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Autore: nevermore997    09/09/2014    3 recensioni
Vittoria Baudelaire è una Calfornia Girl a tutti gli effetti: snob, piuttosto antipatica ed abituata a vivere tra tutti gli agi e tutte le comodità. Per lei la decisione dei suoi genitori di trasferirsi da San Francisco a Foggy Hollow, desolante e gelida cittadina dello sperduto Wyoming, è una vera e propria doccia fredda. Senza volerlo si ritroverà catapultata in una vita completamente diversa da quella a cui è abituata, circondata da nuovi bizzarri amici, troppa neve per i suoi gusti, pianisti misteriosi e le mura di una casa inquietante che cela un terribile mistero.
La storia di una sedicenne in un mare di guai che si ritrova costretta ad adattarsi, a dimostrarsi coraggiosa, ad agire e anche a cambiare. Se in meglio o in peggio, lo scoprirete solo leggendo.
Questa storia è un esperimento, uno sporadico tentativo di fondere assieme due generi che nulla hanno a che vedere tra di loro: l’horror e il comico. Nella speranza che questo strano miscuglio vi incuriosisca, vi auguro buona lettura.
Genere: Comico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
Progetti per Natale e inquietanti scoperte
 
 
Quando arrivai sulla soglia di casa avevo già in mente di mettermi a strimpellare un po’, sia per dare fastidio a mamma e papà, sia per dimostrare a me stessa quanto Owen si sbagliasse. Non avendo ancora le chiavi dovetti suonare il campanello e mi venne ad aprire mamma, trafelata, in vestaglia e con aria piuttosto seccata.
«Sei già tornata?», si stupì.
Per un attimo mi attraversò la mente il pensiero che magari mi aveva esortata ad uscire con tanto entusiasmo soltanto perché lei e papà avevano in mente una serata di sesso inaugurativo, ma scacciai immediatamente del mio cervello quell’immagine orripilante. Preferivo continuare a credere che i miei genitori fossero vergini e che un bel giorno mi avessero trovata in fasce sotto a un cavolo.
Fortunatamente, la seccatura di mamma sparì in un battibaleno e mi rivolse un gran sorriso.
«Abbiamo delle sorprese per te, Vittoria. Oh, sarai felicissima, vedrai! Bob, porta qui il nuovo arrivato!», ordinò a papà.
«Non mi avrete mica concepito un fratellino!», gridai, sbiancando come un cencio lavato ed in preda al panico.
«Non essere stupida», replicò mamma, ed il cuore mi scese di nuovo nel petto dalla gola, dov’era salito.
«Guarda qua».
In quel momento papà, con un sorriso a trentadue denti che gli attraversava la faccia, fece capolino nell’ingresso, con in braccio un… coso. Non lo si poteva definire altrimenti. Era un animale orrendo, guercio, con le orecchie smozzicate e la coda spelacchiata. Era di un vomitevole color grigio spazzatura ed era talmente grasso che papà faceva fatica a sorreggerlo.
«Sarebbe un gatto?», chiesi con tutto lo scetticismo di cui fui capace, indicando schifata la bestiaccia. Quello mi rispose con uno sbadiglio.
«Andiamo, Vittoria, hai sempre voluto un gatto quando eravamo in California!»
«Si, certo, ma un gatto vero. Non una sottospecie di felino che probabilmente fino ad oggi ha vissuto in un bidone».
«Oh, Vittoria, ha solo qualche segno particolare», lo protesse mia madre a spada tratta, la quale, da vegetariana convinta qual era, aveva un vero e proprio debole per tutte le creature di Madre Natura.
«E’ speciale, proprio come te», si sentì in dovere di aggiungere papà.
«Io non sono così brutta, grazie tante».
«Il mio voleva essere un complimento», si difese lui, punto sul vivo. Lasciò cadere il gatto a terra ed a quel punto lui fece una cosa molto strana. Scattò fino al pianoforte che torreggiava solitario nel bel mezzo del soggiorno ed iniziò a miagolare e soffiare furiosamente in sua direzione. Il pelo gli si gonfiò a dismisura ed inarcò la schiena assumendo la classica posizione da gatto furioso.
«Che sta facendo?»
«Sfoga il suo dramma interiore causato da orribile aspetto fisico?», azzardai, beccandomi in cambio un’occhiataccia.
«Mi sembra agitato. Bob, portalo nella lavanderia, sarà meglio», mise fine al dibattito mia madre. Rimaste sole io e lei, mi guardò con un sorrisetto.
«Per quanto tu sia una figlia ingrata e lagnosa, io e papà, in quanto genitori migliori che un adolescente possa desiderare, ti abbiamo preparato un’altra sorpresa. Vieni.»
Mi guidò al piano superiore di quella villa che ancora non conoscevo, e poi ancora più su, inerpicandosi su per la scala a chiocciola della torre. Una volta in cima, ci ritrovammo davanti a due porte chiuse a chiave e lei ne aprì una, con fare soddisfatto.
«La tua stanza», annunciò.
Entrai. C’era un letto gigantesco nel bel mezzo di una stanza ampia, dotata di una finestra enorme, che dava direttamente sul bosco che abbracciava il retro dell’edificio. Ad una parete era appoggiato un armadio in legno in stile Cronache di Narnia dove qualcuno (certamente mamma, dal momento che papà da solo incontrava difficoltà anche nell’abbottonarsi la camicia)  aveva scrupolosamente sistemato tutti i miei vestiti in ordine per colore, come piaceva a me. Per la prima volta da quando avevamo messo piede a Foggy Hollow, sorrisi a mia madre.
«Lo confesso, con questa sei riuscita a comprarmi».
Anche lei sorrise, e si vedeva che era felice per davvero.
«Ammetto di volerti molto bene anche quando ti ostini a comportarti da viziata litigiosa».
Ridemmo assieme.
«Potresti approfittare della tua bella cameretta nuova per andare a dormire presto», suggerì lei, prontamente.
«E’ solo mezzanotte e mezza!», protestai.
Non ero molto bene abituata dal punto di vista del sonno. Avevo più o meno il metabolismo di un gufo: vivevo di notte e dormivo di giorno. Mi correggo, avrei voluto dormire di giorno. Mio padre, accanito sostenitore della massima “il mattino ha l’oro in bocca”, si divertiva molto a buttarmi giù dal letto alle otto del mattino anche durante i giorni di vacanza. Il risultato era che non dormivo praticamente mai. Non c’era da stupirsi se qualche volta non mi dimostravo molto arguta.
Malgrado tutto, quella sera ero piuttosto stanca, così decisi di seguire il consiglio di mia madre. Mi struccai scrupolosamente nel bagno del piano di sotto (mi ero illusa che la porta accanto a quella della mia camera conducesse dritta alla mia lussuosa toilette privata, ma constatai con somma delusione che al di là c’era solo la stanza degli ospiti), misi in religioso ordine il mio beauty-case (ero probabilmente l’unica sedicenne al mondo ad avere un’avversione patologica per il disordine) e mi infilai nel letto tra le lenzuola che profumavano di pulito, dove mi addormentai all’istante.
 
Quando mi svegliai erano le quattro del mattino.
«Perché così presto?», mi chiesi, stropicciandomi gli occhi. Avevo ancora sonno e le mie palpebre erano talmente appesantite che non riuscivo a sollevarle. Mi ci volle un po’ per rendermi conto che cera stato qualcosa di preciso ad avermi destata: in lontananza si sentiva una musica. Aguzzai l’orecchio per sentire meglio ed improvvisamente la melodia mi scosse il cuore. Era lenta e triste, straziante, si trascinava da una nota all’altra lasciando un senso di rimpianto e desolazione ad aleggiare nell’aria. Qualcuno stava suonando il pianoforte al piano di sotto. Piccolo problema: in famiglia ero l’unica a saper suonare, e comunque, sarebbe stato molto improbabile che i miei genitori si svegliassero nel bel mezzo della notte con il folle desiderio di mettersi a fare musica. Mi alzai dal letto, decisa ad andare a controllare, ma non appena ebbi aperto la porta della mia stanza con un cigolio vagamente sinistro, la musica cessò. Tornai sotto le coperte, in attesa, ma la casa rimase avvolta nel silenzio. I miei occhi iniziarono nuovamente a chiudersi da soli e mi venne un colpo di sonno. Decisi perciò di tornarmene a dormire, ma lo feci con una spiacevole sensazione addosso: l’inquietante consapevolezza di non essermelo semplicemente immaginato.
 
«Ti avevo detto di essere pronta alle otto!»
Owen, relegato fuori dalla mia camera da letto, stava diventando veramente noioso con le sue lamentele, che ormai andavano avanti da dieci minuti buoni. Maledissi sia mia madre per averlo accolto e fatto accomodare come un figliol prodigo, sia lui per la sua snervante puntualità. Andiamo, quale ragazzo che si rispetti dice “alle otto” e poi si presenta veramente alle otto? “Le otto” significano come minimo le otto e mezza, è una delle tante universali ed incontestabili leggi della natura femminile.
«Chiudi il becco Owen!», gli gridai, mentre cercavo furiosamente i miei calzini. «Va di sotto, intrattieni  miei genitori, svuota gli scatoloni, fai qualunque cosa, ma smettila di fare l’uomo orologio davanti alla mia porta!»
Evidentemente lo trovò un buon consiglio, perché lo sentii scendere le scale. Adesso potevo finalmente concentrarmi sulle cose davvero importanti.
Era stata una giornata a dir poco orrenda, cominciata quando ero stata svegliata all’alba dalla frenesia psicotica dei miei genitori e costretta a lavori forzati da arredatrice e donna delle pulizie fino alle sei di sera. A quel punto mi rimanevano solo due ore per prepararmi ed era dunque scontato che fare in tempo sarebbe stata per me una missione impossibile. Quando avevo cercato di spiegare le mie ragioni ad Owen non mi era sembrato particolarmente d’accordo, dal momento che mi aveva definita una vanitosa narcisista perditempo. In realtà, aveva usato epiteti molto più coloriti, i quali però non ritengo assolutamente appropriato precisare.
A quel punto ero nel bel mezzo di una vera e propria tragedia: non trovavo i calzini bianchi, ma solo quelli rosa pallido, che non si adattavano assolutamente al resto dell’abbigliamento. Avrei dovuto cambiare l’intero outfit, ma a quel punto presumevo che Owen mi avrebbe veramente ammazzata, quindi alla fine dovetti rassegnarmi ed indossare i calzini rosa. Dopo averci infilato sopra gli stivaletti di pelle (sintetica, ovviamente. Se anche solo avessi provato ad indossare un animale morto, mia madre mi avrebbe diseredata all’istante), scesi finalmente le scale a due a due, di pessimo umore e con faccia funeraria. Trovai Owen seduto al tavolo della cucina, intento a chiacchierare amabilmente con mia madre. Incredibile come la sua espressione maligna andasse e venisse a comando. Ora si che sembrava un irlandese simpatico. A giudicare dal modo in cui continuava a tormentarsi i capelli biondi con le dita, doveva pensarla così anche mia madre.
«E così, vivi con tua nonna?»
«Esattamente. I miei genitori viaggiano molto per lavoro, così io e i miei fratellini restiamo con nonna Rosie. Di solito mamma e papà tornano per le feste, ma quest’anno sono costretti a restare in Svizzera e quindi saremo solo noi.»
«Ma è terribile! Non potete passare il Natale da soli! Venite da noi per il cenone, ne saremmo felicissimi! Io cucinerò, mio marito preparerà l’abete e Vittoria si lamenterà di qualcosa di al momento indefinito, sarà una bellissima serata! Oh, vi prego, venite!»
Cosa?! Mia madre stava invitando un perfetto sconosciuto a trascorrere la festività più importante dell’anno assieme a noi? Ma le era andato di volta il cervello?! Per quanto ne sapeva lei, Owen avrebbe anche potuto essere uno spacciatore.
Fortunatamente, mi dissi, lui certamente avrebbe declinato l’invito.
«Sarebbe un enorme piacere per noi, veramente. Non so come ringraziarla, signora Baudelaire!»
Come non detto.
«Oh, caro, chiamami Savannah!»
«OWEN!», li interruppi, tuonando il suo nome con fare bellicoso. «Cinque minuti fa mi sembravi molto di fretta!»
Lui si alzò e salutò educatamente mia madre, che era tutta un risolino ed uno scuotimento di chioma. Stavo per seguirlo a ruota fuori dalla porta, quando lei mi fermò.
«Che figo», sussurrò.
«Mamma», dissi, scandalizzata. «Non usare mai più quel termine. Non si adatta all’era giurassica dalla quale provieni».
E filai di corsa fuori da quella villa dove la follia regnava sovrana, prima che potesse scagliarmi addosso qualche oggetto.
 
Mia madre aveva avuto ragione sulle previsioni del tempo. Quella notte aveva nevicato ed ora tutta la città era ricoperta da un luminescente manto bianco. Anche se era tardi, tutto quel biancore rischiarava le tenebre.
«E così, passeremo il Natale insieme!», commentò Owen, con tono palesemente divertito.
«Non per mia scelta», ringhiai, stizzita.
Calò il silenzio e, prontamente, mi tornò in mente quel che era successo quella notte. Era tutto il giorno che ci pensavo. Mi ero auto-inflitta una sorta di terrorismo psicologico nel tentativo di convincermi che fosse stato solo uno strano sogno oppure un frutto della mia fervida immaginazione, con scarsi risultati: dentro di me, ero assolutamente convinta che quello che avevo vissuto fosse reale. Guardando Owen però, improvvisamente, capii tutto.
«Ma certo!», mi dissi, tronfia. Doveva per forza essere stato lui! Certamente doveva aver pensato che una fastidiosa strimpellata nel bel mezzo della notte mi avrebbe precipitosamente fatto cambiare opinione sul pianoforte. Ma come avevo fatto a non pensarci prima?!
«Senti un po’, tu!», esclamai, puntando il dito contro la sua testa rossa. «Non è che la scorsa notte ti sei intrufolato nel mio soggiorno?»
Solo quando mi guardò come se fossi stata una totale psicopatica mi resi conto di quanto in fin dei conti quell’idea fosse ridicola. Tanto per cominciare, Owen non aveva le chiavi di casa mia, e poi ero piuttosto sicura che alle quattro del mattino persino un individuo imprevedibile come lui avesse di meglio da fare che tormentare le altrui esistenze. Ops.
«Sei fuori di testa», si sentì in dovere di farmi notare. «A proposito, dal momento che sono abbastanza sicuro che tu abbia abbondantemente dimenticato i nomi di tutti, te li ripeto per risparmiarti una figuraccia. La bionda ossigenata è Lucy, quella con l’apparecchio Kimberly, quello che sembra un orso si chiama Maxwell ed il balbuziente con gli occhiali è Toad».
«Che descrizioni lusinghiere», commentai, sarcastica, ma dovetti ammettere che erano state efficaci: avevo capito esattamente a chi si riferiva.
Nonostante Owen avesse alleggerito l’atmosfera, ero comunque ancora agitata per la storia del pianista misterioso. Se non era stato Owen, allora chi aveva suonato quel dannatissimo pianoforte?
Quando arrivammo al parco giochi, tutti gli altri erano già lì.
«Come mai così in ritardo?», ci gridò Kimberly, non appena varcammo il cancelletto.
«Vittoria non trovava i calzini. A tal proposito, siete tutti caldamente invitati a notare quanto quelli che indossa ora siano terribilmente inadatti al resto dell’abbigliamento».
Questo costò ad Owen un calcio nello stinco. Le ragazze risero, mentre Toad e Maxwell continuavano imperterriti a prendersi a palle di neve sullo sfondo. Sperai ardentemente che non saltasse loro in mente la pessima idea di coinvolgermi nel gioco. Sarei stata capace di uccidere per molto meno. Fortunatamente, non appena li raggiungemmo interruppero la battaglia e ci sedemmo tutti assieme sullo stesso dondolo sfondato del giorno precedente. Gli altri chiacchieravano animatamente tra loro. Maxwell era molto deluso per la recente sconfitta dei Lakers e Lucy e Kimberly molto scandalizzate perché chissà chi si era fatto un orribile piercing che a detta loro era “davvero volgare, proprio una caduta di stile”. Toad balbettava a tutti parole di conforto mentre Owen si limitava ad osservare ogni cosa e scoccarmi, di tanto in tanto, qualche occhiatina complice.
A quel punto decisi di fare la domanda che mi ronzava incessantemente in testa fin dalla sera precedente.
«Ragazzi», chiesi, con voce incerta. «Ieri sera, sentendo che abito ad Avary Manor, avete avuto una reazione strana. Potreste spiegarmi il perché? Che cosa sapete di quella casa?»
Il gruppetto si zittì ed anche se non avevo l’innato spirito di osservazione di Owen, ebbi la sensazione che mi stessero nascondendo qualcosa. Come se non avessero voluto spaventarmi troppo.
«Beh», iniziò Kimberly, mordendosi il labbro. «Non molto, in realtà.»
«E’ dis… disabitata da anni», aggiunse Toad.
Fin qui non c’era niente di poi così spaventoso. Quando lo feci presente si guardarono di nuovo con quelle strane espressioni preoccupate.
«Ok, va bene, glielo dico io», sbottò Lucy alla fine. «Il punto è che mia madre conosceva gli ultimi abitanti di quella casa e una volta mi ha raccontato una storia. Vivevano qui poco meno di una decina di anni fa. Persone carine, a modo, ma sono fuggiti a gambe levate meno di un mese dopo il trasferimento. Qualcosa li ha spaventati a morte, fino ad indurli ad andarsene in fretta e furia. Erano una famiglia con due figli. I bambini…» Abbassò lo sguardo. «Uno è morto qualche mese dopo di nessuno sa cosa, il più piccolo. Il maggiore, si dice, non riuscì mai più a parlare e riprendersi dopo il trauma subito. Sembra che ad oggi abbia ancora gli occhi perennemente sbarrati dal terrore».
Il vento ululò in lontananza mentre tutti, in silenzio, mi guardavano.
«Probabilmente è solo una leggenda», sussurrò Kimberly. Dal suo tono, era evidente che non lo aveva davvero creduto nemmeno per un istante.
 
«Perché sei così preoccupata?», mi chiese Owen più tardi, mentre tornavamo a casa, con gli occhi azzurri ridotti a due fessure sospettose. «Non può essere solo per quella stupida leggenda. Sei troppo scettica e sofisticata per lasciarti impressionare da una cosa del genere».
Signore e signori, Owen il chiromante aveva colpito ancora. Alzai gli occhi su di lui e lo osservai a lungo. Mi credeva già irrimediabilmente matta, indi perciò, qualunque cosa avessi deciso di dirgli, non poteva intaccare più di tanto l’idea che già aveva di me.
«E se ti dicessi che c’è dell’altro?», buttai lì, per testare il terreno. Lui mi sembrò divertito.
«Ti ascolterei».
«Stanotte ho sentito suonare il pianoforte che c’è in soggiorno. Una melodia triste e tormentata. I miei genitori non sanno suonare e non vive nessun altro in casa mia».
Owen corrugò dubbiosamente la fronte.
«Sicura di non averlo semplicemente sognato?»
Scossi  energicamente la testa.
«Sono assolutamente sicura, ti dico. Era tutto vero. Qualcuno, stanotte, ha suonato il pianoforte di casa mia».
Evidentemente in difficoltà, Owen mi rivolse uno sguardo poco convinto.
«Ascolta», mi disse, infine. «Premettendo che non credo a qualsivoglia leggende su bambini morti o case stregate, se la cosa ti preme un giorno di questi posso accompagnarti in biblioteca a vedere se troviamo qualche documento più affidabile che parli di Avary Manor. Per quanto riguarda qualunque altro genere di problema, beh, io abito qui a duecento metri. Se dovessi aver bisogno di qualcosa o anche solo spaventarti, insomma, chiamami».
Annuii. Questa volta mi aveva accompagnata fino a casa, senza che nemmeno glielo chiedessi. Mi sorrise e mi salutò con un cenno.
«Passo a prenderti domani alle tre».
«Del pomeriggio?»
«Ehi, è la vigilia di Natale. Va passata tra amici».
Se ne andò con la sua camminata sicura e veloce ed io rimasi per qualche attimo immobile sulla soglia, stupita di quanto mi sentissi soddisfatta all’idea di avere degli “amici”.
 
 
 
Salve. Sono sempre io, Nevermore. Naturalmente. Certo. Ecco.
Ho deciso di aggiornare la storia con due giorni di anticipo (che megalomane) per il semplice fatto che domani comincio la scuola e probabilmente nei prossimi giorni non avrò tempo per smanettare in internet, dal momento che sarò molto occupata a recuperare tutti i compiti che ho scrupolosamente evitato di fare durante l’estate. Sono effettivamente una pessima studentessa.
Nel frattempo voi leggete e recensite.
Enormi abbracci
Nevermore
  
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