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Autore: Kerberos 1001    08/09/2014    0 recensioni
Vi siete mai chiesti quale mezzo potreste utilizzare per esplorare la galassia accanto alla vostra?
Io l'ho fatto: The Good Will partirà a breve per la sua avventura ...
Genere: Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La  chiamano la Grande Ruota, e tutti pensano che non sia altro che uno strano scherzo del destino, che non riuscirà mai a decollare, a staccarsi dal molo d’attracco. Noi sappiamo che non sarà così, ma non è bello scommettere sapendo già di vincere, non sarebbe onesto.
La The Good Will è la prima ring ship della storia, la prima struttura artificiale semovente che abbia mai raggiunto simili dimensioni: persino lo scafo centrale della Repubblica viene miniaturizzato quando le rispettive orbite le portano ad avvicinarsi e si tratta di una Carius dei Chaxe, una nave-mondo!
Quando la gente la vede per la prima volta, chiede sempre: perché è così grande? La risposta è semplice e complessa allo stesso tempo: con cosa colonizzereste voi una galassia?
Una decina d’anni fa, il colonnello Bartoli mi convocò nel suo ufficio privato, giù all’arsenale militare e questo costituiva già di per sé un evento eccezionale: normalmente, Bartoli è uno che si muove da sé, nel senso che, se ha bisogno di parlare con qualcuno, va a trovarlo di persona o al limite, prima lo chiama per fissare un appuntamento da qualche parte in centro. Tornare a casa dall’ufficio e trovare ad attendermi una vettura ufficiale con tanto di autista e scorta fu una vera sorpresa e non del tutto gradita, a voler essere sinceri. Senza dire una parola, una specie di gigante in divisa mi invitò a salire in macchina, sorridendo cordiale. Il fatto che due suoi compari armati si fossero prontamente portati alle mie spalle bloccandomi la ritirata smentiva in parte la suddetta cordialità.
«Sono in arresto?» chiesi, cercando di dimostrare una calma che non provavo «Perché se così è, gradirei conoscere i capi d’accusa ed informarne il mio legale.»
«Lei non è in arresto, signor Leardi. Ha commesso per caso qualche reato, da quando è arrivato a Kerzich?» Il gigante in divisa continuava a sorridere; vista la sua stazza, credo che avrebbe sorriso anche se l’avessi minacciato con una pistola, forse persino un po’ più di gusto.
«Io non ho commesso alcun reato!» commentai stizzito «Da dove vengo io, quando alla porta si presentano i militari con la scorta armata, normalmente si finisce a scavare scorie su qualche asteroide, ecco tutto!»
Lui annuì, compreso: «Lo so, ci sono stato anch’io, in un posto del genere. Quella volta ci salvammo per il rotto della cuffia!» Mi rivolse uno sguardo da cospiratore, sussurrando: «Non lo dica a nessuno, però: tutta la faccenda è ancora coperta da segreto militare!»
Lo fissai per qualche secondo, allibito: un pazzo, forse? Magari uno di quelli che si divertono ad andare in giro travestiti per giocare scherzi di cattivo gusto alla gente comune?
«Ma chi diamine è lei, mi scusi?» sbottai alla fine, un tantino esasperato.
Il gigante colse l’imbeccata immediatamente: «Capitano Marcus Largo, signor Leardi, Marina militare spaziale della Repubblica.» si presentò, sbattendo i tacchi e salutando. Poi, tornando a sorridere rilassato: «Ora vorrebbe avere la cortesia di montare in macchina e seguirmi? La stanno aspettando.» concluse, aprendomi lo sportello.
Inutile dire che non potei far altro che obbedire …
La Repubblica si estende per svariati milioni di chilometri cubici attorno al gigante gassoso noto come Dathis-2, parte in orbita bassa, parte sull’orbita stazionaria; stiamo parlando, ovviamente, delle centinaia di strutture artificiali realizzate dalla HVH Mechanics Design Workshop e dalle sue consociate su richiesta del governo e questo  sin dal suo insediamento ufficiale: il nucleo originario della Repubblica Corporativa, lo scafo di classe Carius donato dai Chaxe al colonnello e ai suoi uomini, galleggia libero molto al di sopra di questa cintura, al livello delle basi avanzate della flotta, oltre l’anello di detriti che circonda il pianeta.
Di primo acchito, molti brillanti strateghi hanno considerato e tuttora considerano folle una simile dislocazione: per loro, il centro nevralgico di uno Stato Sovrano dovrebbe trovarsi appunto al centro, protetto da numerosi strati difensivi di varia costituzione – flotte, basi missilistiche, reti di scoperta avanzata e compagnia bella, tutte allo stato dell’arte, tutte sacrificabili per il bene supremo.
Lo credevo anch’io, quando giunsi per la prima volta quaggiù a bordo di una nave di linea, subito dopo essermi congedato dalle A.E.F.; alla vista della nube che avvolgeva lo scafo, cominciai ben presto a ricredermi: avete presente i calabroni che proteggono il loro nido? Rispetto all’immensità della nave, i droni d’assalto che la circondavano inerti erano poco più che microbi; in compenso, però, erano migliaia, un’ombra scura sullo sfondo verde mare delle nubi di Dathis-2. Ci volle circa un’ora, prima che mi rendessi conto che avremmo attraccato ad una delle piattaforme orbitali ai margini, che fungevano da stazioni d’ingresso: da lì, una navetta automatica mi avrebbe trasportato sulla Repubblica. Ricordo come fosse ieri l’impressione che mi fece quell’ultima tappa del mio viaggio, l’avvicinamento lungo l’asse della nave-mondo, seguito dall’impennata improvvisa per raggiungere uno  degli anelli esterni …
Cercando di non dare troppo nell’occhio, rimasi per tutto il tragitto nei pressi della prua, tenendo d’occhio il transponder: eravamo un volo autorizzato e registrato, che seguiva una rotta d’avvicinamento standard e, nonostante questo, fummo bersagliati da richieste di identificazione: al passeggero inesperto potevano soltanto sembrare gli innocui balbettii luminosi di un led, ma giuro che il novantacinque per cento di quelle interrogazioni provenivano dai droni!
Il restante cinque per cento?  Bè, qualcuno deve pur assicurarsi che i calabroni svolgano il proprio dovere, non credete?
Tornando a quel giorno di dieci anni fa, quando l’auto ufficiale alla fine infilò a tutta velocità un tunnel corazzato che portava verso fuori-basso, all’improvviso mi sentii di nuovo come quella volta, sulla navetta automatica: eccitazione mista alla consapevolezza di correre un pericolo concreto, micidiale.
«Non si preoccupi, Leardi, non ci sono segrete o campi di lavoro, sulla Repubblica!» mi svelò sorridendo Largo, «Nuoce all’immagine. È per questo che cose del genere le abbiamo spostate sui satelliti!»
Lo fissai sconcertato: scherzava … almeno in parte! «I miei complimenti, capitano! Lei è molto perspicace!»
«Tutt’altro!» si schermì lui, lasciandomi ancora una volta interdetto: «Mi sono limitato ad osservare la sua espressione quando abbiamo svoltato. Devo ammettere che anche a me fa sempre un certo effetto passare il confine; considerato che io ci vivo e lavoro quaggiù, non lo trova un po’ assurdo?»
Assurdo? Sì, un po’ lo era davvero: capivo benissimo cosa intendesse dire il mio compagno, perché nei due anni che avevo già trascorso nella Repubblica avevo imparato ad orientarmi piuttosto bene; l’immenso scafo della Carius in sostanza non era altro che un fascio costituito da sette tubi giganteschi, circondato da una serie di dodici anelli che costituivano il porto commerciale, interconnessi, gli uni e gli altri, da una serie di tunnel disposti a raggiera, al cui interno correvano vere e proprie autostrade e linee per il trasporto pesante. Nel progetto originario, tutti e sette i tubi erano completamente aperti, perché i Chaxe avevano ricavato le loro arche spaziali convertendo direttamente i cantieri navali orbitanti attorno al loro pianeta natale: avevano ammassato la popolazione civile che erano riusciti a salvare nelle centinaia di livelli che crivellavano lo spessore chilometrico delle strutture originarie, lasciando immutato l’uso del vuoto centrale, là dove gli scafi delle loro navi venivano assemblati a partire da sezioni complete già equipaggiate, realizzate nei settori industriali dei tubi stessi.
La Repubblica, sotto questo aspetto, era diversa: non essendo costretta a sfruttare appieno le sue capacità produttive per sostentare una popolazione in fuga, era stata ampiamente modificata nel corso della sua esistenza. Quasi tutti i tubi esterni, oltre a quello centrale, erano stati chiusi alle estremità con cupole geodetiche, strutturate in modo da concentrare e diffondere all’interno la luce del sole di Dathis; grazie ai processori universali di cui ogni Carius è dotata, gli spazi chiusi così ottenuti erano stati trasformati in cilindri O’Neil, dotati di atmosfera respirabile e suolo fertile che poteva sostentare un ecosistema vario e completo, una sorta di immenso parco naturale nel quale uomo e natura potevano vivere a stretto contatto senza più disturbarsi a vicenda, molto più che sulle centinaia di altri mondi che erano stati scoperti e colonizzati sin dalla partenza della Grande Flotta, dopo la Guerra Lunga un Giorno. Erano sei mondi in miniatura, interdipendenti – alcuni dei numerosi tunnel di collegamento, circa uno ogni tre, erano stati a bella posta trattati allo stesso modo dei cilindri principali, per permettere il libero passaggio dall’uno all’altro di fiumi, flora e fauna – ed allo stesso tempo, a modo loro, autosufficienti, perché ciascuno manteneva pur sempre intatta la propria capacità industriale e poteva essere separato dal resto nel giro di poche ore.
Un paradosso, questo, che non finiva mai di stupirmi: immaginate di trovarvi al centro di una piazza, circondati da abitazioni basse, ognuna con il proprio giardino rutilante di fiori, e di guardare in alto: sopra di voi, e intendo direttamente sulla vostra verticale, un lago blu scuro occupa beatamente la valle laterale di una montagna alta poco meno di tremila metri; sulla riva del lago sorge una città simile a quella in cui vi trovate, dove qualcuno, magari, sta facendo esattamente quello che state facendo voi!
Poco più in là, lungo la diavia principale che si dipana dal lago verso la cupola più lontana, si apre quella che sembra una voragine infernale, perfettamente rotonda, che inghiotte il traffico di auto e mezzi pesanti, resi piccoli come insetti dalla distanza, instradandolo verso il cilindro successivo. Le città della Repubblica sono tutte così, non troppo vaste, piene di verde, di acqua e di luce: non sono città ideali, progettate al computer, con vie e case tutte uguali. Sono città vivibili. Percorrere lungo la cosiddetta Strada Panoramica, che si avvolge a spirale sulla sua superficie interna, i sessantaquattro chilometri da una geodetica all’altra di uno qualsiasi dei cilindri residenziali, scavalcando torrenti, respirando l’aria che sa di verde e di buono, è un’esperienza unica, credetemi.
C’era qualcosa di profondo, alla radice di una simile concezione, qualcosa cui i Chaxe non avevano mai neppure pensato e che anzi aveva riscosso la loro ammirazione, una volta che i lavori di modifica erano stati completati; non avrei capito cosa se non dopo il mio incontro con Bartoli, giù-fuori nell’unico tubo che non era stato terraformato. Lì aveva sede il Comando Centrale della flotta.
L’auto si era arrestata silenziosamente e senza scosse, così come era partita; seguendo il capitano, mi infilai in una capsula della monorotaia: niente di particolarmente complesso o spettacolare, un semplice guscio in lega leggera, dotato di due file di sedili, completamente trasparente nella metà superiore.
«Dove stiamo andando? All’imbarco per i satelliti penali?» chiesi, per metà ironico, per metà preoccupato.
Largo rise: «Quello è nella direzione opposta!» Si chinò in avanti, indicandomi le stelle lontane inquadrate nella cornice circolare del cilindro: «Stiamo andando al capolinea: Comando Scalo!»
Ovviamente sapevo di cosa stesse parlando: nel cilindro inferiore, il famoso cilindro N7, erano stati installati tre nuclei A.I. speciali, il cui unico compito era quello di dirigere l’intenso traffico di vascelli, militari e non, che affollavano perennemente il Comando Centrale e i suoi moli d’attracco.
Avrebbero potuto tranquillamente fare tutto da soli – dannazione! in pool con le altre A.I. della sola Carius avrebbero potuto gestire l’intera Repubblica, fino ai suoi confini più remoti! – ma il colonnello Bartoli preferiva non fidarsi completamente, perfettamente conscio del fatto che un errore, in fin dei conti, può sempre essere commesso, persino da A.I. che erano ritenute e si ritenevano esse stesse infallibili; per questo motivo, aveva fatto installare una serie completa di attrezzature di controllo vecchio stile, cui era necessaria la supervisione umana, per interderci, ad un’estremità della Repubblica.
Per questo motivo, il Comando Scalo era divenuto una leggenda: tutti sapevano della sua esistenza; inoltre, tutti sapevano che era situato da qualche parte giù-fuori, più verso prua che verso poppa (e potete immaginarvi quanto difficile sia distinguere l’una dall’altra, quando la nave, per ragioni di simmetria, possiede propulsori ed impianti identici alle due estremità!); quasi tutti sapevano che funzionava basandosi su di un sano principio di reciproca sfiducia, nel quale gli addetti umani tenevano sotto costante controllo, per mezzo delle loro apparecchiature, l’operato dei nuclei A.I., che a loro volta sembravano divertirsi a rimarcare ogni più piccola mancanza delle loro controparti biologiche, quasi si trattasse di una gelosa ripicca.
Quasi nessuno, infine, sapeva che il Comando si trovava in realtà sepolto negli strati più profondi del bordo inferiore del cilindro N7, quasi un chilometro dall’estremità che guardava verso lo spazio esterno: io potevo vantarmi di essere uno di quei pochi. Varcai la porta corazzata che divideva la stazione terminale della monorotaia dalla sala principale di quel silenzioso sancta sanctorum, al termine di un breve corridoio che con ogni probabilità era saturo di sensori biometrici e allarmi, e mi ritrovai immerso nella penombra, rischiarata unicamente da monitor virtuali e rappresentazioni-dati tridimensionali che mi fecero venire il mal di fegato per la loro nitidezza e precisione, io che mi vantavo con gli amici di poter lavorare con hardware all’avanguardia!
Datomi il tempo di ambientarmi, Largo mi sfiorò il gomito: «Qui ci lasciamo, signor Leardi, almeno per ora.» Mi indicò un varco alquanto dimesso in un angolo, seminascosto dietro la proiezione di un immenso cargo diretto alle basi esterne della flotta con i rifornimenti mensili: «Da quella parte, prego: il colonnello l’aspetta.»
Non era un vero e proprio ordine, ma poco ci mancava: scrollando le spalle, mi avviai, conscio del fatto che, arrivati a quel punto, avrebbe avuto ben poco senso disobbedire.
Rimasi meravigliato: avevo già visto James Tharon Bartoli altre volte, anche se mai di persona, perché, volente o nolente, il colonnello era diventato un personaggio famoso nella Grande Flotta, ancora di più dopo che l’aveva abbandonata per fondare la Repubblica; ma non mi ero mai reso conto di quanto in realtà fosse un uomo qualunque, il tipo del buon vicino tranquillo e riservato. Aveva l’aspetto della persona che si fosse trovata coinvolta suo malgrado in tutte le più grosse grane dell’universo … solo che, a differenza delle comuni persone, lui era riuscito a cavarsene fuori, il più delle volte senza perdite eccessive. Forse era proprio questa sua qualità che l’aveva portato là dov’era; forse costituiva anche il motivo principale dell’odio eterno giuratogli dagli alti comandi delle A.E.F.: è sempre difficile trattare con qualcuno che ti dimostra con gli atti l’erroneità delle tue decisioni, in maniera semplice ma convincente, magari portando in salvo, con una banale diversione, la divisione corazzata che tu avevi già ordinato di abbandonare perché circondata da forze nemiche soverchianti, che la ricognizione preliminare, puntualmente, non aveva individuato. E questo è soltanto uno dei molti esempi possibili.
 Comunque fosse, quando entrai nel suo spartano ufficio, Bartoli era tranquillamente intento a redigere un rapporto seduto alla sua scrivania e non si alzò per venire ad accogliermi: anche se, come aveva detto Largo, mi stava davvero aspettando, non lo diede minimamente a vedere. L’impasse comunque, durò pochi minuti, più di due ma meno di cinque: posato il commlink su una pila di fogli, venne a stringermi la mano, sorridendo calorosamente: «Mi scusi per l’attesa, ma visto che, come al solito, Marcus si è perso per strada, ne ho approfittato per sbrigare alcune pratiche arretrate! Ma prego, si accomodi!» concluse, indicandomi una poltrona. «Caffè, the? O magari qualcosa di più forte? Immagino che non si sia ancora ripreso del tutto dalla sorpresa …»
Che mi venisse …! Come l’aveva capito? «Colonnello, sono onorato di questa convocazione, anche se improvvisa.» La diplomazia, quanto può essere utile a cavarti d’impaccio, alle volte! «Posso sapere perché desiderava vedermi con tanta urgenza? Comunque, no, grazie: sono a posto così, per il momento.»
Lui sorrise, curvando appena appena le labbra: «Professor Leardi, lei si è congedato due anni fa dal reparto R&D delle A.E.F., dove ricopriva una carica importante. Non importantissima, certo, ma sufficiente perché avesse diritto ad un nullaosta di sicurezza che con ogni probabilità era più alto del mio!»
Ridacchiò, ripensando probabilmente ad un episodio della sua precedente carriera legato a questioni di sicurezza: lo giuro, avrei pagato in oro per sapere quale! Però ci tenevo a mettere bene in chiaro le cose sin dalle prime battute: «Colonnello, mi dispiace informarla che, sebbene io non faccia più parte della Flotta per mia libera scelta, non ho alcuna intenzione di rivelare a chicchessia informazioni riservate riguardanti … »
Bartoli mi interruppe con un gesto: «Lodevole da parte sua, e confortante per quanto mi rivela della sua personalità, professore, ma assolutamente inutile, per due motivi: primo, sono le A.E.F. che pagherebbero l’impossibile per ottenere informazioni riservate da noi e non viceversa; secondo, crede davvero di poter rivelare alcunché?» mi chiese, guardandomi sornione con gli occhi socchiusi come un gatto in caccia.
«Che … che intende dire, mi scusi?» balbettai, spiazzato: devo ammettere che non avevo la benché minima idea di dove volesse andare a parare!
«Questo è uno di quei campi nei quali il mio nullaosta di sicurezza sopravanzava il suo, professore.» iniziò Bartoli senza alcun compiacimento: «Come ufficiale comandante un incrociatore da battaglia, ero responsabile della sicurezza, intendendo con questo quella della nave fisica, del suo equipaggio e di tutto il personale ausiliario ad essa assegnato.»
«Logico: sono i protocolli standard della Flotta!»
«Esattamente! Però un comandante di quel livello è anche direttamente responsabile della sicurezza delle informazioni detenute dalla nave e dal suo equipaggio … Di tutte le informazioni. Ed ecco perché, per preservarle in caso di grave rischio, a tutto il personale della Flotta, a loro insaputa, viene impiantato un blocco indotto della memoria, completamente inconscio …»
«Maledetti bastardi! Sta dicendo che mi hanno impedito fisicamente di divulgare informazioni?»
«Sì» Piano e semplice.
«Ma perché? E perché lei non ha subito il blocco?» chiesi «Questa  di sicuro è un’informazione riservata!» esclamai.
Bartoli sorrise, applaudendo piano: «Davvero bravo! Complimenti, professore!»
Strano a dirsi, ero certo che non mi stesse prendendo in giro, nonostante il tono.
«Per rispondere alle sue domande, mi lasci dire che il comando delle A.E.F. non si è mai fidato molto dei propri sottoposti …»
Annuii: «Per quanto tu lo voglia, non potrai mai rivelare ciò che sai, se ti viene fisicamente impedito. Ed immagino che questo fantomatico blocco funzioni più o meno in questo modo!»
«Già! Comunque, anch’io, come tutto il mio staff, ha subito il medesimo trattamento, a suo tempo; la differenza sta nel fatto che noi abbiamo avuto modo di scoprire come fare a neutralizzarlo mantenendo intatta la nostra capacità di ricordare …» Per qualche secondo il suo sguardo divenne vitreo, perso com’era in qualche ricordo sepolto in profondità, appunto, poi tornò a fuoco su di me: «Ma questa è un’altra storia! Torniamo a noi: stavamo parlando della sua decisione di dimettersi.»
«Vero, anche se non capisco cosa c’entri!»
«Se le dicessi che lei faceva parte del progetto SCO e che se ne è andato perché si è sentito nauseato quando ha scoperto il vero scopo del programma di ricerca?»
«Le sue sono soltanto ipotesi, buone come qualunque altra.» ribattei, sperando di essere riuscito a stornare l’attenzione del colonnello da quell’argomento.
 Speranza vana, come risultò immediatamente: «Professore, non è bravo per niente a mentire, lo sa?»
«Colonnello, comincio ad essere stanco dei suoi giochetti e delle sue allusioni. Cosa vuole da me?»
«Il suo aiuto e la sua esperienza, professor Leardi. Abbiamo deciso, d’accordo con i Chaxe, di varare un programma a lunga scadenza che speriamo riuscirà a risolvere un bel po’ dei problemi che affliggono le razze alleate: come saprà, dalla firma dell’armistizio, sebbene le A.E.F. non abbiano mai ufficialmente accettato la cosa, noi risultiamo essere gli unici interlocutori accreditati presso i Chaxe in ambito diplomatico e commerciale. Le razze senzienti alleate, se vogliono anche solo chiacchierare con un Chaxe, devono passare da noi.»
«Una bella esclusiva!»
«Una grandissima rogna, invece!» sbottò lui, lasciandomi a bocca aperta: «Si immagini: da una parte i Chaxe, con la loro nazione nomade sparpagliata su parsec cubici di spazio; dall’altra gli alleati, che vorrebbero commerciare o comunque beneficiare delle loro indubbie e avanzatissime risorse scientifiche, contrastati dalle alte gerarchie della Flotta, cui brucia ancora l’aver dovuto arrendersi di fronte ad un avversario che ritenevano inferiore, e il motivo che li ha portati tutti quanti nello spazio, umani compresi: la guerra perenne dichiarata ai Chimaxin e ai loro “figli”, se mi passa il temine, dai Dhakran, dannato sia in eterno quel loro folle orgoglio che chiamano senso dell’onore!» quasi sputò, tutto d’un fiato. Bevuto un sorso d’acqua per calmarsi, Bartoli continuò con minor foga: «Noi non abbiamo mai voluto tutta questa responsabilità, sa, professore? Ce l’hanno addossata, però, e dobbiamo svolgere il nostro ruolo al meglio.» L’uomo comune e pacifico, di nuovo, assieme all’uomo che non si tira indietro, seppure riluttante. Questa volta, quando mi offrì qualcosa da bere accettai con gratitudine: era acqua, ma con un piacevole retrogusto fresco e dissetante: «Non era drogata, vero?» chiesi, sorridendo apertamente per dimostrare che stavo scherzando. Il colonnello scoppiò a ridere e tracannò in un sorso il contenuto del proprio bicchiere: «Ecco fatto! Ora possiamo sballare insieme!» E rise ancora nel vedere la smorfia apparsa sul mio viso.
«Stavamo parlando di un progetto importante di cui vorrebbe farmi partecipe, mi sembra.» sottolineai, un po’ piccato e spazientito; in effetti, cominciavo a sentirmi stanco, dopo un’intera giornata trascorsa davanti ad una proiezione dati cui andava a sommarsi la tensione di quel colloquio.
«Ha ragione, mi scusi: sono stato indelicato. Il progetto esiste, comunque, e non si tratta di megalomania. Abbiamo intenzione di costruire una nave per l’esplorazione dello spazio profondo.»
«Abbiamo? Voi e chi altro?»
«Noi, i Chaxe e tutti quelli tra gli alleati che vorranno rendersi utili. Tutti avranno un posto nel progetto e a bordo della nave, quando sarà pronta a partire.»
«Anche se fanno parte dell’A.E.F.?»
«Tutti! Purché, ripeto, sappiano rendersi utili in qualche modo: non accetteremo fannulloni di sorta, né personalità che credano di viaggiare in classe lusso serviti e riveriti o comandando gli altri a bacchetta!»
Non riuscivo a crederci. O meglio, non potevo crederci: più che di megalomania, qui si stava parlando di utopia bella e buona! Bartoli dovette leggermelo in viso, perché si sporse verso di me attraverso la scrivania e mi strinse la mano: «Mi creda, professore: una volta pronta la nave, faremo in modo che ciò che le ho anticipato si avveri. Abbiamo i nostri metodi per stroncare sul nascere certe situazioni.»
«Coercizione? Violenza?» Stavo già alzandomi per andarmene.
«No, semplice buon senso, quello che abbiamo sempre applicato sulle nostre navi e qui nella Repubblica: chi non è disposto a dare il proprio contributo, il parassita, finisce ben presto automaticamente emarginato dal resto della popolazione. Le posso assicurare che non è un bel modo di vivere, in un ambiente chiuso, ristretto, l’essere evitato da tutti! Non mi crede? Eppure ormai ha avuto un bel po’ di tempo per guardarsi intorno e trarre le sue conclusioni!»
A quelle parole, mi risedetti di colpo – forse sarebbe più corretto dire che cedetti di schianto sulla poltrona! – e ripensai ai miei due anni trascorsi all’interno di quel colosso: non potevo certo dire di conoscere tutti, ma tutti quelli che conoscevo …
Bartoli mi stava osservando, silenzioso e tranquillo; all’improvviso, mi tornò alla mente la domanda che mi ero posto centinaia di volte da quando mi ero trasferito: «Il modello! Qual è il modello di base della Repubblica? Perché c’è n’è uno, vero? Deve esserci!»
Il colonnello annuì, in segno di approvazione:«Lo sa? In tanti anni, lei è il primo ad accorgersene, senza che gli vengano forniti degli indizi.» Si interruppe, studiandosi le lunghe dita per qualche tempo: «Forse perché sull’intera faccenda di Delva non è mai stato tolto il vincolo di segretezza.»
«Delva? Non ho mai sentito parlare di un sistema con un nome simile!»
«Per forza: Delva era il nome datogli dai suoi stessi abitanti! Nei registri della Flotta compariva con il nome di Ajax, Ajax-2 …»
Lo so, ci sono stato anch’io in un posto del genere.” Le parole pronunciate meno di due ore prima dal capitano Largo rintoccarono come campane nella mia mente. Possibile che si riferisse proprio a quello?! «Ma Ajax-2 è il più famigerato campo di prigionia dell’A.E.F.! È una prigione di massima sicurezza nella quale rinchiudono i peggiori criminali dello spazio!»
«Ci abbiamo trascorso un periodo di undici mesi, all’incirca sei anni fa: ufficialmente avrebbero dovuto essere dodici; nelle intenzioni di chi ci aveva mandato laggiù, molti di più. Ma ormai può pure parlarne al passato: Delva non è altro che polvere cosmica.»
Lo disse con una tale calma che mi fu impossibile dubitare delle sue parole: «Ma il comando …» iniziai, poi ci ripensai e mi limitai a fissarlo, incapace di trovare qualcosa di coerente da dire.
«… ha tutto l’interesse a mantenere il segreto, visto le porcate che venivano perpetrate laggiù!» concluse lui per me «Quello che importa è che su quel pianeta imparammo a nostre spese a cosa può portare la stasi sociale: a seguito di alcuni … incidenti … scoprimmo che Delva era stato abitato da un popolo altamente civilizzato,finché il loro sole non si era sentito in dovere di esplodere; senza più alcuno stimolo, i sopravvissuti a quella catastrofe naturale, che spazzò via quasi del tutto la loro razza, finirono per regredire allo stadio animalesco, chiusi a vegetare nei loro mondi artificiali sotterranei.» Bartoli sospirò, un suono carico di … nostalgia? Sì, di sicuro, e anche di rammarico: «Avrebbe dovuto vederlo, professore! Un gioiello di natura e tecnologia: erba, laghi, piante e animali, una tale armonia, capace di fornire un cuore ad una pietra! Ma ormai è tutto sparito, distrutto.» Scrollò le spalle:«Peccato!»
«Il modello, giusto? Degli ecosistemi chiusi, completi, capaci di auto sostentarsi, ma solo grazie alla collaborazione attiva di tutti.»
«E se la collaborazione viene a mancare … »
« … o la fiducia …» Sogghignai: «Mi dica una cosa, colonnello: come l’ha saputo? Il vostro servizio segreto, per caso?»
«Nessun servizio segreto, nessuna spia: si da il caso che il satellite ghiacciato scelto per il test finale di accettazione di SCO si trovi in questo stesso nostro sistema planetario. E così, quando SCOrpion ha deciso di defezionare, si è rivolto direttamente a noi, per assistenza ed asilo politico.»
Logico e diabolicamente semplice! «Ma perché quei pazzi del Comando di Flotta hanno scelto proprio un satellite del sistema Dathis?! Avrei giurato che si sarebbero suicidati prima di dar modo a voi di scoprire segreti tecnologici avanzati!»
«Tutto il contrario, professore: come le ho accennato, erano loro a sperare di raccogliere qualche informazione utile da noi e su di noi! Ci hanno cortesemente richiesto per un dato periodo di tempo di concedere l’usufrutto di quello scoglio, pagando profumatamente e propinandoci la stessa balla che avranno sicuramente rifilato a lei e a tutto il personale non militare. “Stiamo sviluppando un progetto di recupero per i mutilati di guerra, per poterli reinserire nella società civile! Vi preghiamo con tutto il cuore: aiutateci! Aiutateci a ridare una vita piena a quei poveretti!”» Bartoli ridacchiò: «Ci sono andato vicino?»
«Abbastanza, anche se mi lasci dire che il suo falsetto è semplicemente atroce!»
Mi alzai, si era fatto veramente tardi: «Bene! Direi che ha appena reclutato un altro collaboratore, colonnello: mi ha convinto! Ora però la devo lasciare, oppure rischio di mettermi a russare sulla sua troppo comoda poltrona …»
«D’accordo! Domani riceverà i dati e i documenti che le occorrono, professore.» Mi accompagnò alla porta, stringendomi la mano:«Potrebbe pentirsene, da qui a qualche anno, lo sa? Metta in conto anche questo, mentre va a casa.» mi disse, mentre chiamava un attendente perché mi accompagnasse.
Io lo fissai costernato: non erano certo quelle le parole di congedo che mi ero aspettato di sentire.
 
Nome in codice: The Good Will, la buona volontà. Un nome perfettamente azzeccato, che spesso e volentieri veniva abbreviato in The God Will dagli addetti ai lavori, più o meno scherzosamente; come del resto feci anch’io, non appena mi fui ripreso dallo shock, dopo aver letto i dossier che mi furono recapitati a mezzo corriere militare il mattino seguente al mio incontro con Bartoli.
La volontà di Dio …
In effetti, in qualche modo, in qualche tempo, una sconosciuta entità superiore, sovrannaturale, divina – scegliete voi l’aggettivo che più vi sembra adatto! – doveva aver ispirato un certo numero di menti, spingendole a concepire qualcosa di straordinario.
Una nave destinata all’esplorazione dello spazio profondo! Così l’aveva definita il colonnello: una volta solo nel mio soggiorno, risi per minuti interi della mia ingenuità, perché mi ero immaginato qualcosa sul genere di una classe Vostock, il tipico incrociatore pesante che costituiva la spina dorsale della Flotta, al più una grossa porta-navette, l’evoluzione spaziale delle scomparse portaerei  terrestri … ma qui si andava oltre! Molto oltre: lo scopo della The Good Will, dichiarato apertamente sulla copertina del dossier, era quello di esplorare e colonizzare galassie!
Il concetto base era semplice: la prima delle ring ships sarebbe stata un trasporto di trasporti, un porto spaziale mobile a tutti gli effetti, autosufficiente in tutto, in grado di rigenerare in proprio risorse consumabili, di trovare soluzioni agli sconosciuti problemi che si sarebbero presentati nel corso del viaggio; di distaccare anche per lunghi periodi risorse e mezzi per l’esplorazione e la colonizzazione di sistemi solari ritenuti interessanti o strategici, di costruire ed attrezzare teste di ponte, di difendersi laddove si fosse reso necessario: tutto quello che aveva fatto a suo tempo la Grande Flotta, condensato in un’unica, gigantesca astronave. Qui stava la differenza; e da qui sorgeva la prima e fondamentale domanda da porsi: dove trovare un modello base da sviluppare per ottenere un colosso del genere?
Dopo studi nemmeno troppo approfonditi, gli ideatori del progetto si resero conto con sorpresa di non dover cercare affatto: ci stavano sopra, o più precisamente, dentro!
Cosa ci poteva essere di meglio, infatti, di uno scafo che per secoli aveva solcato gli spazi proteggendo, rincuorando e rifornendo un’intera razza? L’uso diretto delle Carius, però, era sconsigliabile, perché, paradossalmente, sarebbero risultate troppo piccole. Al momento del mio ingresso, il progetto era in corso da due anni e mezzo e si era arrivati alla definizione di un requisito di massima per dimensioni e layout dello scafo, ovvero la forma più semplice compatibile con le nostre esigenze: un grande anello formato da cilindri principali, sia aperti che chiusi, connessi da un network di cilindri minori e di tunnel di passaggio; ordinatamente aggrappati all’interno di questa rete di volumi, avrebbero trovato posto magazzini, blocchi industriali, postazioni difensive e moli d’attracco per le future unità che la ring ship  avrebbe progettato e costruito nel corso del viaggio, secondo necessità. Al centro di tutto questo … bé, siamo sinceri: dopo due anni e mezzo, c’era ancora il nulla, un vasto spazio vuoto attraverso il quale osservare le stelle!
Proprio così: quello che mancava era un propulsore sufficientemente potente da riuscire a spingere quelli che già allora erano valutati in svariati miliardi di tonnellate di massa, destinati per giunta ad aumentare nel corso della missione.
Un bel grattacapo, lasciatemelo dire, anche con un’unità capace di limitare la massa inerziale come quelle montate sulle navi moderne!
Era pur vero che le arche Chaxe si spostavano grazie alle centinaia di reattori gravitazionali dello stesso tipo e che contemporaneamente le rifornivano di energia, ma si trattava di un sistema che i suoi stessi ideatori ritenevano inefficiente, in quanto richiedeva un enorme dispendio di tempo ed energia per essere gestito e coordinato in tempo reale dal plenum A.I.
Analizzando le registrazioni fornitemi dai krainos (i comandanti) delle singole navi, balzava subito agli occhi: in sostanza, ogni Carius procedeva allo stesso modo di una di quelle antiche e primitive sonde spaziali terrestri adibite all’esplorazione del sistema solare che ancora facevano uso di un sistema di propulsione termica: brevi impulsi di spinta, per accelerare, decelerare e cambiare orbita, seguiti da lunghissimi periodi di volo inerziale – fisicamente, una caduta – per poter risparmiare carburante. Le dimensioni erano diverse, il sistema di propulsione pure, ma il risultato era identico. Il fatto curioso era che quest’osservazione risultava valida unicamente per quelle cinque navi: le altre unità principali della loro flotta, sebbene enormi secondo i parametri delle A.E.F., erano in grado di procedere e manovrare liberamente – come avevano dimostrato di saper fare in maniera superba e a dir poco sbalorditiva durante la guerra, purtroppo per noi! – rimanendo sotto propulsione attiva anche per settimane intere. Perché? Che differenza c’era fra le due strategie? Più ci pensavo, più trovavo la cosa interessante. Tra parentesi, pormi quel genere di domande e cercarne le risposte era proprio lo scopo per cui il colonnello Bartoli mi aveva arruolato: io, del progetto SCOrpion, avevo coordinato e progettato i sistemi di propulsione e movimento, con tutto quello che di connesso c’era o poteva esserci, dalle fonti di energia, ai metodi per sfruttarle, monitorarle ed interfacciarle; ora dovevo fare lo stesso, solo che il bersaglio, questa volta, avrebbe potuto contenere un piccolo asteroide, invece di limitarsi a camminarci sopra …
Arrivai alla soluzione dell’enigma in capo a sei mesi, utilizzando ogni singola briciola di informazione che mi fu possibile procurarmi, dagli alleati, dai Chaxe, persino dai Dhakran, sfruttando, per questi ultimi, alcuni favori di cui ero debitore presso i servizi segreti della Flotta; alla radice del problema, risultò, stava proprio la natura modulare delle arche Chaxe: avevano assunto la forma attuale perché costruite in condizioni di emergenza, unendo tra loro in tutta fretta i cantieri orbitali di Kelvan, il loro perduto pianeta madre. 
Erano servite allo scopo, evidentemente; avevano, però, mantenuto inalterata la struttura frammentaria che derivava dal loro essere, in fin dei conti, un insieme di pezzi assemblati a viva forza. Col senno di poi, era evidente. Nei secoli trascorsi da allora, tutti gli impianti e i sistemi si erano poco a poco coordinati e amalgamati tra di loro, raggiungendo un livello accettabile di affidabilità, ma all’inizio della loro storia, mantenerli funzionanti doveva essere stato un continuo tour de force, un vero e proprio incubo!
Le navi minori, d’altro canto, progettate sin dall’inizio come unità singole e coerenti, beneficiavano di impianti e sistemi omogenei, la cui gestione risultava molto più semplice ed economica.
Mi era stato chiesto di trasferirmi nel complesso dell’Istituto fondato apposta per lo sviluppo della ring ship, in un piccolo bungalow con giardino, e io avevo accettato, per praticità.
«Colonnello, lei mi vuole morto per caso?»
Seduti comodamente nel mio soggiorno, stavamo sorseggiando dell’ottimo the; avevo appena terminato di esporre i risultati delle mie approfondite ricerche e Bartoli mi osservava da sopra l’orlo della tazza.
La poggiò con cura sul piattino, prima di rispondere: «Lungi da me! Perché questa domanda?»
«Lo sa, vero, che quello che mi ha chiesto di fare è semplicemente colossale?»
«Ne avevo una mezza idea, certo …»
Una mezza idea! Ormai ci conoscevamo abbastanza da capire al volo quando uno dei due mentiva, più o meno apertamente: «Colonnello, quanti hanno rifiutato l’incarico, prima di me?»
Fece spallucce: «Due. Uno era un leithalek Chaxe, specialista di sistemi gravitazionali.»
Ottimo! Se non avevo capito male il sistema gerarchico che vigeva tra i Chaxe, quello specialista, con ogni probabilità, era l’ultima risorsa cui si rivolgeva l’intera loro nazione in caso di guai seri !
«E l’altro?» volli sapere: tanto, non poteva essere peggio di così.
Bartoli sogghignò, prima di rispondere, lo giuro! «Il responsabile del Centro Studi Propulsivi della HVH MDW.»
Era una sfida! Da quando era stata fondata, lì sulla Repubblica, la HVH rappresentava l’apice della progettazione e realizzazione in materia di strutture spaziali artificiali, semoventi e non, con una produzione che spaziava dal piccolo drone alle piattaforme orbitali capaci di ospitare due ÷ trecentomila persone. Se uno dei suoi dipartimenti aveva rinunciato all’incarico …
«Colonnello, lei vuole veramente varare quella nave?»
«Non voglio soltanto vararla: io voglio usarla!» Bartoli vuotò d’un fiato la sua tazza: «E voglio arrivare a costruirle in serie …» Sottovoce, questo, quasi volesse ancora tenerlo solo per sé.
Annuii. «È proprio quello che immaginavo. Lei è un pazzo, colonnello, lo sa? Però possiede quel genere di pazzia che mi piace.»
«Forse perché è anche il suo …»
«Forse …» ammisi.
«Deduco che non ci abbandonerà, allora?»
«Non ancora, no. Piuttosto, che ne pensa delle mie ipotesi?»
Mi rispose dopo essersi servito dell’altro the: «Ad essere sincero, era da un po’ che sospettavamo qualcosa del genere.»
Logico. Anche la Repubblica era una Carius: modificata, migliorata, stravolta, ma pur sempre una Carius, anche se nata direttamente da una nano-matrice. «Quindi avrei lavorato notte e giorno sei mesi per niente!» risposi acido. Bluffavo, e lui lo sapeva: «Proprio per niente non direi! Quello che sospettavamo e quello che ha scoperto differiscono abbastanza da aver indotto Tar Val ad avviare un programma di ammodernamento della sua flotta. »  Boccheggiai: Tar Val era il krainos supremo, il plenipotenziario nonché portavoce dell'intera nazione Chaxe!
Bartoli proseguì come se nulla fosse: «In pratica, seguendo i suoi suggerimenti, per la prima volta nella loro storia, le cinque navi-mondo riceveranno una vera e propria sala macchine, con un generatore adeguato collegato ad emettitori di campo distribuiti strategicamente lungo tutto lo scafo.»
«Ma così perderanno la possibilità di compartimentalizzarsi in caso di emergenza!»
«Al contrario: le navi manterranno inalterato il sistema propulsivo attuale, come ausiliario e per la copertura energetica. Come ho detto, era da molto che ne discutevamo con Tar Val e i suoi ingegneri, ma partivamo dal presupposto che si trattasse di un problema di potenza, più che di coordinazione: grande la massa …»
« … enorme l’impiccio! E questo è ancora più valido quando la massa non è reale.» commentai.
«Parole sante! La tradizione, alle volte, ci impedisce di vedere oltre il nostro naso!» chiosò il colonnello, dimostrando di avermi compreso al volo ancora una volta. «Ma perché abbiamo iniziato a parlare di filosofia? Stavamo discutendo delle sue idee, mi pare.»
«Delle loro ricadute, direi!»
«Già, è vero! C’è di che esserne orgogliosi, non crede?»
«In un certo senso …» Ovvio che fossi orgoglioso della mia intuizione, ma ero anche preoccupato: se quelle modifiche fossero risultate meno che perfette, o se la mia teoria si fosse alla fine dimostrata errata … non osavo nemmeno pensarci!
Vedendomi immerso nei miei funesti pensieri, Bartoli si schiarì educatamente la gola: «Per quanto riguarda il nostro problema contingente, si è già fatto qualche idea?»
Mi ero fatto un’idea? A dire il vero, sì, avevo qualcosa di più di un’idea e di meno di un progetto, un oggetto vago, quasi folle, ma che mi dava la forte sensazione di poter funzionare a dovere. Ho sempre creduto che uno studioso, in particolar modo un progettista, debba basarsi per tre quarti sui calcoli e per il restante dare ascolto a quel quid innato che gli parla di continuo nella testa, suggerendogli concetti e immagini, oppure semplicemente sussurrandogli “Questo funzionerà, perché è bello!” . E la forma che disegnai su due piedi per Bartoli su di un tovagliolino di carta era talmente bella che lui stette a rimirarsela per minuti interi.
Ho impiegato questi nove anni e mezzo a trasformare il mio tovagliolino in realtà ed ora eccomi qui, sul ponte panoramico di un braccio d’attracco, ad attendere trepidante come uno scolaretto la cerimonia del varo. The Good Will galleggia pacifica sulla stessa orbita della Repubblica, ora, precedendola di due chilometri, ma così grande che sembra di poter salire a bordo con un unico passo: il suo anello è stato completato ed allestito per primo, per dar modo ai biotopi interni di svilupparsi ed ambientarsi completamente e già molti dei suoi mezzi ausiliari riposano in file ordinate ormeggiati ai suoi moli interni e quant’è difficile considerare un mega trasporto classe Atlas, che può tranquillamente contenere un incrociatore da battaglia in uno dei suoi molti container,  alla stregua di una semplice navetta!
C'è tutto, quasi, ma si tratta di minuzie: quello che di importante mancava, quello che doveva riempire l’immenso vuoto al suo centro, ora c’è, un fusoide affusolato, dal profilo complesso formato da morbide curve, ancorato al resto da sei immense pinne ricurve che si biforcano a ipsilon per collegarsi allo strato più interno della struttura dell’anello. L’intero corpo centrale sporge dalla parte posteriore dell’anello, rendendo The Good Will in tutto simile ad un antico turbofan. Racchiuso, protetto all'interno di questa splendente geometria di metallo lucido, batte il cuore gravitazionale della nave, un motore dipolare formato da due buchi neri stabilizzati ciascuno delle dimensioni di un piccolo asteroide; il flusso d'interazione dei loro campi gravitazionali gemelli, opportunamente orientato ed accelerato, farà muovere il gigante, lo farà volare leggero come una farfalla, rapido come un falco. È il mio magnus opus, lo stimolo che cercavo per rendere la mia vita più interessante. Ma ora …
Ecco!
Venite!  Venite a vedere: si sta muovendo!
Le navi di scorta segnalano tutto in verde, via libera lungo tutta la rotta di prova: il comandante ha impartito l'ordine!
La distorsione aumenta, lo spazio un centinaio di metri davanti e dietro la nave cambia geometria, fluisce, come l'acqua.
Sono felice! Nonostante sapessi già che avrebbe funzionato, sono molto felice e sollevato.
The Good Will è scomparsa alla vista: la mia nave effettuerà una crociera di prova attraversando al minimo tutto il sistema di Dathis, per tornare tra due giorni. Bartoli è rimasto accanto a me in silenzio tutto questo tempo, lasciandomi assaporare il momento; ora, mi stringe con forza la mano: «Complimenti, professore! Davvero un ottimo lavoro!» Poi mi guarda dritto negli occhi, sogghigna e a tradimento mi chiede: «Domani cominciamo la prossima, le va?»
   
 
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