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Autore: everlily    11/09/2014    18 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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18

18.

Bedroom hymns


- I'm not here looking for absolution
Because I found myself an old solution

This is his body, this is his love
Such selfish prayers, and I can't get enough -

(Florence + The Machine, Bedroom Hymns)


Elena


Un basso ronzio si insinua insistente nel mio dormiveglia, ritmico e distante.

Farfuglio la mia protesta dentro il cuscino, sfuggo a quella minaccia di sveglia indesiderata rannicchiandomi di più contro il corpo caldo accanto a me. Gli sfioro le spalle con le labbra, premo il petto sulla sua schiena che circondo con un braccio, affondo di nuovo piacevolmente nel calore della sua pelle e del suo odore. Al di là del suo torace, le sue dita si intrecciano alle mie, allacciandosi alla mia presa. Il ronzio finisce. Cado un'altra volta nel sonno.

La seconda volta che lo stesso rumore mi strappa dal mio accogliente torpore, però, non c'è più niente accanto a me, se non la traccia tiepida che ancora scalda lo spazio vuoto nel letto.

Apro gli occhi controvoglia, proprio mentre alla vibrazione si aggiunge un sommesso "oh cazzo" mormorato sottovoce. Mi tiro su a sedere, stringendomi addosso il lenzuolo per scacciare il brivido freddo che mi percorre le spalle non appena mi allontano del calore del letto. Nella poca luce mattutina che filtra superando la barriera delle tende chiuse, Damon è in piedi accanto al letto, intento a trafficare con le tasche dei suoi pantaloni raccolti dal pavimento e a biascicare sottovoce altre imprecazioni dello stesso genere.

E' nudo. Gloriosamente nudo, è l'unica descrizione che mi viene in mente mentre mi regala una splendida vista del suo sedere e delle fossette ai suoi lati. Sento il calore salirmi alle guance ed un sorriso spontaneo tendermi all'insù gli angoli della bocca, proprio mentre Damon trova il suo telefono che ha ripreso a vibrare, volta la testa verso di me ed incontra il mio sguardo nello stesso attimo in cui finalmente risponde. Mi scompiglio i capelli e mi giro dall'altra parte nella vana speranza di mascherare il modo piuttosto sfacciato in cui mi ha sorpreso a guardarlo.

"Ric."

"Dove cazzo sei?" sento provenire dall'altra parte della linea, così sonoro da giungermi forte e chiaro anche mentre Damon incastra il telefono tra la spalla e l'orecchio per andare a raccogliere la sua biancheria. "Io non ti faccio domande se tu nel mezzo della notte mi dici "ci vediamo direttamente in aeroporto", ma qualche domanda me la faccio se poi mi ritrovo da solo al cazzo di gate e tu non rispondi neanche al telefono! Tuo fratello è di là alle partenze fottutamente in paranoia."

Damon si infila in fretta anche i pantaloni. "Lo so, ho solo-"

"Ti prego dimmi che non ti sei ubriacato di brutto e svegliato nel letto di qualche bionda sconosciuta."

Tiro via il lenzuolo e mi alzo anche io. Trovo le mie mutandine poco più in là sul pavimento, ancora aggrovigliate tra i pantaloncini del pigiama, me le metto insieme alla prima t-shirt che trovo buttata sulla sedia vicino alla scrivania. Quando riemergo dopo averla tirata giù sull'addome ed aver scostato dal volto la massa di capelli ancora arruffati, scopro che Damon mi sta osservando, in pantaloni ancora slacciati ed un buongiorno mattutino al di sotto di essi.

E ha quello sguardo. Azzurro carico, ben poco limpido, quello con cui mi guarda come se intorno non ci fosse nient'altro, quello che è in grado di inebriare e confondere sotto fin troppi punti di vista.

Alaric continua a parlare, o inveire, dall'altro lato del telefono. Non lo so, non sto veramente ascoltando. Nè sono sicura che anche Damon lo stia davvero facendo.

" … e abbiamo quella dannata presentazione domani, quindi farai meglio a muovere il culo, prendere il primo volo ed essere qui entro stasera."

Damon muove alcuni passi verso di me, ci incontriamo a metà strada vicino al bordo inferiore del letto.

"Lo farò," risponde solo.

"E, Damo-"

"Ciao, Ric."

Chiude la conversazione e getta il telefono sul letto, dove atterra con un morbido tonfo.

Restiamo ancora entrambi in silenzio per alcuni secondi. Mi scosto i capelli dal viso, distolgo appena lo sguardo e dondolo sulle punte dei miei piedi scalzi, tutto d'un tratto insicura su come dovrei esattamente sentirmi e su quale sia il protocollo in queste situazioni. Quelle incerte e incasinate.

E' lui a parlare per primo.

"Ho perso il volo."

Annuisco, mi stringo le braccia al petto.

"Ho sentito."

Sollevo appena lo sguardo. Finisce istintivamente per vagare sopra il suo petto svestito, su ognuno dei contorni snelli disegnati dai suoi muscoli asciutti e su quella linea di peluria scura nella parte inferiore dell'addome che corre verso il basso come un invito esplicito e sfrontato. Ho un lampo di quando la notte scorsa ne ho tracciato tutto il percorso con le labbra ed improvvisamente mi sento una persona molto orribile, perché capisco che questo dovrebbe essere il momento in cui torno in me e mi pento di tutto quanto, ma i pensieri che mi si affollano in testa non mi permettono di ragionare molto lucidamente. Rialzo gli occhi, incontro lo stesso liquido blu chiaro incorniciato da capelli ancora spettinati dal sonno.

Parliamo nello stesso momento.

"Forse dovrei …"

"Forse dovresti …"

Ci fermiamo. Ci guardiamo. Dimentico cosa volevo dire. Ho soltanto il cuore che pulsa più forte nelle vene, qualcosa in me che si accende di nuovo, un lungo attimo in cui tutto sembra perfettamente e assolutamente immobile.

Quello dopo con uno slancio chiudo le mani attorno al suo viso, sento le sue dita impigliarsi tra i miei capelli nello stesso momento, e la mia bocca torna ad aprirsi sulla sua senza neanche stare a chiedersi chi dei due abbia cominciato.

Tutto ciò che avevo lasciato prorompere ieri notte è ancora lì, pronto a consumarmi, fuori e dentro, nel calore che mi infiamma la pelle, in quello ancora più prepotente che mi invade le ossa. Stringo le sue labbra tra i denti e circondo con le braccia le sue spalle nude, in una presa che serro ancora più stretta quando le mani di Damon scendono lungo i miei fianchi fino ad afferrarmi le natiche e sollevarmi facilmente da terra.

Lo assecondo stringendo le gambe attorno al suo torace, atterro bruscamente sopra la scrivania. E' ingombra di una moltitudine di cose che cadono a terra in una successione di tonfi e fruscii quando allungo una mano all'indietro, nel duplice intento di cercare sostegno e sgomberare il campo, l'altra ancora salda attorno al collo di Damon.

Persona orribile è il vago pensiero che mi attraversa la mente quando sento la sua lingua sul collo e le sue mani si infilano sotto la maglietta per percorrermi i fianchi a palmi aperti, persona orribile quando le sue dita mi accarezzano le punte dei seni in piccoli cerchi tirandomi fuori sospiri sempre più incoerenti, persona orribile, davvero, davvero orribile, quando penso che dopotutto non sarà una volta in più - una sola - a peggiorare l'entità del mio tradimento.

E subito eccola lì la mia giustificazione, quella che mi autorizza a rimandare a dopo il senso di colpa e ad abbandonarmi appieno, qualsiasi cosa al di fuori di questa stanza troppo lontana per potermi davvero toccare.

Percorro tutto il suo petto con le dita ed insinuo una mano tra i pantaloni già aperti per abbassare i boxer abbastanza da farmi spazio, sposto le labbra sul suo collo mentre lo sento indurirsi ancora di più sotto le mie carezze, alimento con i suoi gemiti rochi nell'orecchio il fuoco e l'urgenza che ho tra le gambe. Le sue dita vanno ad allacciarsi al bordo delle mie mutandine e, come le tirano giù con un movimento deciso, non gli lascio il tempo di fare altro. Lo attiro e lo guido dove ho più bisogno di lui, ancora stretta per la mancanza di preliminari.

Mi riempie completamente, spezzandomi il respiro.

Lo stringo a me, restiamo fermi così. Senza muoverci, senza respirare. Per lunghi, bellissimi, strazianti secondi.

Damon mi sfiora il lobo con le labbra, sussurra piano nel mio orecchio.

"Vieni con me."

Sorrido contro la sua guancia. Il mio tallone scivola sopra la sua schiena, si impiglia tra i pantaloni che abbassa oltre le sue natiche. "Già? … Abbiamo appena cominciato."

Damon ride, una meravigliosa risata bassa e spontanea, mi mordicchia giocosamente la gola. Affonda di più dentro di me, piano, e il mio respiro si spezza di nuovo.

"A San Francisco, oggi. Vieni con me a San Francisco."

Il mio cuore fa un salto così improvviso che non so neanche più dove sia finito. Sposto il volto quel tanto che mi serve per incontrare il suo sguardo, avere conferma che stia dicendo sul serio. Mille parole mi salgono e muoiono in gola nel giro di quel solo secondo, perché soltanto il pensiero è una cosa da pazzi, completamente da pazzi, sbagliata e sconsiderata per così tanti motivi che …

"Sì."

E' a malapena un soffio quello con cui lo dico, e forse l'ho solo pensato e neanche detto ad alta voce. Ma poi è "sì" sopra la sua bocca quando la cerco e mi ci perdo di nuovo. E' un "sì" più forte quando stringe la presa sulla mia coscia, "sì" quando si muove lento e a fondo facendomi perdere il senso della realtà, "sì" quando aumenta il ritmo e vengo così velocemente e intensamente che mi coglie quasi di sorpresa.

Stiamo ancora entrambi respirando pesantemente, con le mie mani attorno al suo viso e qualche strascico di bacio scomposto, tanto che ho a malapena il tempo di riprendermi o capire cosa stia succedendo, quando lo squillo improvviso del campanello ci fa sobbalzare violentemente.

Ci immobilizziamo. Una scarica di adrenalina mi fa schizzare il battito alle stelle.

"Jeremy?" mi domanda cauto Damon.

Scuoto la testa. "Non suonerebbe."

Lo vedo, nell'attimo che passa tra i nostri sguardi, che nessuno di noi ha il coraggio di dirlo ad alta voce, ma che entrambi lo stiamo pensando. Io, subito trafitta dalla colpevolezza che riemerge da dove l'avevo seppellita, estremamente più dolorosa di quanto pensassi, mentre ho ancora le gambe attorno ad un altro uomo. Lui, con quel suo lampo di realizzazione negli occhi - realizzazione di cosa sto pensando, di cosa questo fa di noi e, soprattutto, di cosa fa di lui - e che forse mi fa ancora più male.

"Venditori di bibbie?" suggerisce speranzoso.

Un rumore proviene dal piano di sotto, il mio panico aumenta. Ancora qualche movimento di sottofondo, serrature che girano, la porta di ingresso che sbatte per richiudersi.

"Elena! Lo so che ci sei, ho visto la tua macchina nel vialetto! Alzati, dormigliona!"

Rilascio un sospiro di sollievo che non sapevo neanche di star trattenendo. Almeno finché non incontro lo sguardo di Damon. Mi osserva allibito, mima un nome con le labbra come se fosse un pessimo scherzo: Caroline?

Mi stringo nelle spalle e lui prosegue, la voce poco più di un sussurro per non farci sentire dal piano di sotto, "Come diavolo ha fatto ad entrare?"

"Ha le chiavi," rispondo altrettanto sottovoce.

Fa roteare gli occhi al cielo. "Chi è così pazzo da dare le chiavi di casa a Miss Invadenza Caroline?"

"Elena!" grida ancora la mia amica dal piano di sotto. "Hai lasciato il tuo soprabito alla festa ieri sera, volevo solo riportartelo! Devo venire su a tirarti giù dal letto?"

"Cavolo," mormoro allontanando Damon con una piccola spinta.

Scivolo giù dalla scrivania facendo accidentalmente cadere altra roba nel processo, raccolgo le mutandine rimaste arrotolate intorno ad una caviglia e mi affretto a correre in bagno per darmi una veloce ripulita che mi aiuti a non sembrare un gigante cartello con scritto "Sono appena stata ripassata per bene."

"I miei vestiti," mi ricorda Damon in un altro rapido bisbiglio quando torno in camera tre secondi dopo, una mano a tirarsi su la zip e l'altra ad indicare il corridoio.

Maledizione.

"Resta qui," gli intimo alzando un dito verso di lui.

Lo vedo rivolgere un'altra veloce smorfia al soffitto, appena prima di precipitarmi fuori dalla stanza.

La camicia bianca di Damon è abbandonata per terra sul primo gradino delle scale. Con un piede scalzo la spingo via fin dentro la camera attualmente vuota di Jeremy, di cui chiudo la porta.

"Ehi, Care," la saluto con la mia migliore imitazione di naturalezza iniziando a scendere verso il piano di sotto.

Mi blocco quando arrivo a metà. Caroline è alla fine delle scale, e tra due dita sta tenendo sollevata in aria la giacca nera di Damon, scrutandola assorta. Sento il volto andarmi in fiamme.

"Cosa ci fa questa qui?"

"E' … di Jeremy," spiego subito, coprendo anche gli ultimi gradini alla velocità della luce. "E' così disordinato, lascia sempre tutti i vestiti in giro, glielo dico sempre."

Caroline alza lo sguardo su di me, corruga le sopracciglia.

"Jeremy indossa giacche eleganti?"

"Sì, è per … " Tentenno, porto una mano sulla nuca, mi gratto i capelli. Pensa, Elena, pensa. "L'aveva comprata per andare al prom un paio di mesi fa."

Se la rigira comunque tra le mani, sovrappensiero.

"Pensa che sembra davvero simile a quella che-"

Gliela strappo di mano e la appoggio di traverso sopra il corrimano. Mi ci appoggio contro anche io, con nonchalance. O almeno quella che spero possa sembrare nonchalance.

"Stavi dicendo, che sei venuta qui perché …?"

Incrocio le braccia sul petto, cambio idea. Poso con disinvoltura un mano sulla colonnina della balaustra. Mi sforzo di ricordare quale linguaggio del corpo suggerisca di non avere niente da nascondere.

"Oh, sì, giusto," prosegue lei. Mi porge il leggero soprabito impermeabile appeso al suo avambraccio che, presa da altro, ieri sera mi sono completamente dimentica di riprendere dal guardaroba. "Hai lasciato questo al ballo ieri sera. Tieni. A proposito, perché te ne sei andata così all'improvviso, senza neanche salutare?"

"Mi dispiace, ero … stanca," le sorrido, sperando che non insista più di tanto. "Ho provato a cercarti, ma devi essere stata molto impegnata e non volevo disturbare."

"Oh, capisco …" Per un attimo mi sembra incerta, e se Caroline sembra incerta non è mai davvero un buon segno. Quando però la vedo tormentarsi appena le dita tra di loro, mi rendo conto che non può essere solo per via dell'incongruo tracciamento dei miei movimenti della sera prima. Ma non ho il tempo di approfondire quel pensiero che Caroline scuote appena la testa, scrolla via quella titubanza e mette su uno dei suoi soliti sorrisi. "Senti, facciamo colazione insieme, ti va? Magari possiamo parlare un po', c'è questa cosa che è sicuramente una stupidaggine ma …"

Il mio sguardo scatta velocemente verso il piano superiore, la interrompo prima che possa finire.

"Possiamo … fare un'altra volta? Sono un po' impegnata oggi."

"C'è Jenna di turno al bar, ci sono passata poco fa," mi fa sapere con una breve occhiata sospettosa.

"Sì, lo so, è … per via di Jeremy." Mi dò mentalmente una manata sulla fronte per la mia penosa incapacità di trovare scuse più creative. Immagino Damon, di sopra, che non la smette più di alzare gli occhi al cielo. "Ritorna oggi dal campeggio con i suoi amici a Virginia Beach, ha programmato questa visita al campus di Berkeley e mi ha chiesto di accompagnarlo. Per … qualche giorno."

"Oh." I suoi occhi hanno un moto di delusione, ma lo scaccia via in un secondo. "Oh, giusto. Beh, Damon è ripartito per San Francisco proprio questa mattina, lo so perché Stefan è uscito presto per accompagnare lui e Alaric e … Magari puoi chiamare lui per farti consigliare cosa vedere o dove stare!" mi suggerisce con un gesto delle mani ad accompagnare la sua idea geniale.

Mi gratto nervosamente il retro dell'orecchio. "Certo. Lo farò sicuramente."

Poi realizzo ciò che ha appena detto. C'è un particolare fondamentale che non torna nella sua versione dei fatti. Stefan dovrebbe averle detto che Damon non è esattamente all'aeroporto in questo momento. Probabilmente sarebbe meglio non farglielo notare, ma …

"Non hai parlato con Stefan da stamattina?"

Quando i suoi occhi saettano su di me, brillano di un inaspettato moto di colpevolezza. Come se fosse lei, quella che sta nascondendo qualcosa.

"Cosa? No, non ancora, è solo che io …"  Si interrompe. Torna a scuotere la testa. "Davvero, lascia perdere. Non ha importanza. Parliamo quando ritorni, ok? Può aspettare. Saluta Jeremy!"

Sorride convinta, agita una mano nell'aria e sparisce verso la porta prima che io riesca ad aggiungere altro. Ma sono lo stesso ancora un po' disorientata, quando torno al piano di sopra e apro la porta di camera.

Damon è seduto sul davanzale interno della finestra, sbircia cauto dalle tende probabilmente per assicurarsi che Caroline davvero se ne sia andata.

"Ok," esordisco corrugando la fronte. Indico con una mano la finestra, nella generale direzione da cui Caroline è appena uscita. "Tutto ciò è stato a dir poco … strano."

"Strano?" mi fa eco lui, lasciando ricadere la tenda per voltarsi verso di me. "E' stato una totale disfatta. Sei pessima come bugiarda. Cos'era tutta quella roba assurda su Jeremy?"

Quindi avevo ragione. Occhi alzati al cielo per tutto il tempo.

"Esattamente," dico raggiungendolo a passi decisi. "E lei se l'è bevuta. Non ha fatto domande. La Caroline che conosco io mi avrebbe sbugiardato in due secondi netti. Ha un radar micidiale per queste cose, e stamattina era completamente fuori uso. Qualcosa non andava. Magari dovrei …"

"Non darci troppo peso." Damon scrolla le spalle. "Se dovessi tirare a indovinare? Ha avuto qualche stupida scaramuccia con mio fratello la scorsa notte, qualcosa che lui ha o non ha detto, qualcosa che ha o non ha fatto. Fanno sempre così. Lei fa l'offesa senza dirgli perché, prima o poi ci arriva anche lui, e in men che non si dica tornano ad essere quelli di sempre, di solito dopo qualche bizzarro giochetto di ruolo in camera di letto. Non vorresti essere nella stanza accanto quando accade, fidati. Ehi …" Mi prende una mano e mi attira verso di sé. Mi fa sedere tra le sue gambe e scivola con un braccio attorno alla mia vita. Mi lascio andare alla piacevole sensazione del suo petto nudo contro la mia schiena, e sono attraversata da un brivido di pelle d'oca quando posa un piccolo bacio alla base del mio collo. Continua a voce più bassa, "Sei ancora sicura del fatto di venire con me? O stavamo davvero parlando solo per metafore sessuali?"

C'è una nota esitante nella sua voce che neanche la leggerezza sarcastica che prova a dare alla frase riesce del tutto a nascondere.

Mi serra il cuore in una morsa. Perché mi sta offrendo la possibilità di ripensarci, ed io lo so (lo sa anche lui?) che prenderla sarebbe la cosa giusta da fare. La cosa giusta per Damon, la cosa giusta per il mio fidanzamento già fin troppo malandato. Dovrei prendere le distanze da tutto questo, fermarmi a riflettere su cosa significhi, aspettare che torni Elijah ed affrontarlo, non invischiare Damon così a fondo nei miei dubbi più di quanto abbia già fatto. Fare la cosa giusta.

Solo che …

Solo che c'è questo fremito che mi anima dentro, anche adesso che Damon mi accarezza piano l'avambraccio con le dita, a cui non voglio ancora rinunciare. Solo che c'è la strana euforia che l'idea mi provoca, c'è il calore delle braccia di Damon, e c'è, più insidiosa di tutto, la voglia di fare la cosa più sbagliata di tutte. Mi mordo leggermente le labbra.

"Sì," dico. "Lo sono."


***


E' sorprendente quanto sia facile. Passarla liscia con le bugie, scivolare in una zona grigia dove inventare scuse da vendere a me stessa e agli altri.

Dopo che Damon mi ha confermato di aver trovato posto in un volo nel primo pomeriggio, non ho dovuto fare altro che chiedere a Jenna di occuparsi della gestione del locale per qualche giorno e chiamare Jeremy, per perfezionare una storia di copertura che è improvvisata, debole e piena di falle, ma che per il momento mi tiene al riparo da spiegazioni e confronti, e questo è ciò che conta.

Mio fratello non fa domande, o perlomeno non ne fa di troppo compromettenti. Davanti alla mia peculiare richiesta, tutto ciò che il suo atteggiamento da vivi-e-lascia-vivere riesce a partorire è un "Quindi sono con te a Berkeley per qualche giorno, quando in realtà non faccio che prolungare le vacanze?"

"Esatto."

"Per quanto?"

Faccio scattare la chiusura del trolley con un piccolo click. Non ne ho idea.

"Ti farò sapere."

C'è una piccola pausa dall'altro lato della linea, colmata da vento, schiamazzi e altri rumori di una spiaggia affollata.

"Ma vai davvero a Berkeley?"

Mi siedo sul bordo del letto, sulle lenzuola che sono sfatte e stropicciate. Ci passo sopra le dita, sembrano ancora avere forma e odore della notte passata, ed il buonsenso mi dice che dovrei cambiarle. So già che non lo farò.

"Più … o meno."

"Devo chiedere?"

Sposto il telefono sull'altra spalla, chiudo gli occhi e inspiro. "Meglio di no."

Quando li riapro l'attimo dopo, lo sguardo mi cade sul comodino dove, nella stessa posizione di precario equilibrio contro il bordo di un libro in cui si regge da ieri notte, l'anello di Elijah giace messo da parte senza che nessuno glielo abbia davvero chiesto. Riflette la luce che entra dalla finestra, limpida come può esserlo solo subito dopo un temporale, e brilla in quello che sembra quasi un moto di protesta quando inclino la testa di lato.

"Va bene," dice Jeremy con un sospiro, mentre io mi sporgo per prenderlo in mano, tenendolo fra il pollice e l'indice come se potesse davvero suggerirmi cosa farne di lui. "Ma, 'Lena … Almeno, lo sai cosa stai facendo?"

C'è una nota di preoccupazione fraterna nel modo in cui lo chiede, una di quelle che sembrano voler dire "Chi è che devo prendere a calci per te?" e che riescono sempre a sorprendermi quando meno me lo aspetto. Mi farebbe sorridere, se non fosse che mi fa d'un tratto sentire stranamente vulnerabile.

"No," ammetto piano. Mi rigiro l'anello tra le dita un'ultima volta e lo poso con cura sul fondo del cassetto, che chiudo con la speranza di lasciare lì tutto ciò che potrà tornare a perseguitarmi in un altro momento. "Non lo so."

Non sono sicura, però, che funzioni davvero. C'è una indefinibile sensazione di disagio ad accompagnarmi nel viaggio verso l'aeroporto dove sto andando ad incontrare Damon, pensieri che non sono spazzati via neanche dal vento fresco che soffia dallo spicchio aperto di finestrino e dalla radio che ho alzato ad un volume più alto del solito.

Quando sono diventata questa persona? Quella che mente alle persone che ama - a Jenna, alle mie amiche, ad Elijah … oh dio, Elijah - e agisce furtivamente come una qualsiasi adultera quando un uomo meraviglioso che la ama è ignaro di tutto all'altro lato del mondo. Elijah che non merita un simile trattamento. Elijah che non chiama, non lo fa da un paio di giorni. Elijah che mi sta dando spazio come ha detto che avrebbe fatto, con la voce incerta, nella nostra ultima e breve telefonata piena di silenzi prima che io tradissi così i suoi sforzi e la sua fiducia.

Il pensiero fa così male, mentre porgo documenti e biglietto e passo oltre i controlli per dirigermi al gate, da farmi vedere con estrema chiarezza quanto io stia facendo una stupidaggine immane.

Penso che sono ancora in tempo per tornare indietro, andare a riprendermi l'auto dalla zona a sosta prolungata, dire a Damon che è stato un errore (è ancora un errore, c'è una fastidiosa vocina che lo sa, anche se io continuo a non darle ascolto) e che non avrei mai dovuto neanche arrivare fin qui.

Ecco cosa sto per dirgli, prendendo un respiro profondo, quando lo vedo comparire e sedersi accanto a me sulle scomode sedie di metallo dell'affollata lounge d'attesa.

Ma tutte le parole e le frasi che mi sono preparata si dissolvono sulle mie labbra, non appena Damon si volta verso di me e, invece di salutare come farebbe una persona normale, mi porge un mezzo sorriso compiaciuto ed una mini-confezione appena aperta di Froot Loops.

Lo osservo sconcertata per alcuni secondi, un po' presa alla sprovvista ed un po' incredula che davvero si ricordi ancora della mia insana propensione verso ogni genere di cereali disgustosamente zuccherati, mentre lui si lancia nella storia di come è riuscito ad ottenerli mettendo contro tra di loro due ragazzini che si stavano litigando per l'ultima confezione e poi soffiandogliela da sotto il naso.

E poi, dal niente, mi fa scoppiare a ridere. Non riesco a farne a meno, non riesco a fermarmi.

E' così stupido, è così fuori luogo, è così senza senso. Ma è anche così vero, e così stranamente liberatorio, che non ha più importanza quanto sia un errore.

Sono qui, sto ridendo ed è come respirare di nuovo.


Non era esattamente un segreto, non in senso stretto. Insomma, non avevo mai avuto veramente  intenzione di tenerlo nascosto o di mentire al riguardo.

Ma era … nostro. Qualcosa che non mi andava davvero di condividere con nessun altro.

Dopotutto, poi, non capitava neanche tutte le notti. Solo alcune, solo quelle in cui non credevo di riuscire a prendere un solo altro respiro, al pensiero di passarle da sola. Quelli erano i casi in cui non riuscivo a stare lontana da Damon.

Le giornate le trascorrevo quasi interamente al Grill, ore strascicate che si appiccicavano addosso come il caldo umido di giugno. Senza la scuola a distrarmi, tutti i sottili cambiamenti in atto già da un po' mi erano diventati tutto d'un tratto più palesi che mai.

Tavoli sempre più vuoti. Meno personale stagionale. Avvisi di pagamenti che si accumulavano sulla scrivania dell'ufficio. Mio padre che silenziosamente affogava in tutto questo.

Era un circolo vizioso di sobrie apparenze nella facciata dietro al bancone, quieta autodistruzione in bicchieri bevuti di nascosto, sbalzi di umore ed un estraniamento dal mondo esterno in cui preferiva tornare a crogiolarsi invece che affrontare le cose.

Ero arrabbiata, arrabbiata come non lo ero mai stata. Come poteva non voler vedere? Non vedere come Jeremy fosse sempre più solitario e taciturno, non vedere quanto io e mio fratello avessimo bisogno di lui, e non solo nei giorni buoni quando si ricordava che non avremmo dovuto prenderci da soli cura di noi stessi.

Era una rabbia chiusa che in superficie non ci arrivava mai. Se solo le avessi permesso di farlo, avevo paura che tutto sarebbe andato ancora più in frantumi di quanto non lo fosse già.

Così, ero arrabbiata con lui ed ero arrabbiata con me stessa - colpevole di essere così persa e impotente, colpevole di non poter fare di più.

Non mi sono mai chiesta, perché Damon. Perché scivolare fuori di casa quando nessuno se ne accorgeva per andarlo a cercare, perché averlo accanto diradasse quel temporale dentro che non aveva sfogo, o perché il leggero brivido dato dal fare qualcosa che non avrei dovuto fosse così rinfrescante nell'aria tiepida delle notti estive.

Era così e basta. Con Damon, non avevo bisogno di spiegare. Non avevo bisogno di capire.

Avevo sempre un po' timore, ogni volta che giravo la chiave nella sua porta, di non trovarlo da solo, di trovarlo insieme ad un'altra ragazza (la sua ragazza) al mio posto sul divano o sul letto che reclamavo come miei senza averne diritto. Ma non mi capitò mai.

Quando in alcuni casi lo trovavo già lì, qualsiasi cosa stesse facendo a quell'ora tarda - leggere sdraiato scomposto sul divano, lavare tazze della colazione rimaste ad aspettare l'intera giornata - mi gettava un breve sguardo e tutto andava naturalmente al suo posto, come se stesse aspettando e già sapesse. Ma la maggior parte delle volte rientrava tardi ed io mi appisolavo prima che fosse tornato, continuando poi a fingere di essere addormentata anche quando spegneva la luce e si sdraiava piano accanto a me. Tacite abitudini che avevamo preso fin troppo in fretta.

Delle notti, gli sentivo addosso l'odore della sua ragazza. Solo una vaga scia di quel vivace profumo di agrumi in cui Michelle era sempre avvolta, residui rimasti nell'incavo del suo collo o sulla stoffa della sua maglietta. Il mio stomaco diventava più stretto, ed odiavo quella sensazione.

Mi portava a domandarmi se anche lui sentisse Matt su di me, se sentisse la traccia delle sue mani e dei suoi baci, quelli infilati tra una pausa e l'altra al Grill, quelli senza maglietta sul divano di casa mia dopo che mi aveva accompagnato ed aver mandato Jeremy in camera sua.

Il pensiero - starsene lì, sdraiati accanto, con addosso altre persone - mi lasciava in bocca un sapore sbagliato. Mi ripetevo che non avrebbe dovuto, che non facevamo nulla di male, non ne avevamo intenzione (me lo ripetevo anche quando uno sfioramento accidentale o uno sguardo protratto troppo a lungo mi coglievano impreparata - un battito più veloce, un breve sentirmi più viva sul fondo del petto. Piccoli incidenti, niente su cui soffermarsi, archiviati in fretta). Ma, a dispetto di questo, continuavo a tornare. Damon continuava ad essere lì.

Al mattino me ne andavo sempre presto, molto presto, abbastanza da poter scivolare di nuovo in casa senza essere notata - un sacco di albe di luce fredda e cielo rosa, giallo pallido appena sotto la linea dell'orizzonte. Lasciavo che Damon continuasse a dormire, sottraendomi piano al braccio che aveva posato mollemente sul mio fianco, o districando la gamba che avevo intrecciato con la sua.

A volte restavo appena un attimo di più a guardarlo, prima di andarmene davvero. I capelli scarmigliati sulla fronte, il leggero cipiglio delle sopracciglia, la curva forte delle labbra. Era bello. Lo era sempre, è vero, ma c'era qualcosa di più in quel momento in cui, da addormentato, smetteva lui stesso di esserne consapevole e di usarlo come apparenza (anche se, un paio di volte, mi ero chiesta se fosse sveglio e stesse solo fingendo. Piccole spie - una leggera contrazione della bocca, palpebre chiuse con troppa fermezza). Era anche quello niente più che un piccolo piacere furtivo, rubare una cioccolata pregiata e gustarla quando nessuno può vederti.

Era forse ancora più presto del solito la mattina che infilai le converse, afferrai la mia borsa dal divano, e qualcuno bussò forte contro la porta facendomi congelare di scatto nel bel mezzo dell'ingresso.

Gettai un'occhiata perplessa all'indietro verso la zona letto dove Damon si era appena mosso bofonchiando qualcosa nel cuscino, e poi di nuovo verso la porta. Inclinai timidamente la testa per sbirciare verso la finestra. Altri colpi violenti mi fecero sobbalzare.

Chi mai andava a bussare così a qualcuno alle cinque e mezza del mattino? Suo fratello, suo padre,  la sua ragazza, chi …

"Andiamo, bastardo, sorgi e splendi!" rimbalzò dall'altro lato dalla porta risuonando nel piccolo appartamento, le parole sovrapposte e strascicate in un marcato accento inglese.

"Cristo," biascicò Damon dietro di me, passandosi una mano svogliata tra i capelli e superandomi diretto verso l'ingresso.

"Damon!" lo richiamai in un sussurro. Si girò verso di me con un laconico "Buongiorno anche a te, Elena," che chiaramente non aveva colto l'occhiata eloquente con cui gli stavo intimando di non azzardarsi ad aprire la porta, dalla quale proveniva adesso un cantilenante " wakey wakey …".

"Non puoi aprirgli!" lo fermai posandogli una mano sul braccio. Ancora stordito dal sonno, guardò prima la mia mano, poi il resto del mio volto e la mia espressione nervosa. "Cosa penserà a trovarmi qui …"

Damon scrollò le spalle. "E' solo Enzo. Non se ne accorgerà neanche," rispose, ed aprì prima che avessi il tempo di aggiungere altro.

Il suo amico non entrò. Si riversò all'interno con un passo incespicante, finendo dritto addosso a Damon e circondandogli le spalle con un braccio. Mormorò qualcosa molto simile ad un affettuoso " bloody bastard".

"Cosa cazzo ci fai sveglio a quest'ora?" domandò Damon quando riuscì a staccarselo di dosso e ad indirizzarlo verso uno degli sgabelli accanto al bancone dell'angolo cottura.

Enzo ci si sedette sopra un po' malfermo.

"Mai andato a dormire," replicò lampeggiando un sorriso nella sua direzione. Si piegò appena per prendere qualcosa dalle tasche, posò tutto sopra il bancone. Aveva gli occhi arrossati e l'inconfondibile odore di alcol non ancora del tutto smaltito.

"Dunque, ho grandi notizie," proseguì iniziando a frugare tra le cose che aveva tirato fuori. Strappò un cartoncino, lo piegò e se lo mise sull'orecchio, aprì una sigaretta spargendo ovunque fili  di tabacco e prese a mischiarlo con dell'erba presa da un sacchetto trasparente. Poteva pure essere ancora ubriaco, ma in quei movimenti era rapido e preciso. "Sai come parliamo sempre di mandare a fanculo questo posto, partire e andare verso New York?"

Corrugai la fronte. Quella mi era nuova. Sapevo che Damon non aveva voluto prendere il college in considerazione, sapevo che c'era ancora aperta quell'opzione Dartmouth per cui suo padre continuava a fare pressione, sapevo che stava pensando a cosa fare dopo il liceo, ma … Enzo e New York? Di quello non ne avevo mai sentito parlare.

Una strana fitta mi chiuse appena la gola. Però forse non significava niente. Forse Damon era confuso quanto me. Mi voltai verso di lui per osservare la sua reazione. La sua espressione non dava via niente, ma certamente non era confuso. La fitta si fece un po' più acuta.

"Beh," proseguì Enzo, leccando il lato della canna che aveva appena finito di chiudere, "Indovina un po'? Ho trovato un paio di zii imparentati con quello scherzo di padre che non ho mai visto. Hanno un pub a Williamsburg, lavoro assicurato quando vogliamo. Dì di sì, e possiamo partire domani stesso."

Enzo finì con un sorriso gongolante, accese la canna, soffiò via una boccata.

Si accorse di me.

"Cosa ci fa lei qui?" domandò allungando il braccio nella mia direzione abbastanza da avvolgermi in una nuvola pungente di fumo che scacciai agitando una mano sotto al naso, ma il volto e la domanda entrambi rivolti a Damon. Poi si illuminò. "Ooohhh …"

"No, nessun oooh," mi affrettai a chiarire, mentre Damon piegava la testa e si portava una mano a massaggiarsi la radice del naso, "Noi non-"

"Aspetta, adesso non dirmi che questo cambia le cose?" mi interruppe Enzo come se non avessi neanche parlato, con lo sguardo accigliato e quasi offeso sempre rivolto solo e soltanto verso Damon.

"Che cose?" domandai, spostando lo sguardo confuso tra uno e l'altro. "Quali cose?"

Damon sfilò con decisione la canna dalle dita di Enzo.

"Sono le cazzo di cinque del mattino. Prendi il divano, prendi il letto, quello che vuoi. Smaltiscila e poi ne parliamo."

Enzo si alzò facendosi leva sul bancone, si appoggiò con una mano sulla spalla di Damon, gli diede un paio di pacche e barcollò verso il letto dove collassò occupandolo per intero.

Damon si sedette su uno degli sgabelli, diede anche lui un lungo tiro, lo sguardo sulla parete di fronte. Sorvolai sul chiedergli come facesse sul serio a fumarsi quella roba a quest'ora del mattino dopo essere appena uscito dal letto e mi sedetti di fronte a lui. Avevo la voce appena più acuta del normale.

"New York?"

"Sono solo chiacchiere."

Si sporse per farsi scivolare davanti un piattino da caffè, ci scrollò la canna, si strinse nelle spalle.

Incrociò i miei occhi, mi scrutò per un lungo secondo come nel tentativo di capire cosa stessi pensando. Aveva un'aria così stropicciata, con i capelli alzati in testa, gli occhi azzurri ancora un po' annebbiati, e quella spirale di fumo che saliva in mezzo tra noi due.

Ma io non sapevo cosa stavo pensando. Perché, improvvisamente, quelle "chiacchiere" mi apparivano la minaccia più tangibile in grado di portarmelo via, più di qualsiasi Dartmouth, più di qualsiasi college che io stessa gli ripetevo sempre di prendere in considerazione.

(Magari in un anno, quando le ammissioni si sarebbero aperte di nuovo. Magari quando anche io sarei stata ad un passo dal senior year, e non doveva per forza significare non vedersi più per chissà quanto tempo. Magari più avanti, magari più tardi.)

Quelle "chiacchiere" erano concrete. Ed io realizzai di non esserne parte.


Cercai di non darci troppo peso. Probabilmente Damon aveva ragione, erano solo discorsi e non stava davvero programmando di andare, almeno non in un futuro immediato, o altrimenti me lo avrebbe detto.

Me lo avrebbe detto.

Nessuno dei due tornò ad affrontare l'argomento neanche nei giorni seguenti. Lui non ne fece parola, ed io mi guardai dal porre domande che non sentivo di avere il diritto di fare. In un certo senso, una parte di me lo aveva sempre saputo che sarebbe successo, che Damon non aveva davvero intenzione di restare per sempre in questa città di a malapena trentamila abitanti [1]. E se io avessi chiesto e lui avesse confermato … Non sapevo se ero pronta ad affrontare l'idea.

Così spingevo anche quella in fondo sotto a tutto il resto, l'estate ad andare avanti come sempre.

"Cinema questa sera?" mi domandò Matt, accarezzandomi lentamente il fianco con la mano.

Dall'angolo di strada in cui ci eravamo appartati per qualche minuto, sbirciai oltre la sua spalla, verso il Grill e le ombre lunghe del pomeriggio che l'edificio e i turisti seduti ai tavolini esterni gettavano sopra il marciapiede. Anche Bonnie era là, una mano alzata a fianco del volto per ripararsi dal riflesso diretto del sole.

Mi stava aspettando, così mi sbrigai a chiudere la conversazione.

"Non lo so," risposi. "Dipende se riesco a liberarmi più tardi."

Matt inclinò il volto, mi lasciò un bacio appena sotto l'orecchio, un altro più giù lungo il collo, risi e mi sottrassi scherzosamente.

"Mi aspetta un'infernale settimana al lago Roanoke con la mia famiglia da domani, non posso pensare di non vederti. Mi mancherai."

Oh. Avevo completamente dimenticato, ma non glielo diedi a vedere. Strinsi le braccia attorno al suo collo, mi sporsi per baciarlo sulle labbra.

"Anche tu mi mancherai. Vedrò cosa posso fare, ok? Ti chiamo più tardi, promesso."

Mi sarebbe mancato davvero, anche se il pensiero mi provocò una minuscola, colpevole, onda di sollievo. Tenere la mia storia con Matt un territorio libero dai problemi della mia incasinata famiglia, in cui non avevo nessuna intenzione di coinvolgerlo, stava diventando sempre più complicato di giorno in giorno (a volte desideravo che non passasse a trovarmi così spesso) e la prospettiva di una settimana in cui non avrei dovuto preoccuparmi di bilanciare le due cose non sembrava poi così male.

Lo salutai con un altro bacio veloce e mi avvicinai al tavolino di Bonnie, che alzò subito lo sguardo su di me, accogliendomi con un sorriso.

"Dov'è Caroline?" le domandai, sedendomi accanto a lei. "Sbaglio o il suo messaggio diceva: ´Riunione urgente emergenza vestito´?"

"E' in ritardo," rispose lei, subito dopo corrugando la fronte soprappensiero. "Il che è strano. Caroline non è mai in ritardo, soprattutto quando si tratta di assillarci con questa storia di Miss Mystic Falls. Non ti pare … sospetto?" Bonnie proseguì sporgendosi verso di me, in velato tono cospiratorio. "Penso che stia nascondendo qualcosa."

Mi strinsi nelle spalle, ci pensai anche io. Non avevo visto molto Caroline nelle ultime settimane, ma avevo semplicemente dato per scontato che fosse solo estremamente presa dalla maniacale preparazione per la sua imminente partecipazione a Miss Mystic Falls.

"Non so," risposi. "Forse …"

Mi interruppi quando vidi una testa bionda apparire dall'altro lato della strada. Gettò una veloce occhiata dietro di sé, si lisciò il leggero vestito chiaro e quindi mise su un ampio sorriso nel dirigersi verso di noi.

"Buongiorno!" esordì afferrando una sedia dal tavolino di fianco e sedendosi tra noi due.

"E' pomeriggio," le fece notare Bonnie. "E sei in ritardo di venti minuti."

"Può capitare," scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo per tuffare le mani a prendere qualcosa nella propria borsa.

Ne tirò fuori un'agenda imbottita di ritagli, con le sue iniziali intrecciate disegnate sulla copertina in un pennarello a brillantini, seguite appena sotto dalla scritta "Progetto Miss Mystic Falls."

"Quindi," iniziò raddrizzando le spalle nell'aprirla. "Il vestito. Devo scegliere il colore. Questo azzurro," fece scivolare davanti ai nostri occhi una fotografia, "farebbe risaltare i miei occhi, ma questo verde," altra fotografia, "si intona meglio con-"

"Cos'è quello?" la interruppe Bonnie.

Caroline scattò su, allargò lo sguardo. "Quello cos-"

"E' un succhiotto?"

Caroline si portò istintivamente una mano sulla base del collo, proprio mentre Bonnie si allungava per andare a scostare il leggero foulard a fiori che la mia amica portava legato in un grazioso nodo laterale.

"Certo no!" protestò con voce acuta.

"Certo che lo è!"

"Fammi vedere!" mi intromisi sporgendomi anche io dalla sedia.

Caroline si scostò stizzita da entrambe e si rimise a posto il fazzoletto mandandoci occhiate fulminanti. Era un succhiotto.

"Oh, andiamo," le sorrise Bonnie. "Chi è?"

"Nessuno," replicò decisa Caroline, tornando a sfogliare indispettita le pagine della sua preziosa agenda.

Bonnie si rivolse a me. "Secondo me è Jesse."

"Nah, secondo me è Nick," le feci eco.

"Smettetela."

"Basta che non sia di nuovo Tyler," proseguì Bonnie facendo finta di non averla sentita.

"Ah!" esclamai in segno di vittoria, strizzando l'occhio alla mia amica. Quel gioco era troppo divertente. "Secondo me è Stefan."

"Non è Stefan!" sbottò Caroline. "Perché deve sempre trattarsi di Stefan?"

"Uhm, perché hai una cotta per lui da almeno un anno?" le ricordai.

Bonnie alzò gli occhi al cielo ed io sperai che non partisse di nuovo con il suo ritornello su quanto poco le andassero a genio tutti i membri della famiglia Salvatore, il fratello del soggetto in questione per primo.

"Beh, magari mi è passata," replicò alzando il naso all'insù. "Magari sono andata avanti. Magari non mi fanno più effetto quei suoi intensi occhi verdi, le sue spalle larghe, o quella sua aria sempre seria che lo rende così incredibilmente …" Si fermò, scosse fermamente la testa, la bocca piegata in una smorfia. "Non ho intenzione di parlare di Stefan."

Sfogliò un altro paio di pagine, senza guardare né me né Bonnie e probabilmente neanche le pagine stesse.

"Voglio dire," proseguì riprendendosi bruscamente le foto che aveva tirato fuori e per rimetterle dentro. "Cosa c'è da dire poi, su Stefan? Ha mollato la ragazza da mesi, gli interessa di chiedermi di uscire? Mi dice che lo ha fatto per me? No!" Chiuse con violenza la sua agendina, due o tre piccoli fogli svolazzarono via e volteggiarono fino a fermarsi ai piedi di una coppia seduta ad un tavolino un paio di metri da noi. Entrambi voltarono le teste perplessi, lei neanche se ne accorse. "Cosa si aspetta, che sia io ad andargli dietro? Quindi basta parlarne. Ho chiuso con Stefan." Prese un lungo sospiro, alzò lo sguardo su entrambe, incerto. "Insomma, voi credete che …"

" 'Lena, c'è un tizio che cerca papà, dice che è importante."

Caroline lasciò cadere la frase, io mi voltai verso Jeremy che era appena comparso accanto al tavolo. Ruotai sulla sedia per portarmi davanti a lui, aggrottai la fronte. "Che tizio?"

Mio fratello sollevò le spalle, le lasciò ricadere in apatia.

"Non lo so. Ma la ragazza nuova dice che è uscito da più di un'ora, e che non sa dove trovarlo."


***


E' sera quando arriviamo.

Ho la testa stordita dalle poche ore di sonno, dalle lunghe ore di viaggio, da tutta la piega degli eventi.

L'altro lato della costa, e tutto ciò che vi ho lasciato, è diventato a poco a poco sempre più distante, sfumandosi in una macchia lontana ed indistinta ad ogni commento sarcastico che Damon mi ha sussurrato nell'orecchio, ad ogni carezza furtiva tra i sedili dell'aereo, ad ogni occhiataccia guadagnata dalla signora della fila di fronte e ad ogni stupida risatina che la cosa mi ha fatto sfuggire, sentendomi sciocca come una ragazzina e non curandomene affatto. La macchia si è sfumata del tutto nell'appisolarmi infine sulla spalla di Damon, cullata dalla vibrazione oscillante dell'aereo, confortata dalla sua mano attorno al mio fianco e dalle leggere carezze delle sue dita.

E' uno stordimento che si abbatte su di me tutto insieme, nei circa venti minuti di taxi che ci portano dall'aeroporto all'appartamento di Damon, luci di una città che non conosco che scorrono alla mia sinistra e la macchia nera di oceano che colma la baia alla mia destra.

Sembra quasi surreale: comportarsi così, sentirsi così. Ma la mano di Damon che torno a cercare nella penombra dell'abitacolo è davvero ancora lì, calda e vicina alla mia, così come è lì il leggero mezzo sorriso che mi rivolge quando distolgo lo sguardo dal finestrino per portarlo su di lui, e quelli no, non sono surreali. Sono così reali da fare male.

Mi bacia come mettiamo piede nel suo appartamento - porta sbattuta alle nostre spalle, trolley lasciati cadere sul pavimento dell'ingresso e luce accesa per sbaglio dalla mia schiena premuta sopra l'interruttore. Mi bacia con le dita attorno al mio viso, mi bacia come se fosse stato un dolore fisico non poterlo fare come si deve, a fondo e a lungo, fino a questo momento.

E la mia testa si fa più ancora più stordita, drogata del peccato colpevole della consistenza dei capelli di Damon sotto alle mie dita, delle sue labbra sul mio collo e della tormentosa frizione che i nostri corpi racchiusi dai jeans stanno cercando.

Faccio scivolare le mani lungo il suo petto, fino a trovare l'orlo della sua maglietta e ad infiltrarci sotto le dita.

"Camera," gli sussurro sulla bocca non appena è tornato all'altezza del mio viso.

Un sorriso malizioso si apre lento sulle sue labbra, lui torna a lambirmi il profilo, "Devo prima mostrarti tutti i pensieri che mi hanno tenuto in vita durante quelle lunghe ore di volo, mentre tu mi sbavavi addosso e gli infernali bambini della fila dietro davano calci al mio sedile."

Non so se ridere e dargli uno scappellotto sulla spalla, o dare ascolto a ciò che l'accenno roco nella sua voce ha appena fatto fremere tra le mie gambe. Mantengo il suo stesso tono un po' leggero un po' provocatorio, sgrano lo sguardo in una finta espressione di innocenza, "Oh, e cosa sarà mai?"

Ma mai sottovalutare Damon, o pensare di batterlo al suo gioco. Gli basta spostare la bocca a sfiorarmi l'orecchio, tre sole parole portate dal suo respiro tiepido.

"Ho una vasca."

***


Era una trappola, ed avrei dovuto saperlo. O forse era solo impazienza, perché riempire la vasca stava prendendo troppo tempo e Damon aveva deciso di smettere di aspettare.

Meglio sollevarmi e buttarmi sotto il getto dell'acqua calda con ancora tutti i vestiti addosso. Avevo inventato per lui nuovi tipi di insulti, avevo protestato e avevo tirato dentro anche lui. Mi aveva tolto il fiato, prima per colpa delle risate mentre l'acqua straboccava ovunque, poi per ben altri motivi quando i nostri vestiti zuppi erano spariti del tutto. Mi aveva tolto il fiato con il suo azzurro offuscato, con le sue labbra socchiuse in estasi ed i suoi capelli a gocciolarmi sulla spalla, con le sue mani e la sua lingua intente a scivolarmi addosso per scoprire nuovi punti e nuovi modi per torturarmi e farmi sua.

Adesso sono affamata e sono esausta, ancora avvolta dalla traccia di vapore di quel bagno prolungato in cui siamo rimasti anche dopo, a viziarci pigramente, e da quel piacevole genere di spossamento che scioglie ogni tensione dalle ossa.

La voce di Damon arriva appena ovattata dalla stanza accanto. E' ancora al telefono a parlare con Stefan, per far seguito alla decina di chiamate perse sul suo cellulare quando siamo riemersi dalla nostra personale bolla di vapore.

E mentre la sua voce mi fa da sottofondo io mi muovo nel suo soggiorno, nello spazio aperto separato dalla piccola cucina che si apre alla destra dell'ingresso, e mi guardo attorno, osservandolo veramente per la prima volta con la cautela curiosa di chi sta per scoprire un nuovo mondo.

Assimilo l'insieme di spazio aperto e legno scuro, di linee pulite e di un'essenzialità che non sa di  limitazione ma di apprezzamento per le cose belle. E mi sembra quasi di sentirla, la stessa traccia nell'aria che era sempre lì ad accogliermi tutte le volte che mi infilavo non richiesta nel suo piccolo spazio vitale. Non importa il tempo che passa ed i posti che cambiano, quella leggera traccia lì, nascosta sotto a tutto il resto … quella è solo Damon.

Cammino verso la libreria che occupa un'intera parete laterale, dove tutto è coperto da un sottile strato di polvere impalpabile, quella che si deposita quando manchi da un po' di tempo. Ci sono un paio di bottiglie di bourbon invecchiato, che riconosco essere abbastanza costose da non figurare nel listino di un bar come il Grill, in uno dei ripiani più alti. Speaker e postazione per l'ipod in uno scaffale più a portata di mano ma nessun cd in vista, anche se mi ricordo che ne aveva sempre avuti molti. C'è però un giradischi poco più in basso, insieme ad una ridotta collezione di LP che mi abbasso in equilibrio sui talloni per poter sfogliare. Sorrido appena, non mi sorprende poi tanto che vengano tutti dagli anni '60-'70.

Mi rialzo e lascio vagare lo sguardo sopra i libri, molto meno ordinati rispetto ai dischi, accostati uno accanto all'altro senza seguire alcun criterio conosciuto. Alcuni sono messi in verticale, altri in orizzontale, i più spessi mischiati ai più sottili. Neanche gli accostamenti hanno davvero un senso. C'è un'antologia di Ginsberg accanto a "Guida galattica per autostoppisti", c'è Chomsky vicino ad una copia piuttosto vecchiotta de "Il giovane Holden" con una "S" scribacchiata di traverso sulla costola, e poi Krugman insieme ad un libro sul Perù. Li osservo e aggrotto la fronte, non proprio sicura di ciò che mi sarei aspettata di trovare.

Quello davanti ai miei occhi è un Damon tutto nuovo, ed improvvisamente non sono tanto sicura di conoscerlo ancora completamente. E' il ragazzo dei miei ricordi che si mischia con l'immagine di lui che mi sono inconsciamente creata tutte le volte che la mia mente vagava a chiedersi chi fosse diventato. E' l'uomo che senza neanche volerlo ho fatto entrare e conosciuto daccapo in questi ultimi mesi, insieme a tutta un'intera parte di lui e della sua vita di cui, realizzo con una punta di amarezza, io non sono mai stata parte.

(Sono sollevata di non aver trovato niente di visibile da poter legare a Katherine - il pensiero di Damon innamorato di lei, in qualche modo, punge ancora.)

Mi volto verso le ampie finestre a soffitto che attraversano l'altra parete, mi avvicino per scostare le tende scure semichiuse e rivelare la vista di luci scintillanti che fluttuano nel buio. Una delle finestre è montata su un pannello scorrevole che porta ad una piccola terrazza abbastanza grande per un paio di sedie ed un tavolino da caffè, le cui sagome si intravedono a malapena in mezzo all'oscurità. Faccio scattare l'apertura e metto piede all'esterno, ma vengo subito accolta da una folata di vento freddo che di estivo ha molto poco e che mi fa immediatamente rabbrividire nel leggero vestito a maniche corte in cui mi sono cambiata, costringendomi a passarmi le mani lungo gli avambracci.

"Clima adorabile, vero?"

Mi volto verso la voce di Damon, che si è appoggiato a braccia incrociate contro lo stipite della finestra aperta, con la luce interna ad illuminarlo e l'ombra di un sorriso a piegargli le labbra mentre mi osserva. Si è cambiato anche lui, in una maglietta bianca ed un paio di vecchi jeans chiari che gli cadono un po' sformati sulle anche. Ha i capelli ancora umidi disordinati sulla fronte.

Mi stringo un po' di più mentre un'altra ventata mi scompiglia i capelli.

"E' sempre così?" domando.

"Mmm uhm," mormora in risposta, indicando con un cenno della testa una direzione imprecisata al di là del parapetto. "E' l'oceano."

Si stacca dalla soglia e mi raggiunge al limitare del davanzale. Allunga una mano per spostare una delle ciocche che continuano piano a svolazzarmi sul volto, ed io inclino istintivamente la testa verso il suo tocco. Ho sempre amato il modo in cui lo fa, e non so se mi sono mai presa il tempo per apprezzarlo davvero.

"Stefan ti ha detto per caso qualcosa su Caroline?" chiedo, mentre poso le mani sul suo addome in cerca di calore, percependone le linee definite sotto al cotone.

Non sono ancora riuscita a scrollarmi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di strano in lei quella mattina. Avevo anche tentato di ripercorrere mentalmente la serata e i giorni precedenti, ma senza riuscire a trovare indizi o spiegazioni plausibili, solo una Caroline affaccendata su un sacco di cose. Ma è anche vero che Caroline tende spesso ad usare le sue fisse come valvole di sfogo quando qualcosa la turba, quindi è sempre difficile intuire cosa le stia passando per la testa. Durante il viaggio avevo pensato di chiamare Bonnie e chiedere a lei di capire qualcosa, ma Bonnie avrebbe fatto domande ed avrebbe preteso risposte, e so che con lei non sarei stata in grado di scamparla facilmente. Meglio non tentare troppo la sorte. Vigliacca.

"No," scuote la testa Damon. "Troppo impegnato a torchiarmi per la mia piccola sparizione di stamattina."

Le sue dita continuano ad accarezzarmi tra i capelli, piuttosto inutilmente visto che continuano a svolazzare un po' ovunque, ma va bene così perché non voglio che smetta.

"Ti ho messo nei guai?"

Un veloce sorriso ironico. "Non più del solito."

Stringo la stoffa sotto le mie dita e mi sporgo in avanti per posare le labbra sulle sue. Le apre per me scivolando con la mano sulla mia nuca, ed è forse la prima volta, da questa mattina, che lo bacio davvero per il gusto di un bacio, non distratta dalla frenesia di toglierci i vestiti di dosso. Ha un sapore diverso e nuovo, denso e lento. Mi entra dentro piano. Più a fondo di quanto avessi intenzione di permettergli.


Damon porta i due piatti in cui ha appena trasferito il "miglior pad thai di San Francisco", si siede accanto a me che lo aspetto sul divano con le gambe rannicchiate.

(Il frigo era vuoto, abbiamo considerato l'idea di uscire per mangiare. E' durata i cinque secondi necessari a realizzare tutto ciò che nei luoghi pubblici non è possibile fare.)

Gli sorrido e gli porgo il vino bianco che io ho versato per entrambi nel frattempo. Di solito non bevo, soprattutto senza un'occasione, ma del resto di solito non sono all'altro capo degli Stati Uniti in una situazione in cui non avrei mai pensato di ritrovarmi, quindi presumo che in uno strappo in più non ci sia niente di male.

Ne bevo a malapena due bicchieri, ma la mia soglia di tolleranza è talmente limitata che, per la fine della cena, ho la testa leggera e curiosa. E' ancora piena di tutti quei suoi pezzetti di vita che ho sbirciato prima, pezzi che non conosco di tutto quel Damon che è andato avanti senza di me.

"Come ci sei finito in questa città?" gli chiedo ad un tratto, accarezzando la base del bicchiere con le dita. "Hai scelto tu di vivere qua, o …"

"O mi ci sono ritrovato?" finisce per me. Mette via il suo piatto sul basso tavolino di fronte e, quando torna ad appoggiarsi all'indietro, si sporge verso di me per prendere le mie gambe rannicchiate e portarsele in grembo. Si stringe nelle spalle ed una sua mano mi accarezza sul ginocchio scoperto. "Non lo so. Certe cose succedono e basta, immagino."

"Raccontami," dico, sistemandomi meglio con un gomito sulla spalliera e la testa posata sulla mano. "Cos'è successo con Enzo e New York? Dopo che siete andati … Strade diverse?"

"Qualcosa del genere," risponde. "Si è stabilito a New York, fa il meccanico di auto d'epoca a Brooklyn Heights, ha tre bambini."

"Sul serio?" spalanco lo sguardo. Sorrido, ho qualche problema a conciliare l'immagine dello sbruffone che ricordo con quella di un padre di famiglia a soli 26 anni. "Mi prendi in giro."

"Nope," scuote la testa, sorride anche lui. "Ha trovato questa rossa di origini irlandesi, Maggie, l'ha messa incinta per sbaglio, e dopo il primo ci hanno preso gusto. Due maschi, una bambina, il più grande ha 5 anni. Sono tremendi, lo giuro. Mi chiama "fottuto yuppie" [2] ogni volta che sono in zona e ci vediamo per un paio di bevute."

"E tu, perché non sei restato?"

"A New York? Beh, quando siamo arrivati là … è stato diverso per lui. Ha trovato quello che voleva, qualcosa che gli piaceva." Continua ad accarezzarmi lungo la pelle nuda della gamba, lentamente, quasi distrattamente, ed è una bella sensazione. Lo fa con un istinto naturale, inconscio, quasi non potesse farne a meno. E' su questo che fissa lo sguardo mentre continua parlare, "Io no. Sempre irrequieto, pieno di rabbia, pieno di stronzate. New York può fotterti davvero quando sei così. Non riuscivo a tenermi neanche il più stupido lavoro, sono finito completamente al verde nel giro di neanche un anno."

Gli chiedo di continuare. Rimango ad osservarlo con la testa appoggiata sulla mano e le gambe tra le sue dita, ad ascoltarlo parlare e mettere insieme altri pezzi ad un quadro che, con lui, lo so che non sarà mai davvero completo. C'è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, un altro pezzettino da aggiungere.

Gli ultimi 100 dollari e la discreta dose d'orgoglio spesi per un bus diretto a New Orleans, dalla madre estraniata e il tetto sopra la testa che poteva offrire per qualche mese.

I mesi trascorsi là tra altri lavori saltuari, sua madre che se ne andava di nuovo per un altro posto e un altro uomo, la donna del piano di sotto con il lavandino sempre rotto e appassionate opinioni sul jazz che condivideva con lui ogni volta che gli chiedeva di farle piccoli favori. Si mette a ridere quando gli chiedo se ci andava a letto.

"Magari. Più di quarant'anni, e decisamente un vero schianto. Ma altrettanto decisamente non interessata a me. La sua compagna era morta da poco dopo più di quindici anni insieme. Immagino si sentisse semplicemente piuttosto sola."

Era venuto fuori che la donna, Bree, era una professoressa al Dipartimento di Musica di Stanford in aspettativa per un anno, e quando si era trattato di tornare in California gli aveva chiesto di andare con lei, offrendogli un posto come aiuto tecnico in un nuovo programma di ricerca in Teoria Musicale Informatica [3]. Aveva accettato. Aveva iniziato così ad interessarsi ed imparare qualcosa di informatica; aveva incontrato Alaric, ad una classe di sistemi crittografici in cui lui non avrebbe neanche dovuto essere, quando davanti ad un centinaio di persone quest'ultimo aveva portato il professore sull'orlo di una crisi di nervi trovando almeno dieci falle diverse nel suo sistema nel giro di quindici minuti. Lo aveva avvicinato per farsi spiegare in parole spicciole un paio di nozioni che lo avrebbero aiutato per il lavoro con Bree, offrendo in cambio di fargli da spalla per far finire qualche ragazza nel suo letto alle serate delle confraternite. Ma di serate del genere non ce ne erano mai state molte. Una volta superate le reticenze della sua personalità di natura sospettosa, avevano concordato che bere e sfottere la media di studenti alto borghesi finanziati dai soldi di famiglia era un modo più divertente di passare le loro serate.

"Non sembra così fuori di testa di persona rispetto a come ne parli," gli dico.

"Oh, credimi. Lo è. Lo è quando meno te lo aspetti," mi contraddice Damon con l'accenno di un sorriso furbo. "Ha ricevuto un'offerta di lavoro a cinque zeri da Google quando non era ancora al terzo anno. Ha rispedito indietro l'assegno, con scritto sopra un grosso "Si fottano le corporations". Una cosa del genere ti chiude parecchie porte nella Valley. Perciò, non ha avuto altra scelta che restare bloccato con uno come me per inventarsi qualcosa, trovare i soldi e far accadere le sue idee. Il resto, più o meno, lo sai."

Siamo silenziosi per un momento, quando lui finisce di parlare.

"Così, è questa la storia," dico infine.

"La storia della mia vita?" scherza lui.

Esito.

"La storia del Damon che un giorno ha lasciato Mystic Falls, e non si è più guardato indietro."

Lo sguardo di Damon si alza verso il mio, vi resta qualche secondo. Parla piano quando risponde.

"Non so quanto questo sia vero."

"Non hai mai chiamato. Non sei mai tornato."

Lo dico abbassando gli occhi sulle dita che mi sto tormentando, con una veloce piega delle labbra ed un piccolo tremito nella voce, che non è più la mia ma quella della ragazza che, a dispetto di tutto, dentro di sé forse non aveva mai davvero smesso di sperare che cambiasse idea.

"Non ho mai pensato ci fosse qualcosa da cui tornare."

Annuisco, anche se l'intensità con cui sento che mi sta guardando mi trafigge il petto, insieme a qualcosa che somiglia più ad un'improvvisa fitta di rimpianto. In verità, pensavo da tempo di aver fatto pace con tutto ciò che aveva spinto Damon fuori dalla mia vita. Non gliene avevo neanche mai veramente fatto una colpa, non razionalmente almeno. Dal punto di vista meno razionale, beh, quella forse sarebbe tutta un'altra storia.

Ma non sono sicura se sia il caso di andare davvero ad aprire quel capitolo di spiegazioni che hanno ormai perso da tempo il loro significato, per di più in una situazione ancora incerta come questa, in cui è impossibile prevedere a cosa potrebbe portare.


Il problema non fu gestire il locale per una sera. Non c'era molto movimento in ogni caso, perciò da quel punto di vista io e la nuova ragazza ce la cavammo senza troppi problemi, io tra i tavoli e lei dietro al bancone. Il problema era che Jenna non c'era, sua sorella aveva avuto un bambino e lei era andata a trovarla per un paio di giorni, ed io realizzai che senza di lei, in situazioni del genere, non sapevo più a chi rivolgermi.

Passai la sera a gettare occhiate preoccupate verso l'orologio, anche più volte nel corso di un'ora.

Alle undici, pensai che avrei dovuto accompagnare Jeremy a casa, ma che non potevo lasciare Lanie, che lavorava lì solo dall'inizio dell'estate, da sola ad occuparsi del Grill. Pensai anche che avrei dovuto iniziare a pensare di prendere la patente, perché se mio padre decideva di sparire così per ore intere, avere una macchina mi sarebbe stato utile in più di un'occasione.

A mezzanotte, se ne andò anche Brady che si occupava della cucina, e la sensazione di ansia crescente che mi premeva sullo stomaco divenne più pressante con ogni minuto che passava. Le dita mi tremavano sui vassoi e sui tasti del telefono ogni volta che provavo a chiamare mio padre e ricevevo solo squilli nel vuoto.

Poco prima dell'una, qualcuno finalmente rispose. Una voce maschile che non conoscevo da un bar sulla statale, che mi informò che qualcuno mio padre doveva andare a riprenderselo, perché avrebbero chiuso tra poco e lui non era in grado di tornare da solo.

Il moto di sollievo che mi pervase alla notizia che non gli fosse successo niente di brutto fu di breve durata. Si trasformò rapidamente in una frustrazione sorda e inascoltata giù in fondo al petto, consapevole che domani sarebbe stato a pezzi, non per i postumi ma per la realizzazione di cosa aveva fatto, ed io sarei stata lì a raccogliere anche quelli.

Avrebbe chiesto scusa, non avrebbe toccato alcol per due, forse tre giorni. Ma non avevo bisogno delle sue scuse domani, ne avevo bisogno adesso mentre chiudevo la porta del Grill dopo aver fatto uscire anche l'ultimo cliente e tornavo ad impilare sedie sopra i tavoli.

"Ehi."

Mi voltai verso il richiamo di Lanie, appoggiata contro il tavolo accanto a quello che avevo appena finito di sistemare, con le braccia incrociate sul petto. Mi scrutò un secondo, poi parlò con decisione.

"Devo essere pagata."

Sbattei le palpebre, la osservai disorientata. Mi girai in automatico per dare un'occhiata attorno, come per essere sicura che stesse davvero parlando con me, anche se eravamo le uniche due persone nel locale.

"Non so cosa dirti, devi chiedere a mio padre," risposi incerta.

Alzò appena gli occhi al cielo accennando una smorfia, uno spesso ricciolo nero le cascò in avanti sulle spalle. "Beh, tuo padre non è qui."

Come se non lo avessi notato. Serrai le labbra e mi spostai ad un altro tavolo per fare ordine anche su quello.

"Sarà qui domani," replicai secca.

Lei mi seguì e posò la mano sulla superficie davanti a me, si sporse nella mia visuale per assicurarsi di avere la mia attenzione. "Sono due settimane che ´sarà domani`."

Un picchiettio sui vetri della porta di ingresso mi diede fortunatamente la scusa per non dover cercare giustificazioni che non avrei saputo trovare in risposta a quell'affermazione. La lasciai lì e mi sbrigai ad andare ad aprire.

Damon era appoggiato con una spalla contro il muro appena fuori dall'ingresso, intento a controllare qualcosa sul suo telefono, e la sensazione di puro sollievo che provai nel vederlo fu così intensa e immediata che dovetti fare uno sforzo enorme per trattenermi dal gettargli le braccia al collo e stringerlo forte. Ma doveva essere scritto ovunque sulla mia faccia, perché, non appena sollevò lo sguardo su di me, l'accenno di sorriso già pronto ad estendersi all'angolo delle sue labbra cambiò in un cauto corrugamento delle sopracciglia.

"Qualcosa non va?" mi chiese mentre lo facevo entrare e richiudevo la porta con una doppia mandata di chiave. "Pensavo che ti fossi finalmente decisa a darmi retta e chiamarmi per farti venire a prendere, invece di spuntare dal nulla a casa mia nel mezzo della notte."

Gettai una veloce occhiata verso Lanie, che scosse appena la testa e si diresse a finire di mettere a posto dietro al bancone, ancora in attesa di una risposta e una paga che tardavano ad arrivare. Posai una mano sul braccio di Damon e lo portai in disparte.

"Non ti ho chiamato per quello," dissi, iniziando a spiegare con una punta di nervosismo. "E' mio padre, non è qui. E' uscito oggi pomeriggio, non è più tornato. Qualcuno deve andare a prenderlo in quel bar lungo la statale, ma Jenna non c'è, e non voglio far sapere niente a Matt, e Jeremy sta dormendo sulla poltrona dello studio, e dovrebbe essere a casa, e non sapevo cosa fare, e …"

"Va bene," mi interruppe, il suo sguardo rassicurante a farmi realizzare quanto instabile fosse appena diventata la mia voce. "Posso andare io, possiamo andare insieme."

Allungò le dita per scostare le ciocche sfuggite alla mia coda, piccole carezze delicate tra i miei capelli che mi fecero subito sentire più tranquilla. Annuii e gli rivolsi un piccolo sorriso, ma sobbalzai quando nel locale risuonò un rumore improvviso di vetri infranti.

Mi affrettai a tornare verso il bancone, accanto al quale Lanie, mormorando un "dannazione" tra i denti, stava raccogliendo dal pavimento i pezzi dei due bicchieri che aveva appena fatto cadere.

"Puoi stare più attenta?" le dissi seccata, inginocchiandomi anche io per aiutarla. "E' la terza volta questa settimana."

Si fermò ed alzò il volto per guardarmi socchiudendo le palpebre. "Seriamente?"

Si tirò su in piedi e mi raddrizzai anche io. Il sarcasmo nel suo tono mi fece montare dentro una vampata di irritazione.

"Seriamente," ribattei.

Scosse la testa in qualcosa a metà tra una smorfia e una risata. Allungò le dita sulla schiena per sciogliersi in fretta il grembiule, i vetri rotti ancora sul pavimento. "Dio, non posso credere che sto veramente prendendo ordini da una quindicenne. Non vengo neanche pagata!"

"Ehi," si intromise Damon, comparso alle mie spalle, facendo un passo avanti per porsi davanti a me. "Non trattarla così."

La ragazza si girò verso di me, sollevò le sopracciglia in un'espressione ancora più sarcastica. "Ci si mette anche il tuo ragazzo adesso?"

"Damon, lascia stare," gli dissi con quanta più calma possibile, posando una mano sul suo polso.

Si scansò con un movimento leggero ma deciso, mi ignorò e fece un altro passo in avanti.

"Non è colpa sua, trova qualcun altro su cui rifartela."

"Oh, no, ho chiuso," fu la risposta di Lanie, che alzò le mani e posò con stizza il grembiule aggrovigliato sopra il bancone. "Questo posto è una barzelletta."

Si sporse per afferrare la sua borsa dal ripiano dietro al bar e, a passò spedito, si avviò per sparire oltre la porta.

Meraviglioso. Adesso avevo appena perso l'unico personale in grado di servire alcolici, domani avrei dovuto spiegarlo, e soprattutto ci sarebbe stata una persona in meno ad occuparsi del locale. Sentii la gola bruciarmi di lacrime frustrate e avvilite, troppe cose a bollirmi in petto.

"Perché dovevi farlo?" domandai girandomi di scatto verso Damon.

"Perché?…" ripeté incredulo, una smorfia appena scocciata come se non fossi in grado di riconoscere il grande favore che mi aveva appena fatto. "Oh, andiamo, sono stato perfino gentile."

"Non dovevi farlo!" esclamai con forza, un passo indietro per allontanarmi da lui.

"Era una stupida cameriera che neanche ci voleva lavorare, qui," ribatté lui. Mi venne incontro, allungò una mano verso il mio braccio, mi sottrassi bruscamente. "Si può sapere cosa diavolo ti prende?"

"Non posso …" cercai di dire, ma il respiro mi uscì strozzato, come se tutto d'un tratto non avessi più abbastanza aria nei polmoni, "… Non posso … questo … e se tu ti metti di mezzo … io …" Un altro passo indietro, ma dalla gola non passava più fiato, ed ogni parola era un singulto dolente e affaticato. E poi tutto saltò, in un solo secondo ed in un solo singhiozzo gridato, "Non posso!"

Sentii le braccia di Damon circondarmi nello stesso attimo in cui prorompevo in un pianto dirotto e prepotente, incoerente e rabbioso, una della sue mani a circondarmi la schiena, l'altra sulla testa a tenermi salda contro di lui. Protestai. Cercai di allontanarlo. Singhiozzai e mi divincolai premendo con forza contro il suo petto. Odiavo tutto ed odiavo anche lui, odiavo la maglietta che profumava di Michelle, odiavo quanto lo volessi solo per me, odiavo che fosse lì perché un giorno non ci sarebbe stato più, lo odiavo perché voleva andarsene ed io non potevo biasimarlo, ed odiavo perfino il fatto che non lo avesse ancora fatto perché non capivo cosa diavolo stesse ancora aspettando. Lo spinsi e lui strinse, gli tirai la maglietta e me lo lasciò fare, singhiozzai, singhiozzai e singhiozzai, fino a che non mi cedettero le gambe, ed invece di sorreggermi per farmi rimanere in piedi Damon si accasciò con me, attutendo la mia caduta senza lasciar andare il disastro informe che ero diventata lì sul pavimento del locale deserto.

Singhiozzai fino a che non rimase più niente, niente più resistenze, niente più lacrime, niente a cui pensare. Singhiozzai fino a che non divenni vuota e intorpidita, afflosciata sul suo corpo come una bambola di pezza, con la testa docilmente posata sulla sua spalla, mentre la sua mano ancora mi carezzava la base della nuca ed intorno tornava solo il silenzio.

Non mi sarei più mossa da lì. Sarei rimasta lì per sempre e sarebbe andato bene, sarei rimasta lì per sempre e ci sarebbe rimasto anche lui, il resto dell'universo che continuava stupidamente a muoversi potesse essere dannato.

Strinsi la sua maglietta sotto alle dita, aggrappandomi a quella fantasia. Damon posò piano la testa contro la mia.

Accadde inavvertitamente, per sbaglio.

Le sue labbra mi sfiorarono appena la spalla, sulla pelle nuda lasciata scoperta dalle spalline sottili della canotta. Erano calde, e morbide, appena secche in superficie. Rabbrividii ovunque a quell'accidentale contatto, scintille calde nate dai resti del mio vuoto e del mio torpore.

Non mi sottrassi. Spostai appena la spalla per andargli incontro, chiederne ancora, averne di più.

Damon respirò sulla mia pelle - in un modo irregolare, rotto - e poi la sua bocca si posò di nuovo, prima uno sfioramento incerto, poi una pressione più consapevole e più impura, stringendo la sua presa su di me.

Ero liquida dentro. Liquida in testa e liquida tra le gambe, insensibile ovunque se non in quei due punti così vitali, dove la sua bocca premeva sulla mia spalla e dove il centro delle mie cosce premeva contro il suo fianco. E continuò a sfiorarmi e baciarmi più su verso la base del collo, e non c'era più neanche quell'accenno di secchezza, c'erano le sue labbra aperte e inumidite, la punta della lingua ad assaporarmi la pelle, e c'era ciò che tirarono fuori dalla mia gola, unico suono a risuonare nel locale, un gemito roco di piacere o forse solo un ultimo singhiozzo liberatorio che aveva tardato ad uscire.

Damon alzò il volto, cercò il mio. Lo misi a fuoco tra lo stordimento e gli occhi gonfi di pianto, e lo vidi, per la prima volta. Quello sguardo nei suoi occhi. Più scuro e offuscato, pieno di qualcosa che sapeva di confini da cui non si torna indietro una volta oltrepassati, allettante e spaventoso.

Sbatté lentamente le ciglia, lo abbassò sulle mia labbra.

Il mio cuore batteva selvaggio, perso, al pensiero di cosa stava per fare. Annaspò in mezzo a troppe cose per poterne uscire vivo, annaspò tra altre persone addosso, tra discorsi su New York e tra tutte le certezze che sarebbero state annullate e riscritte da capo. E tutto sembrava così sbagliato e complicato - io ero sbagliata e complicata, ancora più sbagliata e complicata quando ero con lui e mi guardava così.

Scattai via, mi allontanai da lui. Goffamente, con le mani all'indietro a tentoni sul pavimento.

Damon sembrò completamente smarrito per un paio di secondi. Ma fu il cambiamento nel suo sguardo dopo quell'attimo di sconcerto ciò che non avrei dimenticato facilmente. Non era il mio rifiuto il responsabile del ferimento che lo attraversò. Vidi il modo in cui io lo stavo guardando riflesso in quello sguardo, e mi tagliò in due.

"Prendi Jeremy, dovremmo andare da tuo padre," disse guardando da un'altra parte.

Si alzò facendo leva su una mano, si incamminò verso la porta e la sbatté dietro di sé. Rimasi a fissare il punto in cui era seduto fino a poco fa, a chiedermi se non avessimo appena oltrepassato un altro tipo di linea altrettanto irreversibile.


Damon fa scivolare le dita lungo il mio polpaccio, non parla.

Non ha mai pensato di avere qualcosa per cui valesse la pena tornare, e forse vorrei contraddirlo, forse vorrebbe che lo facessi, ma non riesco a dargli del tutto torto. Perché in questo momento, penso che ci siamo fatti così tanto male e così tante volte che anche il fatto di essere qui adesso non è niente di meno che pura follia.

Alzo infine lo sguardo su di lui, rompo un silenzio che è rimasto sospeso troppo a lungo.

"Non sono più quella ragazza," dico piano, e non so se lo dico per convincere lui o solo me stessa.

"Lo so," risponde, annuendo lentamente. Considera un istante la mia frase. "Beh, un po' lo sei."

Ha ragione? A differenza sua, io non ho una storia da raccontare, non ho città o incontri bizzarri, non ho opportunità colte o perdute, non ho errori e non ho cadute. Non lo so cosa ho, oltre ad essere una figlia, una sorella, un'amica o una fidanzata. E' spaventoso, e la mia voce cede appena quando incontro l'azzurro intento del suo sguardo e lo ammetto ad alta voce.

"Non lo so chi sono."

La sua mano si sposta sul mio ginocchio, lo attira a sé per attirare anche me. Posa la fronte contro la mia quando sono su di lui, con le gambe ai lati del suo torace e gli occhi chiusi, a respirare lui e questo momento come se, farlo, potesse davvero aiutare a definire tutto.

"Elena," dice Damon a bassa voce, con le labbra così vicine al mio volto, ed io impiego qualche istante a capire che non mi sta chiamando. E' la sua risposta, la sua personale definizione, e lì sulla sua bocca suona davvero come se fosse abbastanza. "Sempre … Elena."

Riapro gli occhi e poso la mano sopra la sua. Lo invito a farla salire, perché ho bisogno della concretezza del suo tocco per crederci davvero. E Damon sale lungo la mia coscia, sale sotto la gonna che si solleva sui fianchi, sale e sale anche l'altra mano, mentre i suoi occhi sono fissi nei miei e bruciano di un tale intensità che fanno bruciare anche me. Sento il calore divampare dentro, lento e forte.

Gli vado incontro, alzo il bacino, e le sue dita mi sfiorano appena le mutandine. Lascio uscire un basso sospiro, consapevole che sta guardando ogni mia mossa, ogni sfumatura nel mio sguardo. Sono cera fusa.

Mi accarezza a lungo sopra la stoffa, provoca le mie già troppo sensibili terminazioni nervose, l'ennesimo basso sospiro e la sposta delicatamente di lato.

Guardo i suoi occhi farsi più scuri mentre un unico dito scivola dentro, ed è così insoddisfacente e così meraviglioso il modo in cui si muove, che invece di darmi un briciolo di sollievo fa solo aumentare il mio bisogno ancora di più. Glielo dico con gli occhi sempre persi nei suoi, con il respiro sempre più corto, senza parlare.

Due. Più a fondo. Inarco la schiena, chiudo gli occhi e mi mordo le labbra per soffocare il gemito alto che ho rischiato di lasciar sfuggire.

"Non farlo," mi sussurra in un soffio roco a pochi centimetri dal mio volto, e niente è mai stato così sfocato e così nitido di me che sono e non sono più come in questo momento. "Non trattenerti. Non ti può sentire nessuno." Così a fondo … "Solo io."

Lo faccio, e lascio andare. Tutto. Lo bacio con tutto quello che ho e lascio che mi porti sotto di sé, la schiena contro il divano e mani che volano veloci a liberarsi dei vestiti, perché un solo secondo di più senza sentirlo dentro di me e potrei quasi morire.

E poi accade. Accade anche se è tutto sbagliato e complicato, esplode nel petto con la forza di minuscoli granelli in inarrestabile espansione, inaspettata e improvvisa, almeno quanto lo è il pensiero che la accompagna.

Sono felice.

Sono felice e la cosa mi dissolve.

In tanti piccoli pezzi che forse non saprò mai più come rimettere insieme.


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Note:

[1] La stima della popolazione di MF si basa su questa cosa qui


[2] Yuppie: http://it.wikipedia.org/wiki/Yuppie

[3] "Computer-Based Music Theory and Acoustics" è davvero un programma di studi e ricerca all'università di Stanford, collaborazione tra il dipartimento di musica, quello di ingegneria e quello di informatica.


Spazio autrice.

Elena e Damon felici per addirittura un capitolo?

I'm shocked!


Premettendo che i capitoli su Elena sono sempre i più complicati (dopotutto è una donna, noi donne siamo sempre complicate), questo è stato finora il più complicato di tutti, e data la grande quantità di introspezione incrocio le dita di avervi trasmesso qualcosa senza annoiarvi e/o risultare pesante - my god, non vi dico quanto è lungo questo capitolo che facciamo prima.

Quindi non so se sia stata la svolta Delena che speravate, perché Elena evidentemente le idee chiare non ce le ha né probabilmente ha scelto la strada migliore per chiarirsele, ma per ora prendetela così e prendetevi il capitolo relativamente drama free (tanto quando non è uno è l'altro, e stavolta ci pensano i flashback a sopperire).

Siete state meravigliose - meravigliose - nelle vostre recensioni, commenti e nel vostro entusiasmo allo scorso capitolo, e cretedemi che vorrei davvero tanto trovare nuove e non banali parole per ringraziarvi e farvi sapere quanto lo apprezzi. Ho solo grazie, ma sappiate che è davvero sincero.

Qui se volete c'è il gruppo facebook, qui la playlist aggiornata.

un bacio, a presto

ever

   
 
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