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Autore: luxuryloser    14/09/2014    3 recensioni
Ogni volta, invece, faceva più male, e i fantasmi restavano nella sua testa. Poco importava che si allontanasse miglia e miglia, che si ubriacasse su una spiaggia sudamericana o scalasse ogni montagna alla sua portata, che si distraesse in qualsiasi modo possibile: ogni volta un po’ della sua fiducia si sgretolava, e per via dell’erosione da roccia diveniva sempre più simile a tempesta di sabbia.
Per quante migliaia di anni?
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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In a land of gay and in a time of gay,
the destiny of a gay kingdom
rests on the shoulders of a young gay.
His name, Merlin.


Dopo troppo tempo passato senza scrivere, e cinque stagioni guardate in poco più di una settimana, è stato quasi automatico creare questo esordio notturno nel fandom (se non si considerano le decine di gifset rebloggate su tumblr, anche indirette responsabili della mia ispirazione). Perché quei due si amano in ogni universo, in ogni vita che si trovino a vivere. E sì, eventualmente anche in quella che descrivo io.
Se scrivessi a scopo di lucro e questi personaggi mi appartenessero, saremmo probabilmente tutti e tre su un'isola dal clima più tropicale di Avalon.



 

How many thousand years?

 
1. Millesettantotto anni, sei mesi e dodici giorni.
 
 
Summer without you is cold as winter.
Winter without you is even colder.
-Lemony Snicket
 
 

In oltre mille anni, Merlin aveva imparato molte cose.
Che si poteva cucinare qualsiasi cibo nel microonde, a patto di non lasciare la pellicola trasparente che avrebbe fatto esplodere la confezione di lasagne; che, in qualsiasi epoca e sotto qualunque forma di governo, la Scozia e l’Inghilterra sarebbero state come i cuginetti che si odiano ma sono forzati a trascorrere le feste insieme; che vi erano riferimenti a Shakespeare praticamente in ogni cosa, da Tolkien ai biscotti della fortuna; e che quando si diceva “in futuro” non si intendeva mai domani, o tra una settimana, o prima delle prossime vacanze di Natale.
Se è per questo, aveva anche imparato a memoria ogni singola versione del tragitto che dalla sua abitazione portava ad Avalon.
Pardon, alla Glastobury Tor, nel Somerset.
Aveva imparato a memoria finanche i segni polverosi lasciati dalla pioggia sul cartello indicatore alle porte della città.
In quella particolare circostanza aveva l’aspetto che un tempo in molti avevano associato al potente Emrys, ed era Emrys il cognome che compariva inciso sul campanello d’ottone della villetta indipendente che aveva ereditato da se stesso per le scorse cinque o sei generazioni, nella periferia della cittadina.
Si strinse nel parka blu, di qualche taglia più grande del dovuto, il tempo inclemente del sud dell’Inghilterra che gli tirava le sue sferzate, come intenzionato a ricordargli la sua condizione di perenne vagabondaggio, alla mercé di quel lunatico destino.
Quella versione di sé, quel vecchio mago dall’aria sprezzante, o forse rassegnata, restava immobile nonostante le raffiche di vento che gli spingevano i lunghi capelli bianchi davanti agli occhi.
Ed erano quegli occhi l’unica parte di lui che l’incantesimo di invecchiamento non aveva toccato, lasciandoli blu e brillanti, a volte lucidi suo malgrado come il giorno in cui, incapaci di effondere una sola lacrima, avevano dato l’arrivederci all’altra metà di lui stesso.
Rifiutava perfino allora di pensare ad un addio.
Non che passasse le sue giornate sulle sponde di quel prato che un tempo era stato un lago, non che avesse lasciato le sue impronte su quelle zolle, ancora meno calpestate in quel periodo dell’anno. Aveva anche una vita.
Era stato consigliere, bibliotecario, medico, scienziato e perfino, quando ancora contava qualcosa, accusato di eresia. Aveva assistito al disvelarsi delle pieghe della storia, nella sua condizione di perenne attesa che essa invece si ripetesse, e vi aveva preso parte in ogni modo, dal costruire barricate per la Francia rivoluzionaria al contrabbandare alcolici durante il proibizionismo, sempre amaramente divertito nel trovare parallelismi con la sua vita nel regno di Uther prima, e di Arthur poi.
Di recente, con l’aspetto di un ventiseienne un po’ hipster e un po’ più asociale, si era anche iscritto alla facoltà di medicina di Londra come studente fuori corso. Guidava per 137 miglia una Ford blu elettrico che aveva preso usata, e passava gli esami senza nemmeno sforzarsi di studiare, dandone anche più di quanti fossero previsti in un anno. In qualche modo, nonostante si trattasse di conoscenze che non avrebbero mai sfiorato la mente di un uomo dell’alto Medioevo, più interessato alla potenza di una spada che a quella delle cellule staminali, quell’ambiente non mancava mai di ricordargli gli anni trascorsi con Gaius.
Con un sorriso tirato, si appoggiò per un momento alla staccionata di legno, un sospiro mentre appoggiava la guancia alle nocche, stanco.
Si era ripromesso di non pensare, di recente.
Dopo millesettantotto anni, sei mesi e undici giorni (non che li contasse, sia chiaro: era la sua mente ad essere troppo potente per glissare su dettagli così evidenti), aveva fatto l’abitudine ad ignorare che fosse Samhain, o il solstizio d’inverno, o l’anniversario della nascita di Arthur, o, gli spiriti dell’Antica Religione sapevano quanto facesse male, quello della sua morte. Qualsiasi data che potesse avere un collegamento, che lo lasciava, ovunque si trovasse, con un senso di ottenebramento dato dalla troppa magia che scorreva impetuosa nelle sue vene, e che ormai fin troppo spesso passava attardandosi in un pub di Londra dopo le lezioni all’università, deciso a tenersi lontano, almeno fisicamente, da quelle ipocrite terre inutili.
Ma quel giorno era diverso. Se ne era sentito quasi richiamato, come quando sentiva nella testa la voce di Kilgarrah, come un satellite di magia che ruota intorno ad una fonte più grande.
Merlin amava la pioggia, quella pioggerellina sottile che aveva appena iniziato a cadere. L’aveva sempre fatto, finendo per perdersi a camminare sotto le gocce d’acqua che si insinuavano tra le pieghe del suo cappotto troppo largo.
Dopo qualche minuto o ora, amava anche quella pioggia temporalesca ed insistente che sembrava volergli trapassare le membra e l’anima, fino alle ossa, cancellando ogni traccia di colore e ricordi. Sarebbe rimasto anche tutta la notte a perdersi in essi mentre scivolavano via in quelle gocce un po’ acide e fredde come quella serata strana, lasciandosi andare ai brividi di magia repressa che lo percorrevano ogniqualvolta si avvicinava troppo ad Avalon (per quanto si sforzasse, non l’avrebbe mai chiamata semplicemente Tor).
Ma quella sera era diverso. Come se la calamita avesse invertito i suoi poli, spingendolo via dopo averlo attirato troppo vicino, Merlin si sentì come sbalzato indietro e, con i vestiti inzuppati che lo tiravano verso terra, percorse le poche centinaia di iarde che lo separavano dalla villetta quasi di corsa, le corte unghie praticamente conficcate nei palmi delle mani, quello strano bisogno di allontanarsi dalla pianura più forte della stanchezza di mille anni, come se voltando le spalle a quel baluardo della Religione Antica avesse potuto lasciare indietro anche se stesso.
Ogni volta, invece, faceva più male, e i fantasmi restavano nella sua testa. Poco importava che si allontanasse miglia e miglia, che si ubriacasse su una spiaggia sudamericana o scalasse ogni montagna alla sua portata, che si distraesse in qualsiasi modo possibile: ogni volta un po’ della sua fiducia si sgretolava, e per via dell’erosione da roccia diveniva sempre più simile a tempesta di sabbia.
Per quante migliaia di anni?
Il cigolio del cancelletto che si chiudeva lo accompagnò fino alla pesante porta in legno, che aprì meccanicamente. La casa era vissuta, accogliente, come un biglietto da visita scritto a mano, un nome giusto sul bicchiere di Starbucks, un gran casino.
Buttò il cappello e il parka a sgocciolare sul gancio dell’appendiabiti a parete, si sfilò gli stivali sistemandoli sotto il termosifone tiepido e lasciò che il suo corpo riprendesse il proprio vero aspetto. Non lo faceva quasi mai: entrava in casa come il vecchio signor Emrys, e così rimaneva mentre guardava vecchie puntate di telefilm prodotti dalla BBC, mentre apriva alla vicina che chiedeva in prestito del caffè macinato e si assicurava che tutto andasse bene, mentre rispondeva ai messaggi dei suoi pochi conoscenti alla UCL. Forse era solo un modo per non correre rischi, o più probabilmente un espediente per proteggersi dal restare solo con se stesso, dal rivedere, così vicino ad Avalon, il ragazzo che aveva spinto la barca nel lago con la magia. Aveva smesso di invecchiare quel giorno.
Quasi per inerzia si scaldò la cena, le coronarie ormai rassegnate al suo abuso di cibo spazzatura, e quasi per masochismo gravitò verso la soffitta a soppalco, dove teneva qualcosa che non avrebbe dovuto avere. Passò i polpastrelli sui bordi della cassa di cuoio, delicatamente, quasi fosse stata talmente fragile da deteriorarsi al tocco e non mantenuta solida dalla magia, e la aprì con un tremito. In oltre mille anni, aveva permesso a se stesso di farlo solo tre volte.
Soffiò sulla copertina del libro di magia di Gaius, spazzando via polvere inesistente. Affondò le mani nella morbidezza familiare dei vestiti, sollevando dal mucchio il fazzoletto rosso, macchiato dall’alone di sangue non suo. Infine, strinse tra le dita la forma inconfondibile di un medaglione.
Lo stregone crollò a terra, ritrovandosi in ginocchio con quel piccolo pezzo di mondo stretto addosso e, per la prima volta dopo millesettantotto anni, si permise di piangere.
 
La mattina lo trovò in quella stessa posizione. Sempre che le tre e ventidue del pomeriggio potessero essere considerate mattina, e che l’essersi praticamente appallottolato su un ingombro pavimento di legno potesse essere considerato una posizione e non un modo per infliggersi volontariamente le pene dell’Inferno.
Merlin finse di non vedere quello di cui si era circondato, mentì a sé stesso cancellando l’immagine del medaglione di Lady Ygraine abbandonato accanto alla cassa aperta, cancellandone l’impronta impressa sulla pelle della sua guancia.
Un lampo di occhi dorati, un rimprovero per quella debolezza, ed ogni cosa tornò al suo posto. Lo stregone scosse la testa, dandosi mentalmente dell’idiota, e richiuse dietro di sé la botola di quella maledetta stanza. Come se non ci fosse mai rientrato.
Ammucchiò i vestiti del giorno prima, che aveva ancora addosso, sulla cesta accanto alla lavatrice, e si buttò sotto la doccia senza preoccuparsi di regolarne la temperatura. Il fuoco non può uccidere un Signore dei draghi. Si abbandonò alla pressione del getto come faceva alla pioggia, sciacquando via la polvere e realizzando per la milionesima volta che i pensieri sapevano nuotare, nell’acqua densa di balsamo al sandalo, nel caffè macchiato di latte e cacao, nella tequila e nel tempo.
Quando il vecchio Emrys uscì di casa, di nuovo avvolto nel cappotto ancora umido e di nuovo lasciando l’ombrello appeso per il manico chissà dove, venne travolto da una cascata d’acqua che si era come creata dal nulla, scendendo gravitazionalmente da un dirupo inesistente. Non ricordava che avesse mai piovuto così tanto in settembre, neanche quando era il suo stato d’animo ad influenzare il tempo, e lui si sentiva un uragano.
Sabato pomeriggio, un bisogno fisiologico di caffeina e la sensazione di essere al centro di una qualche tempesta, il cappello calato troppo in basso sugli occhi per celare il loro continuo accendersi dorati, incontrollabili.
“Ormai nemmeno i meteorologi della BBC fanno le giuste previsioni.”
“Cara, ai miei tempi tempeste come questa erano una bazzecola, ricordo quando andavo a scuola in bicicletta sotto i bombardamenti, quelle sì che erano difficoltà.”
Rise burbero della superficialità piccata delle sosia della Regina Elisabetta sedute al tavolo della piccola caffetteria, ordinando con cinque ore di ritardo la sua solita mocha. E anche un muffin al mirtillo, magari due.
“Ma Mildred, non hai sentito dell’inondazione?”
“Di cosa parli?”
“La zona della Tor è completamente allagata, è come se si fosse aperto un altro Canale.”
Merlin non perse tempo a scusarsi del caffè rovesciato a terra e schizzato sull’orlo del soprabito di Mildred. La porta della caffetteria sbatté alle sue spalle mentre il destino si decideva a scrivere un nuovo capitolo.
Tre miglia. Quattromilaottocentoventisette metri percorsi ai velocità folle, la Ford che sbandava sulla strada scivolosa, gli anni che lo abbandonavano come avevano nel tempo fatto le speranze, che in un momento erano tornate come la magia nella Grotta dei Cristalli, i battiti cardiaci che acceleravano per motivi del tutto indipendenti dallo sforzo.
Lo sentiva. Lo sentiva, e comunque non riusciva a spiegarsi cosa fosse. L’ardore di un fuoco di drago che dal cuore gli si irradiava attraverso tutto il corpo, rifondendo una medaglia le cui due facce erano state troppo a lungo separate, l’inchiostro del destino che finalmente si asciugava sulle parole “in futuro”.
L’uomo che scese dalla macchina, abbandonandola con la portiera spalancata nel bel mezzo di un acciottolato fangoso, aveva gli occhi dorati accesi di magia e di fede, corti e spettinati capelli neri e un sorriso che non aveva sfiorato il suo viso per millesettantotto anni, sei mesi e dodici giorni.
“Sei in ritardo, Merlin.”
  
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