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Autore: HeartSoul97    12/09/2014    1 recensioni
Spin-off "A volte non te lo aspetti, ma...".
Un tuffo nel passato di Alex e Jake, le loro estati. Buona lettura.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Estate
 

Terza elementare, inizio di Novembre.
Guardammo tutti la maestra nel momento in cui un bambino con i capelli neri entrava in aula per la prima volta.
Chissà perché, mi risultava familiare. Lo avevo già visto da qualche parte. Solo più tardi capii che lo avevo visto nel mio condominio, perché era il mio nuovo vicino di casa.
«Allora, bambini. Lui è Jake O’Brian e da quest’anno sarà nella vostra classe. Si è appena trasferito, perciò siate gentili con lui!». La maestra gli indicò un banco vuoto a qualche metro dal mio, ma lui si mosse solo dopo averci scrutato a lungo con i suoi grandi occhi di un azzurro grigiastro.
Sean, che era quello che gli era seduto più vicino, provò subito ad attaccare bottone con lui. Dopo riferì a me e a Momo che non parlava molto, perciò pensai che fosse timido.
Quanto mi sbagliavo!
Neanche un mese dopo, era l’idolo dei professori – come faceva a prendere sempre voti così alti? – e degli alunni. Aveva uno spiccato senso dell’umorismo e un carisma come pochi. Tutti volevano starlo a sentire, e io non ero da meno.
Tuttavia, il fatto di essere vicini di casa non aggiustava in pieno le cose.
La mia mamma e la sua, Angela, erano diventate amiche così in fretta che quasi ogni weekend venivano a casa nostra a prendere un tè, perciò io dovevo giocare con Jake. E a casa non era simpatico come a scuola.
Faceva commenti velenosi su tutto e mi prendeva in giro come non mai. Fu un processo graduale. Quando capì che non potevo ribellarmi, allora cominciò davvero a essere antipatico. Sfruttò l’amicizia dei nostri genitori e a scuola cominciò a mangiarsi le mie merendine e a prendermi continuamente in giro. Fu un incubo.
Quando lo dissi ai miei genitori, non ci crederono. Anzi, mi dissero di non essere così cattiva con lui, perché era arrivato da poco e un mucchio di altre scuse. Ero in sua completa balìa.
A pensarci dopo, a mente lucida, non era poi questa gran cosa, solo qualche dispetto. Ma allora mi sembrava orribile. Ero piccola e mi spaventava.
Per fortuna che c’erano Momo e Sean, i miei migliori amici. Se ero con loro Jake era più gentile. Mi sfotteva ugualmente, ma in modo diverso.
Forse non era cattiveria, la sua. Forse era solo un modo per proteggersi, per non mostrarsi debole, ma questo non lo autorizzava a trattarmi come uno straccio vecchio.


Giugno. Fine terza elementare.
Abbracciai Momo con foga.
«Non sparire!» le urlai.
«Sta’ tranquilla! Mi farò viva. Ci rivediamo a settembre, okay?» cercò di tranquillizzarmi, ma ero un fiume in piena. Non volevo separarmi dalla mia migliore amica. Per un’estate intera, poi!
«Anche Sean è andato via. Non lasciarmi sola con quello là» dissi, tirando su col naso.
«Dai, magari scopri che è simpatico»
«Certo, simpatico quanto un pugno sul naso. Devi proprio partire?»
«Lo sai che vorrei restare, Alex, ma non posso. Devo andare. Salutami i tuoi, okay?».
Momo si sciolse dall’abbraccio e fece ciao con la mano. La vidi andare via.
Sarebbe stata l’estate più brutta della mia vita... o almeno così credevo.
Il giorno dopo mia madre e Angela presero un tè insieme e chiacchierarono. Ovviamente Jake era con la madre, ma stavolta si comportò in modo diverso.
«Ti va di giocare?» mi chiese, mostrando un pallone da calcio.
«Non so giocare» risposi, ostile.
«Allora facciamo qualcos’altro. Scegli tu».
Senza replicare presi dei fogli e dei pastelli e cominciai a disegnare. Da piccola mi piaceva tantissimo ed ero bravina, ma crescendo ho perso la mia capacità.
Dopo un po’ sbirciai il suo foglio. I suoi disegni mi sembravano più sconnessi dei miei – perché mettere vicini un pallone da calcio, una tavoletta di cioccolata e una strana figura che solo dopo riconobbi come una nota musicale?
«Che cos’è?» chiesi infine, vinta dalla curiosità.
«Le cose che mi piacciono. Giocare a calcio, la cioccolata e la musica. Mamma mette sempre un sacco di musica». Mi sembrò una risposta così logica e così semplice che mi vergognai del mio disegno.
«E tu che hai disegnato?».
Feci spallucce e, con le guance rosse, risposi.
«Un cavallo».
«Perché?».
Feci di nuovo spallucce.
«Non lo so. Mi andava di disegnarlo e basta».
Lui lo guardò con occhio critico.
«I cavalli hanno il collo più lungo. E le zampe dietro sono diverse». Quell’aria saccente mi diede sui nervi.
«E tu che ne sai?»
«Li ho visti. Nonna aveva alcuni quadri e alcune foto a casa».
Quindi prese la mia matita e, vicino al mio cavallo-non-cavallo, ne disegnò un altro. Aveva un tratto leggero ma molto preciso. Solo in seguito capii quanto quel disegno fosse realistico.
Alla fine poggiò la sua matita sul foglio, con fare soddisfatto.
«Adesso possiamo giocare a pallone?».

Andò avanti così per tutta l’estate. Giocammo ad acchiapparella, a nascondino, a rincorrerci per il palazzo – ormai i signori Callahan, quelli del secondo piano, ci detestavano – e nel cortile con il tubo dell’acqua del garage di papà, quando faceva caldo. Non pensavo che potesse essere così divertente giocare con Jake. Era un’altra persona, non quel bambino cattivo che mi prendeva in giro e metteva le lucertole (vive) nel mio astuccio. Era bello stare con lui.
Perché, allora, durante l’anno si comportava in quel modo?

Ovviamente, l’idillio non durò a lungo. Non appena iniziò l’anno scolastico, i giochi si protrassero per qualche giorno, poi tornarono i dispetti. Meno pesanti di quelli dell’anno prima, ma tornarono. Smise di mettere le lucertole nell’astuccio, ma continuò a dirmene di tutti i colori. Smise di vandalizzare la mia casa quando Angela veniva a prendere il tè – allora l’antica amicizia tornava a galla. Però mi ferì. Allora lasciai perdere.
D’estate, all’improvviso, diventava un’altra persona. Come se il demone che lo possedeva tutto l’anno si disintegrasse e lasciasse il posto a quel bambino solare che giocava con me.
Mi abituai ai suoi cambiamenti. Durante l’anno lo ignoravo, durante l’estate stavamo insieme. La cosa mi distruggeva.
Poi iniziammo le medie, frequentando classi diverse. Non mi fece più dispetti – anzi, ogni tanto mi salutava. Sul pianerottolo ci fermavamo a chiacchierare.
E d’estate tornavamo i bambini di una volta.
Un giorno provai a chiedergli perché si comportasse così.
«Non... non lo so. Mi comporto in modo strano?».
Lui non aveva idea di quel che faceva.
«Sai com’è, durante l’anno scolastico a malapena mi degni di un’occhiata e d’estate passi tutto il tempo insieme a me. È egoista da parte tua pensare che io sarò sempre qui. Non è bello essere la seconda scelta».
Ero molto coraggiosa, in quel periodo.
«Non sei la mia seconda scelta»
«Ma ti comporti come se lo fossi»
«Semmai è il contrario. I tuoi amici non ci sono e quindi devi stare con me. Pensi che non l’abbia capito?».
Cosa?
«Non rigirare la frittata! Non è così. Sei tu che mi chiami, non io che chiamo te. E comunque, io sto con te perché mi piace, non perché non ho di meglio da fare» risposi.
Rimase spiazzato per un attimo, prima di rispondermi.
«Allora scusami, Alex».
Sgranai gli occhi.
«Per cosa?»
«Per averti trattata male negli scorsi anni»
«Non voglio che ti scusi, Jake. Voglio solo sapere perché».
«Te l’ho appena detto».
Mi ci volle un po’ per fare due più due.
«Aspetta. Mi stai dicendo che mi hai trattata da schifo perché pensavi che per me tu fossi la seconda scelta?».
Non rispose. Lo presi per un sì.

Chiarirsi servì a molte cose. L’anno dopo, a scuola, fu molto più gentile con me. Il giorno del mio compleanno mi portò anche un regalo – non a scuola, ma mi aspettò sul pianerottolo. Fu un gesto carino da parte sua.
Capivo perché non me lo aveva dato a scuola: le voci giravano in fretta. Né io né lui eravamo interessati a diventare le due persone più chiacchierate della scuola.
Anzi, lui era già abbastanza sotto i riflettori. Con quell’aspetto particolare, irlandese e mediterraneo, attirava l’attenzione di non pochi. Sotto i lineamenti dolci di bambino già si indovinava il bellissimo ragazzo che sarebbe poi diventato.
Non volevamo attirare pettegolezzi.
Il suo regalo era una sciarpa azzurra di lana grossa, morbidissima. Ancora ce l’ho, ma ho smesso di metterla.


Fine estate. Tra la seconda e la terza media.
Quel giorno l’aria era più fresca del solito. La fine dell’estate si avvicinava, ma il tempo era ancora piuttosto buono, perciò io e Jake decidemmo di passare la giornata a Regent’s Park.
Arrivammo al parco e camminammo per un bel po’ prima di crollare, sfiniti, sul prato, da qualche parte vicino a un imponente albero che non riuscivo a identificare, ma che poi scoprii essere una quercia.
Rimanendo sdraiata sull’erba, chiusi gli occhi, godendomi il tepore dei raggi del sole sul viso – l’ombra dell’albero non arrivava fin lì.
Né io né Jake dicevamo una parola, ma il silenzio tra noi non era imbarazzante, di chi non sa cosa dirsi. Era un silenzio bello, naturale, quello di due persone che non hanno bisogno di parlare per capirsi.
Aprii gli occhi e lo guardai. Ma lui guardava il cielo, non me, con un’espressione indecifrabile negli occhi grigiazzurri illuminati dal sole.
Non riuscii a trattenermi.
«A che pensi?» chiesi, rompendo il silenzio.
«Vorrei che l’estate non finisse mai» rispose, guardandomi.
Deglutii, il suo sguardo era così serio che non sembrava quello di un tredicenne.
Quelle parole causarono un qualcosa di strano dentro di me. Sentivo il mio cuore battere forte, come in attesa.
Eravamo sdraiati l’uno accanto all’altra, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le nostre mani talmente vicine da potersi toccare, se l’avessimo voluto.
Non riuscii a sostenere il suo sguardo, perciò tornai a guardare il cielo – anche se i miei occhi continuavano a vagare verso i suoi, desiderosi di incrociare il suo sguardo.
Sorrise, e sorrisi di rimando.
«Facciamo un gioco. Io ti dico un segreto e tu me ne dici uno tuo. Okay?» disse.
«Che genere di segreti?»
«Non so… quei segreti che ti porti dentro e che non hai mai rivelato a nessuno perché pensi che siano cose stupide o che potrebbero renderti ridicolo».
«Perché dovrei rivelarti i miei segreti, Jake? E chi mi dice che non li rivelerai ai quattro venti?» chiesi a mia volta, arrossendo.
«Perché altrimenti non sarebbe un gioco. E sta’ tranquilla. Non rivelerei niente a nessuno per nulla al mondo. Con me i tuoi segreti sono al sicuro» disse, mano sul cuore.
«D’accordo. Ma comincia tu» dissi.
Jake ci pensò un po’.
«Okay, ci sono. Ho una paura fottuta di andare al liceo» sentenziò. Alzai un sopracciglio. Ma lui non era tipo da non-ho-paura-di-niente-rosicate-bastardi? E adesso mi dice che ha paura del liceo?
«Posso chiederti perché?»
«No. E comunque adesso tocca a te» mi ricordò lui.
«Ah, giusto. Be’, anch’io ho paura del liceo».
Jake fece una smorfia.
«Teoricamente non vale perché l’ho già detto io, ma chi ha detto che pratica e teoria sono la stessa cosa? Dunque, un altro segreto… uhm… ho paura delle altezze».
«Soffro di claustrofobia» replico.
«Sono troppo goffo per ballare»
«I ragni mi terrorizzano»
«Adoro i Beatles»
«Sono una schiappa in cucina»
«Il mio peggior incubo l’ho avuto quando avevo otto anni. Sognavo di fare bungee-jumping nel Gran Canyon. Mi spaventò a morte»
«Il mio è stato di incontrare un ragno grosso quanto Aragog, quello della Foresta Proibita».
Jake sorride ancora di più.
«Adoro Harry Potter»
«Per me è lo stesso»
«Mi piacerebbe diventare un medico»
«Avevo un’amica immaginaria, quando avevo sette anni. Si chiamava Rose, aveva i capelli rossi come i miei e ballava il tip tap»
«Vorrei davvero che l’estate non finisse mai» ripeté, e io provai di nuovo quella sensazione – quello sfarfallio nello stomaco che mi rese tesa come una corda di violino.
«Be’, ogni studente del mondo sarebbe d’accordo con te» ribattei, la gola riarsa, il mio sguardo che vagava disperatamente tra Jake e il cielo, soffermandosi sempre di più su di lui.
«Oh, ma non è affatto per la scuola» disse, e a quel punto mi guardò di nuovo, così serio, e il mio cuore sembrò dimenticare di nuovo come si batte normalmente.
«Tocca a te» mormorò.
«Io…» credo di essermi innamorata di te, mi veniva da dire, ma mi fermai in tempo. «Mi piacerebbe viaggiare. Sai, come mia zia Sophie. Vedere il mondo, gente diversa…». Deglutii, tornando a guardare il cielo. Quello era davvero un segreto e doveva assolutamente rimanere tale. E poi, “innamorata” è una parola grossa. Mi piaceva, questo sì.
Rimanemmo al parco fino all’imbrunire. Poi, al tramonto, Jake si alzò e mi porse la mano, aiutandomi ad alzarmi – non che ne avessi bisogno, ma era un gesto carino da parte sua.
Ci riavviammo verso l’uscita, affiancati, le nostre mani che si sfioravano, come per caso, e io desideravo ardentemente che mi prendesse per mano, cavolo.
Ma ad ogni passo le nostre mani si avvicinavano sempre di più, impercettibilmente, e solo alla fine, con una certa titubanza, Jake mi prese per mano, intrecciando le sue dita alle mie, e il mio cuore stava per esplodere come un palloncino. Sorrisi.
Dopotutto, eravamo solo due bambini che giocavano a fare gli adulti.
 
 






***
Angolo autrice
Salve a tutti! Avevo detto che prima o poi avrei fatto uno spin-off, e infatti eccolo qui. Spero che abbiate apprezzato questo tuffo nel passato.
Lo ammetto, avrei dovuto pensare prima al capitolo, ma per ora sono un po’ indecisa. Intanto, accontentatevi di questa... cosa. Non sono pienamente soddisfatta, ma...
Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!
-H
  
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