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Autore: Emerald Liz    08/09/2014    4 recensioni
"Ero chiusa in una cella da così tanti anni, ormai, che quasi non ricordavo il mio nome."
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ero chiusa in una cella da così tanti anni ormai che quasi non ricordavo il mio nome.

Da tempo non potevo più parlare, il mio dono della parola era stato offerto in sacrificio quando mi avevano relegata qui, a servire un bene superiore.

Ero sempre stata scettica a questo proposito: come poteva l’azione di una sola persona, piccola e insignificante come me, aiutare a combattere le tenebre?

Avevo sacrificato la mia libertà in nome di una lotta che sapevo essere inutile. Sapevo, ovviamente, che esistevano altre persone come me, altre guardiane, come ci chiamavano. Mi chiedevo spesso se loro credessero in quello che dovevano fare, avrei voluto discuterne, ascoltare i loro pareri, i loro dubbi, le loro convinzioni.

Quando iniziavo a formulare questi pensieri, la certezza che avrei passato il resto della mia vita in quella gabbia mi opprimeva, e quasi mi impediva di respirare; tuttavia, per quanto ridicolo possa sembrare, ciò che mi pesava maggiormente non era l’impossibilità di uscire, ma l’impossibilità di parlare: nel pesante silenzio che regnava sul Santuario, anche la mia stessa voce sarebbe stata fonte di conforto.
 
Ma il conforto non era di queste terre, e così trascinavo la mia esistenza un giorno dopo l’altro, finchè non accadde qualcosa che non avevo previsto.

Apparve un cavaliere.

Sapevo che lo fosse poichè avevo riconosciuto la sua armatura, di bronzo scintillante: non era la prima volta che un uomo così vestito passava per il Santuario.

Grata di questa novità, mi avvicinai alle pesanti sbarre della mia cella, preparandomi al consueto rituale della consegna dell’anima.

L’uomo si avvicinò e parlò, presentandosi come il cavaliere Lautrec, di Carim; gli feci cenno che non potevo parlare, e lui mi guardò incuriosito, ma non fece alcun movimento.
Mi aspettavo che mi porgesse un’anima di guardiana, e la sua immobilità mi stava mettendo a disagio; il fatto che non provassi più un’emozione simile da molti anni non fece che accentuare la stranezza della situazione, e il silenzio a cui ero costretta mi sembrava, se possibile, ancora più frustrante.

Ma lui sembrava perfettamente rilassato, e fece una cosa che non mi sarei mai aspettata: si sedette di fronte all’apertura della cella, la schiena appoggiata su un masso.

“Così non puoi parlare, eh?”


Feci di nuovo cenno di no, ma stavolta mi ritirai un po verso la parete: il suo comportamento era molto strano, e non ero sicura di apprezzarlo.

Lo sentii sospirare leggermente.

“Questo mi renderà tutto più facile.”

Lo guardai incuriosita, ma appena alzai lo sguardo me lo ritrovai davanti, a separarci solamente le sbarre di metallo della cella.

Si era alzato di scatto, e con un movimento troppo rapido e improvviso perchè io potessi anche solo pensare di schivarlo, mi afferrò i vestiti, appena sotto il collo, e mi attirò verso di sè, facendo sporgere la mia testa al di là delle sbarre.

Con l’altra mano alzò una delle due piccole falci che portava legate ai fianchi.

In un secondo me ne resi conto: stavo per morire.

E non potevo nemmeno lanciare un grido.

Ebbi tempo solo per un ultimo pensiero, prima che la lama si abbassasse a squarciarmi la pelle: speravo che, qualunque cosa ci fosse stata dopo la morte, potesse restituirmi la mia voce.
  
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