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Autore: Haleey Gray    11/09/2014    0 recensioni
" Quel dannato abito lungo era la sua gioia e la sua rovina. Vestito come un pagliaccio a corte, come un paesano a Carnevale, si nascondeva in esso e allo stesso tempo in esso si rivedeva riflesso, specchiato in un mondo e in una realtà dove i suoi pensieri aggrovigliati, le sue aspirazioni strette tra le grinfie dell’animo, incompatibili con l’ideale sociale del tempo in cui si ritrovava costretto, prendevano vita e forma materiale. "
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ezio Auditore
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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  Buona sera a tutti ^^ è la prima volta che pubblico in questo fandom (e che pubblico in generale dopo un secolo) e sono un tantino imbarazzata.
Ho cercato in questa fanfiction di analizzare i pensieri di Ezio completata la storia del secondo capito della saga e iniziata quella del terzo. Un Ezio quindi non ancora del tutto formato, attaccato ancora, seppure in misera parte, a un desiderio di "vendetta" che perderà poi completamente solo nell'ultimo capitolo della saga dedicato a lui (Revelations).
Così è come lo vedo io, ed è quello che mi immagino seguendo attentamente il suo percorso di cambiamento e la sua storia. Ho provato quindi a fare uno studio introspettivo del suo personaggio e dei sentimenti contrastanti che possono essere sorti in lui. Fa o non fa la cosa giusta?
Eh boh. Mi sa che non mi sono spiegata molto bene. AAAAA. Che casino.
Beh provate a leggere, mi farebbe piacere poi sapere cosa ne pensate, nel bene e nel male ^^



Bleeding






Quel bianco che indossava sul corpo, che ne ricopriva i lineamenti e la fisionomia era lì quasi a schernirlo. Sporco di polvere, intriso di sangue, scottato di morte, non si macchiava. Solo il suo animo sembrava assorbire come spugna le colpe e i delitti.
Non aveva chiesto quel manto velato di neve sul cappuccio né di portare nascosta nell’avambraccio quella lama celata. Dopo tutto il tempo passato, ancora ora l’avrebbe voluta sfilare dal cuoio, stringerla forte tra le mani e spezzarla in un solo movimento. Insieme ai frammenti ferrei sarebbero cadute sul pavimento di marmo anche le sue crude responsabilità, i suoi pesanti peccati e gli imperdonabili errori del passato inesauribile, del presente che continuava a trascorrere veloce davanti ai suoi occhi e del futuro, che si ostinava a crescere forte tra l’erba alta di uno sporco mestiere. Ne aveva posto le radici ormai, bevuto la linfa offertagli dal terreno di gloria e dovere. Ne era stato ricoperto, sommerso e trascinato sul fondo. E le sabbie fredde dell’abisso erano diventate presto la sua casa.
Ma dove la gloria iniziava? Dove il dovere terminava?
Quel dannato abito lungo era la sua gioia e la sua rovina. Vestito come un pagliaccio a corte, come un paesano a Carnevale, si nascondeva in esso e allo stesso tempo in esso si rivedeva riflesso, specchiato in un mondo e in una realtà dove i suoi pensieri aggrovigliati, le sue aspirazioni strette tra le grinfie dell’animo, incompatibili con l’ideale sociale del tempo in cui si ritrovava costretto, prendevano vita e forma materiale.
Agiva nell’ombra per servire la luce. Così gli era stato impartito e così il tempo aveva inciso sulla sua giovane pelle, marcando lento ogni singolo suono gutturale. Stampate nella mente, quelle poche parole risuonavano ottuse ogni volta che osservava dall’alto la preda, la sua futura vittima. Si convinceva così che fosse tutto giusto. E in un certo senso lo era, ma spesso non lo capiva.
Aveva imparato in pochissimo tempo a correre veloce tra le vie, a saltare da un tetto all’altro, a battersi per giustizia, a uccidere senza pietà il nemico. Quasi non avesse fatto altro nella sua vita fiorente, nato già tra tegole rossastre e spade affilate. Socchiudendo gli occhi poteva quasi udire le lame scalfirsi a vicenda, scontrarsi con furore, fendere l’aria e stridere al contatto.
Era lì per un solo scopo, quasi losco e moralmente immaturo, per destino forse, per volere del Dio o di qualche altra entità soprannaturale. Si era ritrovato un giorno con quell’insolita stoffa tra le mani, delicata al passaggio del palmo, ruvida allo strusciare di metallo.
Eppure più il desiderio di vendetta veniva appagato, più l’odore di morte continuava a perseguitarlo.
I Pazzi erano morti, i Borgia cadevano uno dopo l’altro sotto la rapida lama. Ma non riusciva a lasciarsi dietro le urla del padre, immobilizzato con il cappio alla gola. Ancora in grado di combattere per la verità, per la pace, per Firenze, nonostante la fine gli fiorisse splendente e ironica sul viso.
Cosa avesse dato in dono di tanto prezioso quella città al padre, a lui e alla sua famiglia ancora bene non lo comprendeva tuttora. Era certezza o incertezza, verità o bugia, realtà o finzione ciò che sentiva costantemente aprirgli il costato, spintonarlo da dietro e ferirlo con spini non appena si arrestava. Il bruciore delle ferite era poi così insistente che ogni volta si prometteva di non ricaderci più, di non dubitare e di non arrendersi neanche se il fiato gli fosse venuto a mancare e a sopprimere il cervello.

Quel bianco che indossava sul corpo, che ne ricopriva i lineamenti e la fisionomia era lì quasi a schernirlo. Sporco di polvere, intriso di sangue, scottato di morte, non si macchiava. Solo il suo animo sembrava assorbire come spugna le colpe e i delitti.
Ezio continuava a correre e ad andare avanti, a farsi strada tra una selva che di chiaro non aveva ben nulla se non l’orrore nascosto al suo interno.  
Più Ezio cercava la luce nell’oscurità, più questa si affievoliva.
Questo perché Ezio non capiva, non capiva che era lui stesso ad essere la luce.







 
   
 
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