e la tua età. Quando entrammo in confidenza, mi disse di avere una cotta per un ragazzo col mio nome, ma che si erano guardati solo qualche volta. In quel momento capii, senza ombra di dubbio, che eri tu quella ragazza e che dovevo fare qualcosa per conoscerti davvero!
 
 
 
Somewhere in Los Angeles, 24 Dicembre  
 
Ero seduta sul bordo di un marciapiede, a gambe incrociate, e continuavo a fumare quella dannata sigaretta. Avevo scoperto che il fumo riusciva a calmare i miei nervi, anche nei momenti peggiori, e, anche se ero consapevole del male che poteva farmi, ricorrevo a quel metodo ogni tanto. Il cellulare aveva iniziato a squillare verso le quattro e aveva continuato finché, alle cinque passate, non lo avevo spento.
Avrei dovuto sentirmi a pezzi, distrutta, ma l’unica cosa che provavo era sollievo. Come se mi fossi tolta un enorme e pesantissimo masso che mi aveva impedito di respirare per mesi.
Sei mesi prima, alla fine di giugno, avevo conosciuto un ragazzo che sul momento mi era sembrato fantastico. Durante l’estate ci eravamo divertiti insieme e quando era iniziata la scuola scrivevo il suo nome sul bordo dei quaderni, da stupida adolescente qual ero.
Un mese prima, a novembre, avevo scoperto di essere l’altra!
Si era scusato dicendo che non riusciva a scegliere tra noi due, che non voleva far soffrire nessuno e gli concessi del tempo per decidere. Quel giorno, il giorno della Vigilia di Natale, uscii con lui per chiedere una risposta, non potevo più aspettare e sopportare di essere in una relazione composta da tre persone.
Gli diedi l’ultimatum chiedendogli di scegliere tra me e lei.
La sua risposta? La stessa di novembre. Ma erano tutte bugie perché gli piaceva prendersi gioco di noi, averci entrambe.
Così, per il mio bene e la mia felicità, presi la decisione al posto suo.
“Vai da lei. Non hai saputo scegliere, non ti sei accontentato e non voglio più essere un giocattolino nelle tue mani. Continua a giocare con lei, ma con me hai finito. Non voglio più vederti, abbiamo chiuso d’ora in poi!”
Jason, questo era il suo nome, cercò di convincermi a restare con le buone. Ma, quando vide che persistevo nella mia scelta, si arrabbiò come un bambino a cui hanno rubato il giocattolo. Provò a colpirmi, senza troppi risultati. Se ne andò incazzato e da allora non lo vidi più per mesi.
Da quando avevo iniziato a uscire con lui non leggevo più, non scrivevo più, a scuola andavo sempre peggio e avevo spesso litigato con i miei genitori e i miei amici più cari per colpa sua. Jason aveva avvelenato tutto il mio il mondo, piano piano, e io glielo avevo lasciato fare!
 
Mi alzai in piedi, buttai a terra il mozzicone della sigaretta e lo calpestai con la punta delle Vans rovinate. Riaccesi il cellulare e constatai di avere una ventina di chiamate perse e sette messaggi, cinque dei quali da parte di Alex, uno di Ronnie e l’altro di Stephanie.
Mandai un messaggio ai miei per avvertirli che sarei tornata a casa in tempo per la cena con i parenti, uno a Ronnie e Stephanie per rassicurarle che stavo bene e, infine, un altro ad Alex.

Nuovo messaggio 05:48 p.m.
A: Alex <3
Sono libera!

Nuovo messaggio 05:49 p.m.
Da: Alex <3
Hai fatto bene. Tutto ok?

Nuovo messaggio 05:51 p.m.
A: Alex <3
Sì, vado a casa a farmi rimpinzare come un tacchino da mia madre. Ci vediamo più tardi per i regali.
 

Come sempre, Alex aveva capito che cos’era successo. C’era per me, in qualunque momento avessi avuto bisogno di lui. Mi consolava quando Jason faceva lo stronzo ed era pronto ad andare a prenderlo a pugni, mi faceva ridere quando scoppiavo a piangere…
Jason si era preso sei mesi della mia vita, mentendomi per tutto quel tempo e facendomi sentire uno schifo. Erano rari i momenti in cui mi faceva battere il cuore ed ero felice con lui, ma pensavo che fosse una cosa comune di tutte le relazione. Mi sbagliavo, invece!
 
Per tutti quei mesi, nei momenti peggiori, pensavo a Lucas Thompson e provavo a immaginare come sarebbe stato se al posto di Jason ci fosse stato lui. Non lo avevo più visto, ma - da quello che mi aveva detto Adrian – era uscito con un numero assurdamente alto di ragazze e tutte per una sola notte o anche meno.
Forse mi ero sbagliata sul suo conto, era solo un puttaniere. Bello, certo, ma un grandissimo stronzo!
 
Harrison High School, 21 Maggio 2012
 
Appoggiai la testa sulla superficie fredda e liscia del banco perché facevo un’immensa fatica a tenerla su. Era lunedì mattina e, come se questo non bastasse, eravamo anche alla fine di maggio - quindi quasi alla fine della scuola – il che significava un sacco di compiti in classe e interrogazioni di fine anno.
Alla prima ora c’era la professoressa Tate, l’insegnante di biologia, che si perdeva in chiacchiere inutili sul suo cane e sulle api che il marito allevava in giardino. Alex, accanto a me, era molto più sveglio e attento perché adorava quella materia e qualunque cosa avesse a che fare con la scienza, in quel campo era un vero e proprio secchione! La maggior parte delle volte faceva a gara con me per chi prendeva i voti più alti nelle interrogazioni della Tate. Lui cominciava a studiare come minimo una settimana prima, mentre io aprivo a malapena il libro, ma prendevo comunque almeno mezzo voto più alto di lui, a volte anche di più.
“Nina, mi spieghi come diavolo fai a prendere sempre più di me se durante le lezioni dormi e a casa apri il libro una volta ogni tre mesi?” chiese lanciandomi un’occhiataccia.
Continuai a tenere il capo poggiato sulle braccia e feci spallucce: “Sarà il fatto che sono un fottuto genio.”
“Pure fottutamente modesta” rispose ridacchiando. Ovviamente gli dispiaceva un po’ prendere sempre voti più bassi dei miei, ma non se la prendeva con me.
“Mi viene naturale” dissi con un sorriso.
“Così come ti viene naturale prendere voti alti in inglese, matematica, storia, francese e tutte le altre materie. C’è qualche materia in cui hai meno di A?”
“Sì, ginnastica. Sai che io e lo sport siamo nemici mortali.” Alzò gli occhi al soffitto per la mia risposta.
 
Alle quattro del pomeriggio, dopo un’interrogazione di chimica e due verifiche, ero fuori da quell’edificio che mi risucchiava l’anima. Alex era rimasto per gli allenamenti di basket e - per quanto riguardava, Ronnie, Stephanie e Michelle - ultimamente erano troppo impegnate con i loro nuovi ragazzi e si erano improvvisamente dimenticate di avere degli amici.
Sistemai meglio lo zaino sulla spalla destra e uscii dal cortile affollato guardando con odio una fastidiosa macchia sulle mie scarpe. Impegnata com’ero, non avevo guardato dove mettevo i piedi ed ero finita addosso a qualcuno. Qualcuno che mi aveva impedito di cadere e sfracellarmi a terra afferrandomi per un braccio.
“Mi dispiace” mormorai alzando gli occhi su di lui. Ci misi un bel po’ perché era dannatamente alto, ma alla fine incontrai un paio d’occhi di un indefinibile verde che mi guardavano e il mio cuore sprofondò, perdendo qualche battito. Quel qualcuno era proprio Lucas Thompson.
“Tranquilla, Sam” rispose. Lo guardai stupita, inarcando il sopracciglio, perché quello non era di certo il mio nome. Aveva i capelli leggermente più lunghi e più disordinati dell’ultima volta che l’avevo visto, un accenno di barba e un sorriso ancora più meraviglioso di quanto ricordassi.
“Non mi chiamo Sam” dissi.
Sorrise nuovamente, credo stesse cercando di uccidermi! “Lo so, ma non avevo idea del tuo nome e continuavo a pensarti da quella volta al parco, quando hai preso a calci Adrian, e dovevo smettere di chiamarti la-ragazza-del-parco. Mi sembrava che Sam ti stesse bene.”
Durante la sua spiegazione avevo avuto almeno una quindicina di mini infarti dato che, non solo continuava a sorridere in quel suo modo meraviglioso, ma aveva anche detto che si ricordava di me a più di un anno dal nostro primo “incontro” e che mi aveva pensata in più di un’occasione.
“Nina” fu l’unica parola che riuscii a pronunciare.
“Come?”
“Il mio nome è Nina” specificai.
“Oh, che idiota, piacere Lucas” disse e tese la mano. Un altro sorriso mozzafiato. Gli strinsi la mano cercando di non fare figuracce e di non far trasparire tutto il mio disagio mentale.
“Lo so” risposi. Dio, che imbecille! Possibile che tu debba fare sempre fare il contrario di quello che le persone normali farebbero al tuo posto? Disse una vocina nella mia mente. Non potevo dare risposta più stupida di quella e ora mi avrebbe considerata una specie di maniaca o stalker o che so io. Ero fottuta!
Per fortuna, credo, non disse nulla e si limitò a fare una specie di ghigno dannatamente sexy, alzando un angolo della bocca. In quel momento il mio cervello mi aveva definitivamente salutata e le mie ovaie erano esplose.
“Ti va se ti riaccompagno a casa?” chiese stupendomi.
“Ehm, a dire il vero dovrei andare in un negozio a comprare un paio di CD.” Ok, devi essere dannatamente stupida o ritardata. ‘Sto gran figo, dietro al quale sbavi da un anno, ti chiede di riaccompagnarti a casa e tu gli dai una risposta del genere?!‘Fanculo i CD, dovevi dirgli di sì, razza d’imbecille! Di nuovo quella fastidiosa vocina, la voce della ragione, che tendeva a insultarmi pesantemente.
Notai qualcosa di simile alla delusione nei suoi occhi e mi affrettai ad aggiungere: “Se non hai di meglio da fare puoi venire con me.”
Sorrise. Non avrei mai potuto abituarmi a quei sorrisi e non volevo nemmeno farlo perché mi piaceva il modo in cui il mio corpo reagiva.
Da “Musica&Follie” il negozio in cui eravamo appena entrati c’era di tutto CD, strumenti musicali, felpe con stampe strane, piercing, roba per quei malati che si divertivano a evocare i demoni, borse, cappelli, parrucche e… vibratori. No, non è uno scherzo. Anche se non capivo ancora che cosa diavolo centrassero con tutto il resto.
Andammo nella sezione della musica e afferrai un CD dei “Maroon 5”, uno dei miei gruppi preferiti.
“Ascolti i Maroon 5?” chiese Lucas sorpreso.
“Come mai quel tono così sorpreso?”
“Pensavo ascoltassi un altro tipo di musica.”
“Solo perché ho quindici anni, sono un’adolescente e ho gli ormoni a mille non significa che debba piacermi Justin Bieber!” esclamai facendolo ridere.
Alzò le mani in segno di resa continuando a ridere: “Scusa.”
Facemmo un elenco dei nostri gruppi e cantanti preferiti, scoprendo di avere un sacco di cose in comune.
“I Green Day?” chiese ad un certo punto.
Feci una smorfia ed esitai un po’ a rispondere prima di dire: “Non mi piacciono.”
“Ma come? Ascolti un sacco di buona musica e pensavo di aver trovato la donna della mia vita, ma non ti piacciono i Green Day! Questo deve essere una specie di incubo.” Esclamò fintamente sconvolto e scoppiai a ridere.
“Ci ho provato ad ascoltarli un sacco di volte, dico sul serio, ma non sono mai riuscita a farmeli piacere.” Feci spallucce mentre Lucas continuava a guardarmi a bocca aperta.
“Non capisci un accidenti di musica, donna “disse dandomi le spalle e avviandosi verso la cassa. Scossi la testa divertita e lo seguii, con i due CD che avevo comprato stretti in una mano. “Ma se dieci secondi fa hai detto che ascolto buona musica?!”
“Dimentica quello che ho detto, il tuo è un sacrilegio. “
Alzai gli occhi al cielo, pagai quello che avevo preso e uscimmo entrambi dal negozio sotto il caldo sole californiano. Tolsi la felpa, infilandola nello zaino, e cercai di ravvivare un po’ i capelli un po’ troppo spettinati.
“Non eri rossa l’anno scorso” disse Lucas e mi accorsi che mi guardava con quel ghigno così… ok, niente pensieri perversi.
“La magia delle tinte!” ironizzai.
“Sei sexy.” Dopo quelle due parole la mia faccia assunse il colore della mia chioma e non riuscii più a sostenere il suo sguardo. “Anche quando ti imbarazzi e diventi tutta rossa.”
Ok, ha seriamente intenzione di farmi morire! Non può dire certe cose e aspettarsi che io riesca ancora ad articolare una sillaba o a respirare.
Mi morsi il labbro, pensando se alzare o meno lo sguardo, quando sentii le sue dita sotto il mento. Incontrai i suoi occhi verdi, che tanto amavo, e il suo sorriso che in quel momento racchiudeva una dolcezza infinita. “Non smettere mai di guardarmi negli occhi, Sam.”
Avrei dovuto dire qualcosa come “non ho intenzione di farlo” e invece, “non mi chiamo Sam” dissi.
Nina Mason, sei ufficialmente una ritardata mentale! Lo so.
“Mi piace chiamarti così, sarà il tuo soprannome d’ora in poi” rispose lasciando la presa sul mio mento.
 
a leggere il libro che avevo acquistato il giorno pr
Continuammo a camminare e ci ritrovammo nel parco dove ci eravamo visti più di un anno prima. Era già pieno di gente, gli amici di Adrian e Lucas. Andammo verso una panchina occupata da una ragazza bellissima dalla pelle color caffelatte, seduta sulle gambe di un ragazzo con i rasta, c’erano anche due ragazzi identici, la loro unica differenza era il colore dei capelli, uno ce li aveva color pece e l’altro di un fighissimo blu cobalto.
“Hey, amico, chi è questo schianto?” chiese uno dei gemelli, quello con i capelli neri. Alzai gli occhi al cielo e non feci in tempo a rifilargli una rispostaccia perché Lucas rispose: “Lasciala stare, Dallas, e questo vale per tutti!”
“Oh, quindi è roba tua!” esclamò il ragazzo con i rasta.
“Io non sono proprio di nessuno, ma dovete starmi lontani se non volete finire male.”
“Colpito e affondato!” Esclamò ridacchiando il gemello blu. “Io sono Drake.”
“Nina.” Drake era decisamente più simpatico di Dallas.
“Piacere di conoscerti, Nina. Sono Carmen e questo idiota è il mio ragazzo, Peter “disse la ragazza che aveva un marcato accento spagnolo.
“Vi consiglio di darle ascolto, tira dei calci pazzeschi.” Presero a ridere tutti quanti.
 
Passai il resto del pomeriggio in loro compagnia e constatai che erano delle persone simpaticissime, soprattutto Drake, e che Carmen e Peter si amavano in un modo incondizionato. Dopo Lucas mi aveva accompagnata a casa chiedendomi il numero di telefono e un appuntamento, un vero appuntamento, per quel sabato sera. Ovviamente accettai.
 
 
 
Il giorno dopo ritrovai Lucas ad aspettarmi davanti al cancello della scuola. Non feci in tempo a salutarlo perché si avvicinò a me, mi prese il viso fra le mani e mi baciò. Per qualche secondo restai paralizzati, senza sapere che cosa fare. Poi, quando realizzai che Lucas Thompson mi stava baciando, lì, davanti all’intera Harrison High School e che non era un sogno, ricambiai il bacio. Mi alzai sulle punte, afferrai la sua maglia e lo baciai come avevo sempre voluto fare, fin da quel giorno di aprile. Mi baciava in un modo incredibile, facendomi raggiungere il paradiso e l’inferno al tempo stesso, nessuno mi aveva mai baciata in quel modo!
Dopo un tempo infinito, ci staccammo per riprendere fiato. “Dio, avrei dovuto farlo un anno fa!” Esclamò Lucas baciandomi un’altra volta, a stampo.
“Ci saremmo risparmiati un bel po’ di casini e di tempo” dissi sorridendo, ebbra di felicità.
 
 
Venice Beach, Luglio 2012
 
Quella sera c’era una festa sulla spiaggia, a Venice, e Lucas mi aveva chiesto di andarci con lui e i suoi amici, che erano diventati anche miei. Alex mi aveva fatto venire l’ansia dicendo che un tipo come Lucas si sarebbe aspettato che “aprissi le gambe”, per usare le sue parole, quella sera. Non ne avevamo mai parlato e non aveva mai cercato di farmi fare qualcosa che non volessi, però per colpa di quel cretino del mio migliore amico andai nel panico e iniziai a prepararmi due ore prima.
 
Ero seduta a riposarmi - non avrei dovuto ballare così tanto! - su un tronco intorno al falò e alternavo lo sguardo tra le fiamme danzanti e Lucas che stava a qualche metro di distanza con Peter e Dallas. Aveva una birra in mano e rideva per qualche battuta fatta da uno degli altri due.
“Tu sei quella che sta con Lucas.” Voltai la testa e vidi una ragazza sedersi accanto a me. Aveva i capelli neri e liscissimi che le arrivavano fino alle scapole, il viso era pesantemente truccato e indossava un vestito inguinale.
“E tu saresti…” La guardai con un sopracciglio alzato. Il suo profumo era troppo forte e, se non mi fossi allontanata da lei, la mia allergia sarebbe venuta allo scoperto. “Olivia.” Che nome del cazzo, pensai.
“Che cosa vuoi?”
“Metterti in guardia su Lucas.” La guardai confusa e, visto che non rispondevo, continuò: “Tu sei solo una ragazzina e presto si stancherà di te perché non puoi dargli la cosa che ama di più, il sesso. E appena, ti scoperà ti lascerà, tesoro.”
Scoppiai a ridere, seriamente divertita dal suo patetico tentativo di mettersi tra me e Lucas e dalla sua palese gelosia. “Fammi indovinare, tu andavi a letto con lui.”
“Esatto e l’ho soddisfatto molto più di quanto tu potrai mai fare.” Sicura di sé e pure troia.
“Be’, tesoro, lascia che ti dica io una cosa adesso. Non sei la prima né l’ultima che cerca di dividermi da lui, ma nessuna di vuoi ci riuscirà. I vostri tentativi sono solamente patetici e inutili.” Le rivolgo un sorrisetto da stronza. “So com’era Lucas e che cosa faceva, ma ora è diverso e se lo conoscessi davvero così bene come credi non apriresti bocca. Ti do un consiglio, aspira a qualcosa di più nella vita e non a essere scopata nello squallido bagno di una discoteca.”
Sentii qualcuno applaudire alle mie spalle mentre Olivia mi guardava a bocca aperta. Drake, in piedi dietro di me, mi guardava divertito mentre batteva le mani.
“Come… ti…come di permetti, stupida mocciosa?” borbottò quell’oca.
“Sparisci, Olivia, ormai ti ha smerdata!” le disse Drake. Quella se ne andò stizzita e io mi alzai in piedi. “Troppo stronza?” gli chiesi. “Stronza al punto giusto, Nina.” Mise un braccio intorno alle mie spalle e mi condusse verso suo fratello, Peter e… Lucas.
“Non crederete mai a quello che ha fatto questa piccoletta.” Così, Drake, iniziò a raccontare quello che era appena successo con Barbie mora scatenando l’approvazione e le risate di Dallas e Peter. Lucas, invece, stringeva i pugni e aveva la mascella tesa, sembrava incazzato. Ci voltò le spalle e se ne andò. Se l’era presa per quello che avevo fatto?
“Ma che cazzo?!” mormorai e, liberandomi dalla presa di Drake, lo seguii arrancandogli dietro sulla sabbia. Lo chiamai un paio di volte, ma non accennava a fermarsi o a rispondermi. Accelerai il passo, lo superai e mi piazzai davanti a lui. “Mi spieghi che diavolo ti prende? Ti sei incazzato perché ho insultato la tua ex scopamica?” Mi guardo sorpreso e il suo sguardo si addolcì. “Sam, non sono arrabbiato con te, ma con lei per essersi permessa di dirti cose non vere!”
“Allora perché te ne sei andato?” chiesi tirando un sospiro di sollievo perché non ce l’aveva con me. “Per andare da lei e dirle di starti lontana. Non sopporto che qualcuno cerchi di portarti via da me perché non riuscirei a stare senza di te, mia piccola Sam!” Nemmeno io volevo stargli lontana, mai.
“Lucas, credo che per stasera sia stata umiliata abbastanza e poi, so cavarmela benissimo da sola.” Oppose un po’ resistenza, ma dopo averlo baciato si arrese. “Non ti lascerò mai per una di quelle troiette, Sam!” disse circondandomi la vita con le sue braccia e stringendomi più forte. “Sarà meglio per te” scherzai baciandolo di nuovo.
 
Nina’s room, Agosto 2012
 
“E ora che faccio?!” chiesi più a me stessa che a Drake e Carmen, i quali mi guardavano divertiti fare avanti e indietro nervosamente per la mia stanza. Avevo legato molto con loro dato che le mie amiche si erano dimenticate della mia esistenza e Alex si era trasferito con la sua famiglia in Iowa, andiamo chi è che lascia Los Angeles per andare in Iowa?! Aprii l’armadio e iniziai a frugarci dentro mettendolo più in disordine di quanto già non fosse e lanciando alle mie spalle i vestiti. “Che diavolo mi metto?”
“Chica, datti una calmata, che ti prende?” chiese Carmen. Presi un respiro profondo e mi voltai verso di loro. “Stasera Lucas vuole farmi conoscere la sua famiglia.”
“Cosa? Ma parliamo dello stesso Lucas?” Drake mi guardava con gli occhi spalancati e Carmen scese dal letto per venire verso di me. “Allora è una cosa importante, Nina, ti aiuto a scegliere cosa mettere.”
“Sai che Lucas non ha mai portato una ragazza a casa sua? Nemmeno per…” Drake fu interrotto dalla mia argentina preferita che gli rifilò un’occhiataccia. “Andrà tutto bene, chica, vedrai che ti adoreranno. Se vuole farti conoscere la sua famiglia significa che tiene molto a te.”
 
 
Santa Monica, Settembre 2012
 
Lucas e io stavamo passeggiando sul molo di Santa Monica, mano nella mano, parlando della scuola. Lui aveva finito il liceo l’anno prima e ora si era preso un anno sabbatico per capire che cosa fare dopo. Continuai a parlare del nuovo professore di letteratura quando fui interrotta dalle sue labbra che si posavano sulle mie. Sentii il sapore dello zucchero filato che avevamo mangiato in precedenza.
Si staccò da me, mi guardo negli occhi per un tempo interminabile e poi, pronunciò quelle parole: “Ti amo, Sam.”
Restai paralizzata, come la prima volta che mi baciò, ma mi riscossi solo quando lo sentii dire in tono supplichevole: “Dì qualcosa, ti prego!”  Avevo esitato troppo a rispondere perché dentro di me c’era un vero e proprio uragano di emozioni. Le mie labbra si piegarono in un sorriso che andava da un orecchio all’altro: “Ti amo, stupido.”
 
 
Lucas’ room, Dicembre 2012
 
Avevamo passato tutto il pomeriggio andando in giro per negozi per comprare i regali di Natale e ora eravamo nella stanza di Lucas, stesi sul suo letto a baciarci. Mi teneva stretta a sé come se volesse fondere il suo corpo con il mio e, in un impeto di passione, ci eravamo tolti entrambi le maglie.
“Voglio fare l’amore con te.” Lo avevamo detto all’unisono, guardandoci negli occhi.
Non c’è un’età per fare l’amore la prima volta, non importa se succede a quindici anni, diciotto, venti, venticinque o dopo il matrimonio. C’è un momento e una persona. Quello era il momento giusto e Lucas era la persona giusta.
 
 
Un negozio a Los Angeles, Giugno - Agosto 2013
 
Mi chiedevo quando sarebbe finito quello strazio. Da più di due ore continuavo a provare vestiti, uno peggio dell’altro per trovare quello giusto. Alla fine mi ero rotta le scatole e avevo lasciato il compito di trovare un abito adatto per le damigelle a Lena, la fidanzata del fratello di Lucas, e al resto delle ragazze. Andai dall’altra parte del negozio, nella parte maschile, dove Lucas e suo fratello Matt stavano scegliendo gli smoking.
“Chiedo asilo da voi!” dissi buttandomi a peso morto su una poltroncina. Lucas scoppiò a ridere seguito dal fratello. “Credo che tu sia l’unica ragazza a non essere fissata con queste cose.” Disse Matt ridacchiando.
 
Un’ora dopo uscii dal negozio insieme a Lucas e andammo a casa sua. Per sfuggire a sua madre, alla wedding planner isterica e a sua sorella Amy che era in fase ho-il-ciclo-statemi-lontani, ci rifugiammo nella sua stanza.
“Devo dirti una cosa” disse serio. Lo ascoltai mentre tirava fuori quella dannata lettera, mentre mi spiegava che sarebbe dovuto partire, mentre mi diceva che era necessario, che ci saremmo scritti e sentiti ogni giorno e che non aveva intenzione di lasciar rovinare la nostra relazione dalla distanza. Lo ascoltai mentre mi diceva che, dopo un anno sabbatico, aveva deciso di andare all’università per studiare letteratura, ma che sarebbe andato in Inghilterra, a Cambridge.
Quando parlai per la prima volta, erano passati più di quaranta minuti in cui lui mi pregava di dire qualcosa e io non riuscivo a fare altro che fissare con lo sguardo vuoto il muro dinanzi a me. “Non posso credere che mi lascerai qui da sola, non posso credere che tu non mi abbia detto nulla fino ad ora.”
“Sam…”
“Quando?” chiesi ancora senza guardarlo.
“Alla fine di agosto, dopo il matrimonio.” Mi alzai pronta ad andarmene da quella stanza e da quella casa. “La cosa peggiore è che lo sai da mesi, sono mesi che hai intenzione di andartene, e lo avresti fatto anche se non avessi perso il bambino e ora fossi incinta!”
Uscii da casa Thompson senza badare ai suoi richiami o a sua madre che mi chiedeva che cos’era successo. Quando arrivai a casa, e mi chiusi in camera mia, scoppiai a piangere versando tutte le lacrime che avevo trattenuto fino a quel momento.
 
 
Lasciai Lucas tre giorni dopo e lo evitai per il resto dell’estate. Ad agosto andai al matrimonio di Matt e Lena per fare il mio dovere di damigella d’onore, ma evitai di guardare lui per tutto il tempo della cerimonia. Non restai al ricevimento, non ero in grado di reggere e non ero in vena di festeggiare.
Il 29 agosto lo accompagnai all’aeroporto, lo avevo in parte perdonato, e la notte prima avevamo fatto l’amore per l’ultima volta, una sorta d’addio. Mi promise che avrebbe aspettato che io cambiassi idea perché mi amava e non aveva intenzione di stare con nessun’altra.
Piansi di nuovo appena se ne andò. Lo feci per mesi, persi una decina di chili, mi allontanai dalla sua famiglia, da Drake, Carmen, Dallas, Peter e tutto quello che mi ricordava lui. Dopo mesi passati a piangere e a deprimermi, ricominciai a frequentare le mie vecchie amiche, la mia vecchia compagnia e altri ragazzi. Conobbi Danny, che prese il posto che aveva occupato Alex in precedenza e lo adoravo perché non ci provava mai con me e sapeva tutto quello che era successo con Lucas. Uscii con un ragazzo per tre settimane, ma poi lo mollai perché non era… Lucas.
L’amore della mia vita era dall’altra parte dell’Oceano Atlantico.
 
 
Los Angeles, Agosto – Settembre 2014
 
-Martedì 26 Agosto
 
Stavo distesa sul letto cercando di non morire di caldo e guardando la nuova puntata di “Teen Wolf”. Era fine agosto e su Los Angeles si era abbattuta un’ondata di caldo che costringeva la gente a passare la maggior parte della giornata fra le mura domestico a cercare refrigerio. Il mio cellulare iniziò a squillare e risposi senza guardare lo schermo perché ero troppo impegnata a sbavare dietro a Tyler Hoechlin mezzo nudo.
“Pronto” risposi in modo alquanto svogliato e apatico.
“Accidenti che voglia di vivere!” esclamò una voce dall’altra parte ridacchiando. Quella voce l’avrei riconosciuta tra un milione: Lucas. Mi misi a sedere di scatto sul letto e il mio cuore prese a battere all’impazzata. Era un anno che non sentivo la sua voce. “Lucas” sussurrai.
“Proprio così, piccolo puffo” disse usando uno dei miei vecchi soprannomi.
“Sei tornato?” chiesi con un filo di voce come se avessi paura della risposta. “Sì, appena sceso dall’aereo.” La prima cosa che aveva fatto, appena atterrato a Los Angeles, era stata chiamarmi! Non riuscivo a dire nulla così lui continuò: “Mi chiedevo se ti va di vederci domani pomeriggio.”
Annuii, poi mi diedi della stupida perché lui non poteva di certo vedermi. “Certo, possiamo vederci da Starbucks alle quattro.”
“Perfetto! Mi sei mancata, Sam.” Disse con la voce dolce.
“Mi sei mancato anche tu, da morire, Lucas!”
 
Mercoledì 27 Agosto
 
Appena uscii da lavoro - d’estate facevo la babysitter per mettere da parte i soldi - tornai a casa per fare la doccia, cambiarmi e dopo andai al luogo dell’appuntamento con Lucas. Entrai nel locale e lo individuai subito seduto in un angolo. Era dannatamente bello, più di prima, i capelli erano più scompigliati del solito e un paio di occhiaie dovute al jet lag facevano risaltare i suoi occhi verdi ancora di più. Quando mi vide si aprì in un sorriso e si alzò in piedi venendomi incontro.
Ci tuffammo l’uno fra le braccia dell’altra come se non fosse passato un anno, ma solo qualche giorno. Affondai il volto nella sua t-shirt e inspirai il suo profumo, vaniglia mista a tabacco e One Million. Il dolore che sentivo al centro del petto e che mi aveva accompagnata e torturata per un anno intero si stava dissolvendo piano piano. Avevo ricominciato a respirare dopo essere stata in apnea per dodici lunghi e spossanti mesi.
 
Parlammo per ore davanti a un enorme quantità di gelato alla nocciola, mi portò sulla spiaggia e ci stendemmo sulla sabbia in un punto più appartato. Non riuscivo a smettere di guardarlo e di sorridere, ero così dannatamente felice!
Dopo andammo a casa sua e tutta la sua famiglia fu più che felice di riavermi lì. Sua madre mi diceva spesso che io ero un pianeta e Lucas il mio satellite, era attratto da me e non riusciva a fare a meno di girarmi intorno.
 
Più tardi, nella sua camera, facemmo l’amore sul letto sfatto.
“Come diavolo ho fatto a vivere senza di te per tutto questo tempo?” chiesi, più a me stessa che a lui, con la voce rotta dalle lacrime che minacciavano di uscire da un momento all’altro.
“Ancora non riesco a credere di averti qui, fra le mie braccia, più bella e mia che mai!” esclamò per poi baciarmi con trasporto, passione, dolore, disperazione e… amore. Le lenzuola aggrovigliate intorno ai nostri corpi uniti e sudati, una canzone dei “The Script” che proveniva dal suo ipod…
 
Domenica 31 Agosto
 
Avevo passato tutti quei giorni a casa sua, non ero tornata da me nemmeno per dormire. Non riuscivamo a staccarci l’una dall’altra, come se non riuscissimo più a respirare stando separati. Eravamo diventati completamente dipendenti.
Per quella sera c’era in programma una cena con i nostri genitori alla quale non morivo dalla voglia di andarci, anzi, avrei preferito farne a meno. Sarebbe stato alquanto imbarazzante. Non perché non andavano d’accordo, ma perché andavano troppo d’accordo!
 
Eravamo in quel ristorante da poco più di mezz’ora e i nostri genitori si erano inoltrati su un argomento alquanto spinoso, il matrimonio. Amavo Lucas con tutta me stessa, ma non avevo la minima intenzione di sposarlo prima di finire le superiori. Ogni volta che provavo a dire la mia venivo zittita, così mi ero buttata sul cibo per evitare di uccidere qualcuno. Lucas, invece, sprizzava felicità da tutti i pori.
Le nostre madri parlavano già della location e dei fiori…
 
Dopo il dessert, scappammo da quel posto per tornare a casa sua, nella sua stanza a fare l’amore sulla scrivania, sulla poltrona nell’angolo accanto alla finestra e sul letto.
Quella notte, sul tardi, discutemmo.
“Che ci sarebbe di male se ci sposassimo, Sam?” chiese accendendosi una sigaretta.
Alzai gli occhi al cielo: “Che ci sarebbe di male se aspettassimo ancora un po’?”
La discussione andò avanti per un bel po’, i toni si facevano sempre più accesi e dicemmo cose che non pensavamo realmente. Alla fine se ne andò a dormire in una delle stanze degli ospiti e io passai la notte in bianco, una notte orribile.
 
 
 
Martedì 2 Settembre
 
Quel giorno tornai dal mio lavoro estivo - facevo la babysitter al scatenatissimo figlio dei Johnson – esausta. Lucas mi aveva chiamata poco prima per dirmi che quel giorno non l’avrei trovato a casa perché sarebbe uscito con i suoi amici. Non aggiunse molto altro e fu una telefonata alquanto criptica.
Una volta a casa ero indecisa se vegetare sul divano, guardare “Teen Wolf”, mangiare quattro chili di gelato o dormire. Optai per “Teen Wolf” e gelato.
Era quasi ora di cena e Lucas non era ancora tornato. Lo avevo chiamato un sacco di volte, ma senza speranze. Quando, finalmente, si era degnato di rispondere mi aveva esplicitamente detto - in tono scherzoso – di “farmi i cazzi miei”.
Sentii la porta d’ingresso e la voce di Lucas chiedere ai suoi genitori e sua sorella di andare via perché aveva qualcosa di importante da fare. Scesi al piano di sotto e lo trovai in piedi con addosso un paio di skinny jeans neri attillatissimi, una camicia bianca, un mazzo di rose rosse - e una bianca al centro - in mano che mi guardava sorridente. Mi bloccai a un paio di metri da lui e lo fissai dubbiosa. Che cosa diavolo aveva in mente?
Si avvicinò a me e mi porse il mazzo di fiori che afferrai titubante. Annusai le rose, anche se non troppo altrimenti avrei iniziato a starnutire, e gli rivolsi un sorriso. “Per che cosa sono?”
“Devo dirti una cosa, Sam, ma promettimi che prima mi ascolterai e dopo potrai anche picchiarmi se vorrai. “Annuii. Dio santo, era bellissimo vestito in quel modo. Io, però, sembravo una barbona con quella felpa enorme, a piedi scalzi, i capelli spettinati e una piccola macchia di gelato sulla manica destra. “Da quando ti ho visto la prima volta ho avuto l’assoluta certezza che saresti stata mia, in un modo diverso da come lo erano state le altre ragazze. Non solo con il corpo, ma anche con l’anima e il cuore.” Dove voleva andare a parare? “Ne abbiamo passate tante: la distanza, le persone che cercavano di dividerci, ci urlavamo contro prima di fare l’amore… Ogni singolo giorno della mia vita mi sveglio e mi chiedo che cosa ho fatto di buono per avere te nella mia vita, per meritarti!” Le lacrime, che avevo trattenuto fino a quel momento, iniziarono a scendere sulle mie guance mentre stringevo il mazzo di rose ancora più forte, come se volessi aggrapparmi a esso. Lucas si mise in ginocchio davanti a me e tirò fuori dalla tasca dei jeans una piccola scatolina rossa che aprì. All’interno c’era un solitario d’argento, molto semplice, con un diamante incastonato al centro. Spalancai gli occhi realizzando, solo in quel momento, le sue intenzioni. “Nina Helen Mason, vuoi sposarmi e passare il resto della tua vita insieme a questo povero disgraziato che non riuscirà a darti altro che amore?”
Singhiozzai come un’idiota. Non riuscivo a parlare e piangevo sempre più forte, come una stupida! Annuii e riuscii a sussurrare un piccolo ‘sì’. Lucas sorrise, un sorriso così luminoso da rischiarare l’intera stanza, e m’infilò l’anello al dito.
 
Non riuscivo a smettere di sorridere ed ero dannatamente felice. Il mio parere sul matrimonio non era affatto cambiato e ne avevamo parlato - stretti l’uno all’altra fra le lenzuola - a lungo. Avevamo deciso di aspettare almeno un paio d’anni, ma che per ora volevamo solo ufficializzare la cosa per far sapere all’intero mondo che io appartenevo a Lucas e lui apparteneva a me, completamente.
La prospettiva di passare il resto della mia vita con lui non mi spaventava affatto, anzi, ne ero estremamente felice. Non potevo essere sicura che sarebbe diventato tutto quanto reale, che sarebbe stato tutto rose e fiori e che fra cinquant’anni sarei stata ancora insieme a lui. In quel momento, però, era quello che desideravamo entrambi e sarebbe stato così ancora per molto tempo.
 
Poco dopo, pubblicai su Facebook una foto del mazzo di fiori e dell’anello con la seguente descrizione:
“Dopo tre anni e mezzo siamo ancora qui, migliori e peggiori di prima, ma insieme.
Ne abbiamo passate così tante e, anche se molte persone e cose, si sono messe in mezzo. Abbiamo sconfitto le altre persone, le malelingue e persino un oceano! ('Fanculo all'Atlantico!)
Ci siamo scontrati moltissime volte perché eravamo entrambi troppo distrutti e orgogliosi e avevamo paura di perderci l'un l'altra.
È vero che è presto e siamo giovani, ma non riesco a smettere di essere felice e di sorridere come un'ebete. Non dobbiamo sposarci ora (col cavolo che ti sposo adesso!) perché abbiamo un mucchio di tempo. Per ora, però, voglio solo che il mondo intero sappia che sei mio, che io sono tua e quanto ci amiamo.
Ti amo, Lucas!”
 
“Ti amo, Sam!” disse, appena pubblicai il post, baciandomi la spalla nuda e provocando in me una serie di brividi. Mi fece stendere nuovamente sul letto ed entrò in me, amandomi sempre di più, per sempre.




 
Katjusha's here

Ciao a tutte/i.
Eccomi qui con questa "piccola" one-shot. Lo so che devo aggiornare "All of the stars", ma non ho potuto trattenermi dallo scrivere questo.
Che cos'è esattamente "People fall in love in misterious ways"? È la mia storia d'amore, quello che è successo per davvero a me e al mio fidanzato.
Ovviamente non viviamo a Los Angeles (cioè lui sì, ma questo è un piccolo dettaglio), però la città dove vivo e dove ci siamo conosciuti è un buco, uno sputo e dubito persino che sia presente sulla cartina. Mi sono detta che, pur essendo una storia vera, potevo dargli qualcosa in più. Così ho ambientato il tutto a Los Angeles e nei dintorni.
I dialoghi, le persone, i fatti sono realmente accaduti.
Alcuni nomi sono uguali, altri li ho "inglesizzati" e altri li ho cambiati:
-Nina, io non mi chiamo così, però stavo ascoltando l'ultimo album di Ed Sheeran e adoro l'omonima canzone
-Lucas si chiama davvero così, solo il cognome è diverso. Oh, quanti litigi per quel cognome! Mi ha fatto ascoltare per un giorno intero i "Green Day" e voleva avere il cognome del cantante 'Armstrong'. Gliel'ho data vinta, ma prima di pubblicare ho cambiato il cognome e lui si accorgerà solo dopo che ho fatto a modo mio! (Tesoro, se leggerai questo, sappi che ti amo sempre e comunque!)
-Adrian, quel poraccio che s'è beccato un calcio e ci ha pure fatti conoscere, in un certo senso. Sì, è il suo nome.
-Michael è il nome di mio fratello "inglesizzato".
-Ronnie, Stephanie, Alex, Michelle sono i nomi dei miei amici in inglese.
-I nomi degli amici di Lucas li ho cambiati.

Voglio ringraziare mia sorella Sam - comeilmaredinverno- (♥) per il meraviglioso banner. Grazie, sister!
So che molto probabilmente questa "cosa" è una schifezza, ma ci ho messo tutto il cuore nel scriverla perchè è la mia vita. 
Vorrei sapere che cosa ne pensate. E, niente, vi lascio con qualche foto... 



 Francisco Lachowski e Barbara Palvin, i nostri prestavolto ♥ Los Angeles ♥

 
  
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