Nymphs' Queen
27
Luglio 1845
Era
una notte tranquilla, con il cielo limpido e le
stelle ad illuminare il sentiero di ciottoli che si stendeva a ovest.
Era un
luogo particolare: i fili d’erba e le foglie degli alberi
erano mossi da una
leggera brezza notturna, gli occhi dorati di un gufo solitario
brillavano
nascosti tra i rami, piccole lucciole disegnavano cerchi luminosi
nell’oscurità. Qualcosa di magico vibrava
nell’aria.
Il Tenente Jessie Pavelka se ne
stava seduto davanti al fuoco, immerso in quella notturna bellezza,
intagliando
distrattamente un ciocco di legno chiaro. Le fiamme illuminavano il suo
bel
volto, troppo giovane per ricoprire quel ruolo che gli era stato
imposto. I
suoi capelli, biondo cenere, erano perennemente sparati in ogni
direzione, come
se fossero appena stati colpiti da una scarica elettrica. Le sue guance
erano
ricoperte da una leggera barbetta incolta che aveva ormai rinunciato a
tagliare.
Ma quello che lasciava più sconvolti nel suo viso erano i
profondi occhi grigi
che lui spesso puntava verso il cielo.
Il ragazzo se ne stava
là, seduto alla luce del fuoco, a riflettere sulla sua vita.
Aveva ventiquattro
anni ed era a capo di una squadra di trenta soldati stanziati sul
fianco di una
montagna di cui a nessuna delle due fazioni in guerra interessava
nulla. Erano
lì giusto in caso (improbabile, se non impossibile)
d’attacco. La squadra
passava il tempo ad aspettare la battaglia, che però non
sembrava aver
intenzione di arrivare. Meglio così. Nonostante le lamentele
di alcuni, montare
la guardia e attendere la fine di un’altra pacifica giornata
era decisamente
più piacevole che rischiare la vita in trincea. E poi,
avevano un sacco di
tempo libero a disposizione, che spesso sfruttavano per praticare del
sano
esercizio fisico all’aria aperta.
All’improvviso una flebile musica si sparse
nell’aria. Erano note
leggere, dolci, come lo sbocciare dei fiori, come un battito
d’ali di farfalla.
Non poteva essere uno dei suoi uomini a produrre quella melodia: oltre
al fatto
che non credeva ci fosse qualcuno di così bravo tra di loro,
si erano ritirati
nelle proprie tende già da un po’, e il silenzio
che c’era stato fino a pochi
istanti prima placava ogni dubbio. Nel frattempo, le note erano
diventate
sempre più forti, al punto che tutti i soldati ormai erano
svegli e parecchio
confusi. Si affacciavano dai loro alloggi, chi assonnato chi
spaventato.
Guardavano lui, che si era alzato in piedi e aveva posato la statuetta,
stringendo in pugno il coltellino svizzero. Nell’istante in
cui furono tutti
quanti svegli e al centro dello spiazzo davanti
all’accampamento, sbucarono
fuori dal bosco decine di ragazze. Erano bellissime. Portavano tutte
corti
abiti bianchi, leggeri come dei veli; i capelli che volavano al vento.
Grandi
orecchini pendevano dalle loro orecchie, tintinnando a tempo di musica.
Ballavano,
ballavano a piedi scalzi nell’erba, a ritmo di quella musica
che nasceva dai
loro movimenti aggraziati. Erano simili, eppure completamente diverse
l’una
dall’altra: c’era quella con i capelli rossi, gli
occhi verdi e le orecchie un
po’ a punta; quella con tratti orientali e la compagna vicina
con la pelle
color della cioccolata, quella con i capelli corti e neri che ricordava
moltissimo un elfo. Ciò
che le
accumunava… era la magia. Sì, dovevano essere per
forza magiche.
Si riunirono in un grande
gruppo, ballando in mezzo a loro. Ognuna di esse compiva dei passi
differenti
dalle altre, eppure tutte insieme creavano una danza unica. Si
disposero in una
lunga fila, poi, una ad una, si avvicinarono ai soldati e li presero
per mano,
trascinandoli in quel vortice di ballo. Il Tenente Pavelka si sedette
di nuovo
davanti al fuoco, riprendendo in mano il ciocco di legno, che ora
assomigliava
perfettamente ad un cavallo. «Se non sono impazzito, deve
trattarsi di un
sogno» sussurrò osservando i suoi compagni. Dopo
una prima confusione generale,
questi avevano cominciato a ballare con quelle fate, o ninfe, o che dir
si
voglia. Le stringevano fra le braccia, ridevano, scherzavano fra di
loro,
muovendosi in circolo.
«È davvero bellissimo».
Per poco lui non fece un salto sul tronco su cui era seduto. Si
voltò di
scatto: alla sua sinistra, dritta sulle gambe nude, se ne stava la
fanciulla
più bella che avesse mai visto. Portava un vestito identico
alle compagne, su
cui i lunghi capelli biondi ricadevano sciolti. L’unica cosa
che la
differenziava era una corona di cristallo che portava sul capo. Le sue
labbra
carnose erano aperte in un piccolo sorriso.
«Grazie – disse dopo essersi ripreso dalla sorpresa
– È per mio nipote.
Ha due anni».
Lei allungò la man verso la statuina e ne
accarezzò la criniera,
sfiorandola con i polpastrelli. Sfiorò anche la mano del
Tenente, che avvertì
una scossa partire dal braccio ed arrivare fino al petto, ma lei non
parve
essersene accorta.
«Mi chiamo Jessie Pavelka.
Tenente Jessie Pavelka. E tu sei…?»
Lei scivolò a sedere sull’erba di fronte a lui,
poggiandosi sulle
ginocchia. «Mi chiamo Vivian» disse con un
sussurro, fissandolo negli
occhi.
«E sei anche una regina» constatò lui.
Vivian sembrò sorpresa, poi
iniziò a ridere, portando una mano davanti alla bocca.
“Wow…” Era un suono così
puro, cristallino come tanti campanelli d’argento.
«Oh, sì. Sono la loro Regina. Ma
essere la Regina delle ninfe spesso non
ti dà neppure l’idea del tuo ruolo. Siamo un
popolo pacifico e amiamo
trascorrere il tempo tutti insieme».
«Quindi siete ninfe?» chiese il
tenente dopo aver strabuzzato gli
occhi.
Lei annuì con un sorriso. «Posso
sedermi?»
«Oh,
certo. Ecco» si spostò un po’
più a destra sul tronco per farle spazio, ma lei
non aveva le stesse intenzioni. Si
alzò
in piedi e si sedette proprio sulle sue gambe, allungando le proprie
oltre i
suoi fianchi. Erano faccia a faccia e molto, molto vicini. Jessie
rivolse
preoccupato lo sguardo verso i suoi compagni: stavano ancora ballando,
e non
sembravano aver notato nulla. Vivian cominciò a sfiorargli
il viso con
attenzione, seguendo tutti i suoi tratti con le dita: prima la fronte,
poi le
sopracciglia, il naso, gli zigomi, le labbra…
Sentiva il fiato della ragazza
mischiarsi con il suo, sapeva di frutti di bosco e di menta e di
limone. Chiuse
gli occhi, assaporando quell’essenza rinfrescante. Le sue
mani corsero a
stringere i fianchi morbidi della fanciulla, che con una mano
cominciò a
sfiorargli la base del collo. Non seppe mai per quanto tempo
restò lì, in
quella posizione, a farsi accarezzare il volto e a cullarla fra le sue
braccia.
Era così calda… come se mano a mano che
l‘aria si faceva più fredda, lei
emanasse più tepore. Era una sensazione bellissima.
«Andiamo insieme a loro» si
sentì sussurrare in un orecchio.
Si
risvegliò dal suo stato vegetativo con parecchia
difficoltà, sbattendo più
volte le palpebre. «Cosa?» chiese con voce
intorpidita. Non era ancora sicuro
che tutte le parti del suo cervello avessero ripreso a funzionare.
«Andiamo a
ballare, avanti!» lo spronò lei, spingendolo un
po’ con il proprio petto. Gli
accarezzò una guancia, facendolo voltare verso i suoi
compagni. Tutte le ninfe
erano nelle loro stessa posizione, ciascuna in braccio ad un soldato e
volteggiavano in circolo al tempo di quella musica sconosciuta.
«O-okay, certo. Andiamo» rispose un po’
agitato. Si alzò dal tronco
tenendola stretta fra le braccia, cominciando a volteggiare prima
ancora di
essere entrato nel cerchio di ballerini. Vivian cominciò a
ridere, lanciando
indietro la testa. Era bellissima. Ballarono per ore e ore, la notte
sembrava
essersi fermata solo per loro. Jessie decise di abbandonare le danze e,
dopo
aver ripreso in braccio una sorridente Vivian, si allontanò
dal gruppo.
«Il
bosco»
bisbigliò lei, poggiando le labbra sulla sua spalla nuda.
All’incirca dopo il
secondo ballo, si erano tolti tutti la camicia, troppo accalorati per
continuare così vestiti. Raggiunse gli alberi con passo
sereno, godendosi il
profumo di muschio della ragazza. Non appena l’ebbe posata a
terra, lei andò ad
appiattirsi contro il fusto di una pianta. Le si parò
davanti, poggiando le
mani ai lati della sua testa.
«Cosa
succederà adesso? - chiese preoccupato – Dopo che
saranno così stanchi di
ballare da crollare a terra esausti?
Cosa farai?»
Lei
si morse il labbro, sorridendogli felice. Sorrideva sempre, non passava
minuto
senza un suo sorriso. «Ti piacerebbe essere Re?»
chiese a sua volta, sfiorandogli
i fianchi con le dita. Gli accarezzò il naso con il suo.
«Sì
– soffiò lui sulla sua guancia –
Sì, ma solo se fossi il tuo
Re».
Non le servì altro. Strinse le braccia intorno al suo collo,
tirandolo
giù per premere il corpo contro il suo. Assaporarono
entrambi l’uno il sapore
dell’altro, quello fresco e dolce di lei e quello speziato di
lui. Le mani di
Jessie afferrarono Vivian per i fianchi e la staccarono
dall’albero,
trascinandola giù a terra sotto di sé. Ben presto
tutti i vestiti furono
lasciati al proprio destino e a dividerli rimase solo la loro pelle.
Jessie si
staccò stupito dalla labbra della ragazza, quando
sentì crearsi sotto di loro
un tappeto di foglie rosse. Lei gli sorrise, allacciando le gambe
intorno al
suo bacino e avvicinandolo ancora di più. La sua pelle era
liscia come la seta
più pregiata, calda e morbida. Lasciò scorrere le
dita di una mano sulle sue
cosce, accarezzandole lievemente, mentre l’altra affondava
nei lunghi capelli
biondi. Per la prima volta in ventiquattro anni, si sentiva vivo, come
se non
ci fosse nulla di più giusto, nulla di più
emozionante. Lì, fra le sue braccia,
Jessie Pavelka si sentì per la prima volta a casa.
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Quando
riaprì gli occhi, una forte luce lo costrinse
a richiuderli infastidito. Dopo essersi sfregato più volte
le mani sulla
faccia, il Tenente Pavelka si guardò intorno. Era disteso
fra gli alberi,
all’inizio del bosco, sotto una coperta di foglie rosse.
Spalancò gli occhi,
memore della notte trascorsa. Si ributtò a terra, spargendo
qua e là qualche
pezzo di quello strano giaciglio naturale. Si girò a
guardare in lontananza i
suoi compagni: dormivano tutti della grossa, chi stravaccato in mezzo
al prato,
chi abbandonato accanto al fuoco ormai spento, chi stretto fra le
braccia di un
altro compagno. Si passò una mano fra i capelli, prima di
stiracchiarsi. Mentre
allungava le braccia sopra la testa, le sue dita sfiorarono qualcosa di
morbido. I suoi vestiti erano ben appesi ad un ramo di un albero che
gli faceva
ombra. Un luccichio, poi, attirò la sua attenzione: vicino
al cumulo di foglie,
nascosta fra le radici della pianta, c’erano due corone: una
era quella di
diamanti di Vivian, l’altra invece una semplice fascia
d’oro. Erano appoggiata
sul cavallo di legno che aveva creato ieri, sul cui fianco
c’era intagliata una
scritta: “Questa notte”.
Il Tenente Pavelka
sorrise, mentre una risata cristallina risuonava fra gli alberi.