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Autore: Fannie Fiffi    14/09/2014    2 recensioni
[Bellamy Blake; 1x13]
Quasi non si accorge della schiena che sprofonda nel fango e nel terreno umido, l’odore del sangue e della paura a stuzzicargli i sensi, e poi Bellamy sorride.
Questo è lui che finalmente scopre se stesso. Questa è la sua eredità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bellamy Blake
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Hero of the Story'
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Buonasera!

Eccomi qui con una breve OS, una song-fic dedicata al meraviglioso Bellamy Blake e ispirata alla canzone My Name, di Charlie Winston.



 


 
 
I won’t apologise for the mess that you’re in
I’m gonna hide my eyes from your crimson sin




Succede che a volte Bellamy Blake si senta in colpa.

Si tratta di un sentimento che non gli è estraneo, che sente crescere dentro di sé come un germoglio velenoso ora dopo ora, giorno dopo giorno.

La prima volta che lo prova, sua sorella viene trascinata via da tre guardie e le sue grida gli riempiono le orecchie.

Lui, con le sue stesse mani, ha messo per inscritto la morte di sua madre e la reclusione di sua sorella.

Non c’è nessun altro da biasimare.

Vorrebbe poter dire di sentirsi in colpa per il proiettile che ha piantato nel corpo del Cancelliere Jaha, ma quella sarebbe solo una bugia. Non se ne pente. Premerebbe quel grilletto altre mille volte, pur di seguire Octavia dovunque.

La seconda volta, invece, quando lascia Atom a morire. È così arrabbiato, così furente, ché non prende minimamente in considerazione le conseguenze del suo atto sacrilego. Ancora una volta, ha fatto sì che la vita di una persona dipenda da una propria scelta.

La terza volta è quando trecentoventi persone muoiono soffocate perché lui ha distrutto una dannata radio. E quello, beh, quello lo mette in ginocchio. Letteralmente in ginocchio. Così devastato da implorare la morte, da urlare fino a farsi scoppiare i polmoni di mettere fine alle proprie sofferenze, da ammettere, finalmente, di non essere più in grado di lottare.

Una parte della sua mente, quella ancora legata in qualche modo all’istinto di preservazione, gli suggerisce che non intendeva davvero quelle cose, che era solo l’effetto delle noccioline allucinogene.

Lui annuisce mentalmente e se ne convince, ma, in fondo, sa che intendeva esattamente quelle parole.

Non sa bene come, forse è colpa di quel meraviglioso e tossico mondo in cui si ritrova, ma a un certo punto il senso di colpa svanisce.

Biasima anche la gravità, che forse lo schiaccia talmente tanto da distruggerlo, e immagina che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in lui.

Fatto sta, però, che quella piaga sparisce – ogni tanto ricompare, ma lui preferisce frantumarsi le nocche contro un albero piuttosto che sentirsi ancora in quel modo – e lui si sente un po’ meno umano.

Decide, quindi, che non può farsi peso di tutto quello. Che non può essere solo una sua responsabilità, che i colpevoli devono essere altri. È per questo che si volta dall’altro lato e finge di non vedere, di non accorgersi del baratro in cui stanno tutti scivolando inesorabilmente.



 
No sacrifice can make atonement again
 

 
Bellamy ascolta in silenzio i discorsi pretenziosi e utopici di quei ragazzini che credono davvero che per loro ci sia una possibilità.

Oh, poveri, poveri illusi.

Lui lo sa, nella parte più intima e recondita del suo Io, che loro non sono altro che dannati. Tutti e cento, nessun escluso.

Nemmeno la bella Principessa. Non potranno mai essere salvati, nonostante i loro sforzi e le loro battaglie.

Perché  quando gli urla di alzarsi e lottare, voi siete dei guerrieri, cazzo!, quando li incita a non fermarsi mai, a non farsi definire e limitare da altri, a non avere paura, a continuare a combattere, la verità è che lui sa che non c’è speranza per loro.

Cerca di convincerli, tenta in qualsiasi modo di crederci anche lui, ma dopo sangue, morti, tombe e bombe, lui un po’ comincia ad immaginarla una fine per loro. Comincia, col tempo, a persuadersi che forse è la paura, ciò che ti tiene vivo. Senza paura, c’è morte.

E questo va così contro tutto quello in cui ha sempre creduto, ma la Terra non è fatta per credere in qualcosa, è fatta per sopravvivere.



 
The blood is on your hands, you should be ashamed


 
Ogni tanto Bellamy pensa a quello che è diventato.

Un animale selvaggio, ridotto ai suoi puri e più innati istinti, spinto unicamente dall’istinto di sopravvivenza. La sua umanità, quella che inizialmente ha tanto disprezzato – credeva che lo rendesse debole, in realtà lo rendeva semplicemente lui – è andata perduta, oramai.

Medita attentamente su tutto ciò che ha dovuto fare, i momenti in cui non aveva nessun’altra scelta se non vincere, le persone che ha dovuto sacrificare, la persona a cui ha tolto la vita, lo sguardo disperato e confuso di Dax mentre il proprio sangue scivolava viscido fra le mani del suo leader.


 
You won’t forget my name!


 
Di una cosa è sicuro: non verrà dimenticato.

Il suo nome vivrà finché lo farà la razza umana, lui sarà colui che ha guidato cento ragazzini alla riscoperta del nuovo Vecchio Mondo, sarà l’eroe oscuro pieno di peccati che tutti vorranno essere. Sarà l’emblema di una tenebra che tiene vivi anche sottoterra.

Lui non sarà colui che non ha avuto paura, sarà la persona che della paura ha fatto la sua forza e il suo tratto distintivo.

Perciò Bellamy ingoia nel profondo del suo corpo tutto quello che è stato costretto a fare, il senso di colpa e l’odio, l’impotenza e la vergogna emotiva.

Tieni duro, vai avanti, non smettere di lottare. Diviene quasi un mantra.


 
Behold! The angel’s singing sweet
for righteousness; a cry!
He sings for you so tenderly:
“Apple of my eye! ”



Poi pensa ad Octavia.

La sua cara, dolce e delicata sorellina. Pensa all’idea che si è fatto di lei un anno prima, quando era una ragazzina costretta a sopportare attacchi di panico e una vita sotto terra. Quando il suo compito era proteggerla e accudirla e darle tutto l’amore che Aurora Blake era troppo impegnata a rivolgere alle persone sbagliate.

Lui lo sa, che sua madre ha fatto cose deplorevoli pur di tenerli in vita. È buffo, schifosamente ironico, il fatto che ora non possa davvero biasimarla, che finalmente sia in grado di capirla. Lo sussurra una notte, lo sguardo rivolto verso la luna: “Ho capito, mamma, ho capito.”

Octavia, che ora brandisce il proprio passato come un’arma affilata, uno scudo impenetrabile e imprescindibile dalla propria anima, e che non è più la sua cara, dolce e delicata sorellina.

È una donna, una guerriera, un’impavida lottatrice. E per quanto Bellamy si ostini a portare testardamente avanti la sua idea patriarcale di protezione e preoccupazione, nel profondo del suo cuore lo sa che tra i due è lei la più forte.

Ricorda il modo in cui era solito cantarle dolcemente quella ninna nanna che le piaceva tanto, nel buio della loro stanza sempre troppo stretta, ricorda benissimo cosa voleva dire desiderare a tutti i costi una vita giusta e vera per la luce dei suoi occhi.

Ricorda anche il disperato modo in cui ha detestato l’inettitudine provata nel constatare che a lui non è mai stata concessa una scelta. È proteggi o muori, in fondo.
 
 
 
Stay right where you are,
Don’t be foolish to try any courageous moves
You won’t be saving lives


 
Vorrebbe affermare di poter morire con la finale consapevolezza di non aver esitato, di essersi buttato con tutto il coraggio dei Cancellieri dell’Arca o di quegli eroi greci che si sacrificano l’uno per l’altro, con tutte quelle prediche sull’onore e la temerarietà, ma non può.

Non può, quando una vocina nella sua testa gli suggerisce di arrendersi. Non essere folle, non continuare a combattere, non riuscirai a salvarli.

Sono segreti bisbigliati al suo orecchio da qualcuno con un pessimo senso dell’umorismo.

Per un attimo, Bellamy si immobilizza. Non spara più. Strisciando nel fango dei tunnel attorno al campo, si ferma.

In lontananza sente gli spari, le urla, l’impervietà della guerra e tutto il suo ambaradam, ma il silenzio è più forte.

Shh, respira piano, appoggiati un attimo. Riposati.
 
 
 
I didn’t  do all I’ve done for you to put me to shame
Now, in your final hour, my legacy remains
 
 

E alla fine si ferma, sì. Si riposa, anche. Poi pensa. La sua mente gira vorticosamente e non sembra essere mai stata più attiva di quel momento – bella sensazione del cazzo, l’adrenalina – e Bellamy capisce. Vede: la morte è gloria.

Ecco cosa deve fare.

Comincia a correre prima che il cervello possa risvegliare l’istinto di sopravvivenza, e percepisce con chiarezza i muscoli bruciare e tirare, l’odore acre del sudore che gli bagna i capelli e i bordi della giacca, il respiro veloce, rumoroso, testardo. Eppure corre verso ciò che lo attende, mettendo a tacere ogni atomo del suo corpo che lo implora di fermarsi, di non distruggersi.

Quando arriva nel cuore del campo e i suoi occhi si aguzzano alla vista dei corpi abbandonati a terra e della lotta mortale, tira mentalmente un sospiro di sollievo. È qui che è iniziato, è qui che deve finire.

Adocchia un Grounder due volte più grande di lui e, mentre gli altri stramazzano al suolo sotto i suoi colpi, lui si sente quasi meglio.

Marcia nella sua direzione con la schiena china, controllando i fucili che trova lungo il passaggio, e nel momento in cui i loro occhi si incrociano, lui riconosce una scintilla in quelle iridi selvagge. Dice: “Ti annienterò.”

Ha sempre pensato che nel momento in cui sarebbe morto avrebbe pensato alle persone più importanti per lui. Ha immaginato di rivolgere il suo ultimo pensiero ad Octavia, a sua madre, a Clarke.

In ogni caso, nei lampi d’irrazionalità in cui s'è concesso di essere debole, ha provato ad immaginare l'ora della sua dipartita, il momento esatto in cui sarebbe finito tutto.

Ora realizza che non è affatto come l’aveva pensato.

Né Octavia, né sua madre, né Clarke.

C’è solo una sottile consapevolezza, come se sia dotato di una seconda vista che gli permette di notare ogni singolo particolare di quell'azione violenta. Tutto sembra immobile, sospeso nel tempo e nello spazio, come sott’acqua, e forse lui potrebbe anche fare qualcosa – qualsiasi cosa – ma è come colto da una strana impotenza: non può far altro che guardare l'impatto e attendere il dolore, il riconoscimento di una ferita, la caduta.

Per un attimo tutto smette di muoversi e respirare, poi l'attimo dopo il mondo ricomincia a ruotare e a fare tanto, tanto rumore.

Eppure il Re ribelle percepisce quasi una pace, una tranquilla serenità, nell’istante in cui sente la mascella fare crack, staccarsi dal suo posto e bruciare tanto da fargli salire le lacrime agli occhi.

Non ha nemmeno il tempo di realizzare la quantità di dolore che il suo corpo sfiancato sta sopportando, perché ancora una volta l’uomo davanti a lui lo colpisce con tutte le proprie forze, e questa volta lui cade.

Le ginocchia tremano e si infrangono al suolo in un tonfo secco, ed è quasi grato di potersi finalmente lasciar andare. Quasi non si accorge della schiena che sprofonda nel fango e nel terreno umido, l’odore del sangue e della paura a stuzzicargli i sensi, e poi Bellamy sorride.

Questo è lui che finalmente scopre se stesso. Questa è la sua eredità.  


 
  
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